Lucrezia Reichlin, Corriere della Sera, 7 novembre 2023
Proprio oggi, mentre è evidente che i problemi più gravi che dobbiamo affrontare richiedono cooperazione internazionale, il mondo si frammenta in blocchi.
Apparentemente scatenate da ragioni diverse, le due orribili guerre — Ucraina e Palestina — sono figlie della crisi dell’ordine internazionale emerso dopo la Seconda guerra mondiale. Una crisi che ha preso forme diverse nel corso degli ultimi ottanta anni e oggi fa riemergere conflitti regionali mai risolti. Per questo, se ci si domanda quale siano le conseguenze economiche delle due guerre, bisogna anche rispondere alla domanda madre su quale sia il futuro di quell’ordine che oggi non regge più.
Nel 1944, a Bretton Woods, le potenze vincitrici del conflitto mondiale si accordarono su un sistema che doveva garantire stabilità ad un mondo devastato dalla guerra. Questo sistema era basato su cambi fissi, cioè parità delle valute con il dollaro che a sua volta era convertibile con l’oro, istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca Mondiale (allora chiamata Banca internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) che dovevano vegliare sulla stabilità finanziaria e la ricostruzione economica e limiti ai movimenti dei capitali per permettere ai Paesi una flessibilità nelle politiche economiche domestiche. Questo era un sistema multilaterale basato sulla forza militare e economica degli Usa e la centralità del dollaro, la nuova moneta globale. Con la guerra fredda l’Unione Sovietica ne restava fuori e altre parti del mondo, inclusa l’Asia, ai margini. Fu definito multilateralismo a bassa profondità: sí multilaterale ma costruito intorno agli interessi economici degli Stati Uniti.
Il sistema ci mise circa quindici anni a stabilizzarsi (la convertibilità con il dollaro, per esempio, arrivò solo nel 1958) e già dagli anni 60 cominciò a dare segni di una crisi di legittimità in parte causata da Europa e Giappone divenuti più forti grazie alla crescita del dopoguerra, in parte da una maggiore assertività di quello che allora si chiamava Terzo Mondo.
Tra il 1970 e il 1971 il sistema di Bretton Woods entrò in crisi e gli Stati Uniti furono costretti ad abbandonare la convertibilità tra dollaro e oro. Si entrò in un sistema di cambi flessibili che allentò l’ancora esterna delle politiche nazionali. Gli anni Settanta, tra shock petroliferi, causati dall’entrata in gioco dei Paesi produttori e conflitti distributivi nei Paesi sviluppati, furono un interim e forse una occasione perduta per ripensare all’ordine internazionale.
All’instabilità non si rispose con la riforma delle istituzioni internazionali ma con un nuovo credo, il liberismo di Thatcher e di Reagan. Cominciò un ventennio di liberalizzazioni. Si domò l’inflazione, ma al prezzo di una compressione della parte salariale sulla torta del reddito e di una finanziarizzazione dell’economia che la rese più vulnerabile. La liberalizzazione del commercio internazionale favorì la crescita di alcuni Paesi emergenti, in particolare Cina e India, ma la liberalizzazione dei capitali e la deregolamentazione del sistema finanziario portò ad una enorme crescita dei flussi di capitale rispetto al Pil mondiale, rafforzò il ruolo del dollaro e la centralità del mercato finanziario Usa. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, poi, il credito facile si sostituì alle politiche di welfare creando nuove fragilità. In questo contesto si disintegra il blocco sovietico e mentre si canta la vittoria del capitalismo liberale, la Cina va per conto suo e realizza un miracolo economico mai visto prima nella storia del mondo.
C’è chi vince e chi perde in questa fase. A vincere sono le classi medie dei Paesi emergenti e i ricchi dei Paesi maturi, ma anche chi vive in grande povertà nei Paesi a reddito più basso. A perdere sono le classi medie delle economie avanzate. Una grande redistribuzione tra Paesi e all’interno dei Paesi che mina la stabilità geopolitica, politica e sociale.
E su questa fragilità di fondo, arriva la crisi del 2007-08 che delegittima questo sistema, ne rivela le debolezze e pone nuove questioni. Questioni a cui non viene data risposta. Se è vero che la stabilità finanziaria viene restaurata grazie all’azione delle banche centrali, i costi e gli effetti distributivi sono enormi: si spendono soldi pubblici per salvare le banche, ma si impone un’austerità di bilancio a spese dei ceti più deboli. La conseguenza è una crisi politica delle democrazie occidentali soprattutto nel Paese che ne è al centro, gli Stati Uniti.
Nuovi rischi, negati per decenni, diventano evidenti: l’insostenibilità del riscaldamento climatico, il disequilibrio sociale, la distruzione della natura e le conseguenze economiche che questo ha per noi, Paesi più ricchi, ma soprattutto per l’insostenibilità che crea nelle aree del mondo più esposte che sono anche le più povere e che a sua volta genera conflitti locali e flussi migratori inarrestabili. Tutto ciò richiederebbe risposte comuni perché il mondo ormai è connesso in modo profondo ma il sistema multilaterale «a bassa profondità» non è adatto a fornirle. A differenza di ottanta anni fa non si tratta di assistere alcuni Paesi in crisi, ma di gestire le connessioni tra Paesi in modo da rendere il sistema nel suo insieme più robusto e non c’è più una sola potenza egemone ma una nuova multipolarità che vede protagonisti Paesi con differenti sistemi politici e economici. Quel sistema disegnato negli anni Quaranta e poi evoluto nel modo che ho descritto è ormai percepito come illegittimo da una larga parte del mondo e inefficace anche da chi si riconosce nei valori democratici e liberali dei Paesi che ne costituiscono l’asse portante.
Nel 2020 arriva il Covid. La risposta dimostra che il mondo, così diviso per interessi e convinzioni, può ancora essere capace di trovare risposte comuni come ha dimostrato la corsa ai vaccini, per esempio, ma mostra anche che la dipendenza tra Paesi ha un costo e i limiti del sistema nella capacità di affrontare le fragilità di certe regioni e settori della società. La povertà mondiale, in diminuzione per decenni, ricomincia a crescere, i Paesi emergenti rallentano, nell’Occidente crescono pressioni per la deglobalizzazione.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’attacco di Hamas si inseriscono in questa situazione di debolezza del sistema esistente e nella sua crisi di legittimità, che incitano protagonisti in differenti parti del mondo a riaprire dossier mai risolti. Sì, guerre regionali, ma soprattutto il sintomo di un mondo che è diventato fondamentalmente instabile e quindi pericoloso.
Il costo umano di questi conflitti è immenso ma come valutarne il costo economico? L’effetto immediato è sul prezzo dell’energia e dei beni alimentari anche se per ora i movimenti sono stati modesti e l’effetto dipenderà dal grado di estensione del conflitto. Ma il vero rischio non è questo, lo sono piuttosto le conseguenze globali di una crisi geopolitica endemica, che blocca ogni possibilità di cooperare per affrontare i problemi che hanno soluzione solo se si coopera e che sono connessi tra loro. Penso al clima, le migrazioni, la povertà, l’intelligenza artificiale. È un paradosso che proprio oggi, quando è evidente che i problemi più gravi che dobbiamo affrontare richiedono cooperazione internazionale, il mondo si frammenta in blocchi non dialoganti. Una grande riforma delle istituzioni internazionali è oggi irrealistica e comunque prematura. Le Nazioni Unite sono paralizzate e Fmi e Banca Mondiale percepite come di parte anche per la loro governance sbilanciata. Accettare il nuovo multipolarismo e schemi di cooperazione flessibili, anche tra Paesi con sistemi politici ed economici diversi su temi mirati è quindi forse l’unica via possibile da percorrere per evitare che i conflitti si estendano e che il mondo si avvii ad una catastrofe economica ed ecologica .