Una immagine plastica della fragilità democratica
Diciamo la verità. Pochi di noi hanno pensato al peggio, mentre eravamo incollati davanti alla tv a guardare quella strana folla e follia, che gli ampi spazi circostanti il Campidoglio americano indicavano come modesta rispetto alle fiumane viste in passato.
Un colpo di stato (Severgnini) avrebbe avuto bisogno di maggiore organizzazione e determinazione, di ben più ampie alleanze strategico militari per realizzarsi. E non bastava sicuramente l’incerto sostegno di un leader ormai rintronato, ossessionato dall’idea di essere l’unica “vera” espressione del popolo “patriottico”, ma dubbioso sul da farsi e incapace di comprendere che i rapporti di forza erano ormai irrimediabilmente cambiati a suo sfavore. Nonostante quanto avvenuto negli ultimi anni, per conquistare il potere in un Paese come gli USA, non basta un po’ di “squadrismo straccione” (Serra), un semplice “atto di forza” (Walzer), una improbabile “insurrezione popolare” (MounK). Non basta una folla incerta se sfilare festante a farsi un selfie, portarsi a casa un ricordo e una visibilità mai avuta prima, manifestare pubblicamente il proprio disprezzo per i simboli del potere, magari provarci e “vedere tutti insieme l’effetto che fa” (Iannacci).
E tuttavia qualcosa rimane, di questa rappresentazione che, se non fosse per i morti, potremmo dire quasi-drammatica. Una folla surreale nel vestire e nell’agire è riuscita interrompere il processo democratico in uno snodo cruciale del percorso che conduce alla transizione del potere, aprendo uno spazio – breve per fortuna – in cui si è avuto la sensazione di un tempo sospeso e di uno spazio da cui il potere legittimo veniva costretto a ritrarsi.
Le scene che abbiamo visto sono la rappresentazione plastica della fragilità delle nostre democrazie. La loro cedevolezza si è vista, più che nella forza della spinta eversiva, certo non confrontabile con quella che un paio di secoli fa abbatté la Bastiglia, nella flebile risposta delle barriere poste a difesa del processo democratico; in forze che avrebbero dovuto opporsi, ma che apparivano ancora più incerte dei manifestanti, tra di loro divise, inconsapevoli delle proprie responsabilità costituzionali, disposte a concedere il beneficio della comprensione, quasi disponibili a fraternizzare: più una fessura che un ostacolo.
È qui sta il punto da sottolineare. Molti, nella società civile, ma anche nelle nostre chiese, non hanno ancora capito che le democrazie sono creature fragili, che hanno bisogno di essere difese oltre che ripensate e rinvigorite, che la prossima volta potremmo non avere a che fare solamente con cornuti esponenti di QAnon a inscenare la rappresentazione tra il serio e il ridicolo cui abbiamo assistito. Trump è finito, ma le ragioni del suo successo non sono scomparse e con esse dovremo fare i conti ancora a lungo, di qua e di là dall’Atlantico. Comprenderle è uno dei compiti su cui, come Forum di Limena, siamo impegnati.
Compito di chi pensa è chiedersi perché
Nello scambio avuto dai promotori del Forum con il politologo Paolo Feltrin il 12 dicembre, a un certo punto si è discussa l’idea che la domanda da porsi non sia perché così tanti cittadini sono improvvisamente diventati xenofobi, antidemocratici, antipolitici, ecc. Ma semmai perché essi siano diventati disponibili a votare per personaggi xenofobi, autoritari o semplicemente improbabili, come è avvenuto in Europa con svariati leaders populisti e in America con Donald Trump. La domanda è come mai i loro avversari non siano stati in grado di comprendere cosa stava avvenendo; che cosa abbiano fatto, o non fatto, per perdere così tanto elettorato. La sinistra, in particolare, non ha saputo, né voluto, guardare a cosa stava succedendo nel suo elettorato e lo ha perso.
Un piccolo episodio avvenuto nei giorni scorsi sembra dire che, tra i difensori della democrazia, non tutti però sono interessati a seguire la via delle domande serie. Fabrizio Barca, ex ministro e attualmente coordinatore del Forum “Disuguaglianze e Diversità”, ha postato su Twitter una foto dell’assalto al Campidoglio commentandola così: “Scene che ci fanno riflettere sull’estrema fragilità della democrazia USA. Ma, attenzione, è un segnale per tutte le democrazie. A quale risentimento arriva un popolo colpito da enormi disuguaglianze, che non crede più che esista una alternativa. E lo spazio che ciò apre all’autoritarismo”.
Apriti cielo, il commento di Barca suscita immediate reazioni di dissenso nella sua stessa area politica. Egli viene accusato di voler accreditare come popolo un manipolo di golpisti violenti e gli si addebita che attribuire alle disuguaglianze quei comportamenti è giustificare la loro azione eversiva.
Si può anche convenire che l’affermazione di Barca non fosse abbastanza articolata. Twitter non è il luogo più adatto per fare analisi. L’azione sociale non è mai un riflesso diretto di una condizione, ma di una condizione mediata da una rappresentazione (una ideologia). È questa che dà senso all’azione e la orienta. La domanda però si sposta solamente, non si cancella: per quali ragioni una certa ideologia a un certo punto si impone diventando plausibile, anzi galvanizzante?
Barca stesso ha poi così argomentato: “Giustificazioni? No, ragioni… ogni essere umano che compie un’azione ha una sua «ragione», magari irragionevole. Se decine di milioni votano per Trump e credono nelle sue falsità, compito di chi pensa è chiedersi perché”. (…) “In certi momenti della storia – Mussolini docet – questi personaggi esercitano un’attrazione fatale su chi non ha speranze e si sente accantonato dalle classi dirigenti”.
Il punto dunque è un altro. Il punto è che in certe culture, non solo politiche, anche ecclesiali, il giudizio e lo stigma finiscono quasi sempre per prevalere sui tentativi di capire. In questo quadro, cercare le – buone o cattive – ragioni di chi la pensa in modo opposto significa di per sé giustificare. I tentativi di spiegare i perché dell’azione sociale vengono sostituiti da una logica di tipo classificatorio, puramente valutativa e sprezzantemente valutativa. Pensiamo a quanto ricorso si fa nel dibattito pubblico alle parole fascismo, razzismo o populismo per afferrare fenomeni social complessi e diversificati, usando il cannone linguistico a ogni piè sospinto. Come se questo potesse bastare. È una sorta di moralismo che, come si è visto nel caso della polemica su Barca, arriva a impedire perfino l’interrogarsi. Difficile che i difensori della democrazia facciano molta strada se bloccati in questa logica.
Attenti ai “cattivi sentimenti”
Il giorno successivo Barca, intervistato da La Stampa di Torino, articola meglio il suo ragionamento. Egli rivendica di aver “rotto l’incantesimo politico dei mostri”. Se dico che quanto avvenuto è un “effetto, mi sto obbligando a dire qual è la causa e non me la sono cavata dicendo che sono i barbari”. Certo Trump ha eccitato quelli che erano davanti al Campidoglio, dice Barca, ma “il punto politico è un altro: cosa li ha fatti sentire un’avanguardia? Cosa li ha resi così spavaldi? (…) quella era la spavalderia di chi si sente coperto da un pezzo del popolo americano”.
Barca nell’intervista chiarisce anche che la questione non è solo economica. Le indagini sul voto a Trump dicono che questo non si concentra in aree particolarmente povere, ma di prolungato declino economico-sociale, aree dove “non c’è futuro”.
E qui introduce un altro concetto, non meno importante di quello di disuguaglianza, quello di identità. “Milioni di americani avvertono un sistematico non riconoscimento non solo delle proprie condizioni, ma della propria identità. Si avvertono come invisibili”. Sono i lavoratori della logistica, abitanti delle zone rurali, delle periferie urbane, dei servizi di cura mal retribuiti, ecc. Quelli stessi che il Covid ha contribuito a disseppellire facendoli riemergere alla visibilità sociale. Ma per quanto?
“Cosa cerca questa gente?”, si chiede Barca. Cercano “Cesare. Qualcuno che assecondi i loro istinti peggiori. Perché nessuno gli offre più una prospettiva. Una destra autoritaria, pericolosissima, che non offre un’alternativa. Trump non ha migliorato le condizioni di vita dei suoi elettori. E non lo ha nemmeno promesso. Ha offerto muri, odio verso quelli più poveri. Come i nostri: tutti uguali. Non offrono alternative, ma cattivi sentimenti”. Esattamente come quando in Italia sembrava che avessimo “un intero popolo mobilitato contro 150 disgraziati che arrivavano sulle nostre coste”.