di A. Spadaro
“La Civiltà Cattolica”, 2 febbraio 2019
Che posto ha il discepolato cristiano nella moderna società democratica? Come possono i cristiani contribuire a una sana democrazia e a un governo veramente popolare della nostra Italia? Per affrontare queste domande si è sviluppato un interessante dibattito sull’eredità di don Sturzo in occasione dell’anniversario del suo appello «a tutti gli uomini liberi e forti» (1919). Per proseguire la riflessione, pensiamo sia necessario tornare al V Convegno della Chiesa italiana, che si è svolto a Firenze nel 2015: un evento sinodale.
In quell’occasione papa Francesco ha pronunciato un discorso che potremmo definire «profetico» alla luce dell’oggi. Bisogna tirarlo fuori dai sussidi chiusi da tempo e tornare a meditare su quelle parole che pongono un legame forte tra fede e politica, perché «i credenti sono cittadini».
«La nazione non è un museo – affermava Francesco –, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose». Ma soprattutto aggiungeva che è inutile cercare soluzioni in «condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative». Ed eccoci all’attuale crisi della democrazia. In un tempo in cui il bisogno di partecipazione si sta esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare all’«usato garantito» o alle retoriche già sentite. Tantomeno, quindi, possiamo immaginare di risolvere la questione mettendo i cattolici tutti da una «parte» (considerando tutti «gli altri» dall’altra). Non basta più neanche una sola tradizione politica a risolvere i problemi del Paese.
La forza propulsiva del cattolicesimo democratico ha bisogno di essere resistente in questi tempi confusi, ma anche di ascoltare e capire meglio, perfino coloro che oggi sono riusciti a intercettare umori e idee della gente. Agostino e Benedetto, davanti al crollo dell’Impero, hanno messo le basi del cristianesimo del Medioevo. Il cristianesimo non ha mai temuto i cambi di paradigma.
Che fare, dunque? La Chiesa italiana saprà farsi interpellare dal mutamento in corso senza limitarsi ad attendere tempi migliori? E come? Abbiamo compreso che è impossibile pensare il futuro dell’Italia senza una partecipazione attiva di tutti i cittadini. Per questo prendiamo spunto da un passaggio del discorso introduttivo del card. Gualtiero Bassetti alla sessione invernale del Consiglio permanente della Cei: «Ripartiamo, fratelli, da questo stile sinodale, viviamolo sul campo, tra la gente…».
Ecco il punto: soltanto un esercizio effettivo di sinodalità all’interno della Chiesa potrà aiutarci a leggere la nostra storia d’oggi e a fare discernimento. Che cos’è la sinodalità? Essa consiste nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa attraverso la discussione e il discernimento. Essa respinge ogni forma di clericalismo, incluso quello politico. La crisi della funzione storica delle élites – che fino a poco fa era riuscita a far dare alle democrazie occidentali il meglio di sé – deve aprirci gli occhi. La sinodalità è radicata nella natura popolare della Chiesa, «popolo di Dio».
Perché la sinodalità? Perché questo ampio coinvolgimento? Perché innanzitutto dobbiamo capire che cosa ci è accaduto. Dopo anni in cui forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra Chiesa e popolo, e abbiamo immaginato che il Vangelo fosse penetrato nella gente d’Italia, constatiamo invece che il messaggio di Cristo resta, talvolta almeno, ancora uno scandalo. Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio – del tutto alieni dalla coscienza cristiana – hanno preso forma tra la nostra gente e si sono espressi nei social networks, oltre che nel broadcasting personale di questo o di quel leader politico, finendo per inquinare il senso estetico ed etico del nostro popolo. Il fenomeno – sia chiaro – non riguarda solamente la nostra Italia.
A questo si aggiunga il fatto che il potere politico oggi ha anche ambizioni «teologiche». Pure il crocifisso è usato come segno dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto a quello che eravamo abituati: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici.
Il «nemico», dunque, non è più solamente la secolarizzazione, come spesso abbiamo detto, ma è la paura, l’ostilità, il sentirsi minacciati, la frattura dei legami sociali e la perdita del senso di fratellanza umana e di solidarietà. Nella società sta venendo meno la fiducia: nei medici, negli insegnanti, nei politici, negli intellettuali, nei giornalisti, negli uomini del sacro… Risuonano su questa situazione confusa le parole che il Papa a Firenze ha rivolto alla Chiesa italiana: «Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa». E aveva chiesto alla Chiesa: «discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti».
Francesco proseguiva raccomandando la ricostruzione dei legami per favorire «l’amicizia sociale». Quindi, compito della Chiesa italiana – diceva – è «dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune». È da fuggire, dunque, l’opzione tombale, cioè l’eresia che le nostre comunità non abbiano più nulla da dire nel fermento della nostra società.
Quale deve essere, allora, il senso di questa risposta? Possiamo riconoscerlo nel discorso di fine anno 2018 del presidente Mattarella, il quale ha affermato l’importanza dell’impegno «per riconoscersi come una comunità di vita» che ha un «comune destino». Sentirsi comunità significa «condividere valori, prospettive, diritti e doveri», «“pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme»». D’altronde, la forza della Chiesa cattolica in politica è la sua cattolicità, cioè la sua capacità di ricordare l’universalità e di tenere insieme i pezzi lì dove tutto sembra andare in frantumi. E ciò vale anche per la nostra Chiesa italiana.
A questo punto torniamo alla nostra domanda iniziale. Possiamo riconoscere il nostro compito oggi come discepoli di Cristo impegnati nelle tensioni della nostra moderna democrazia in due punti evidenziati dal Presidente: da una parte, contrastare le «tendenze alla regressione della storia»; dall’altra, fare la nostra parte per costruire il Paese come «comunità di vita», curando le ferite dei legami spezzati e della fiducia tradita. E questo potrà avvenire solamente grazie a un largo coinvolgimento del popolo di Dio, in un processo sinodale non ristretto né alle élites del pensiero cattolico né ai contesti (specifici e importanti) di formazione.
L’esercizio della sinodalità e quello della democrazia sono cose diverse come metodo. Ma si può facilmente cogliere quanto sia importante la sinodalità nella Chiesa per discernere le forme dell’impegno democratico dei cristiani affinché essi siano – come ci chiedeva Francesco alla fine del suo discorso di Firenze – «costruttori dell’Italia». Che dunque stia maturando il tempo per un sinodo della Chiesa italiana?