Il teologo Severino Dianich ritiene che La Chiesa porti la responsabilità degli orientamenti politici se non altro di coloro che partecipano alla vita delle comunità cristiane. Essa non può non vedere che pochi oggi si preoccupano di confrontare i propri giudizi politici con il Vangelo e che ciò ha condotto a un radicale scollamento tra vita di fede e percezione delle proprie responsabilità politiche.
di Severino Dianich
in “Vita Pastorale” del luglio 2019
In questi ultimi anni la vita politica nel mondo, sta subendo mutazioni radicali fino a oggi imprevedibili. Dietro ai cambiamenti che avvengono nei Parlamenti stanno le convinzioni dei cittadini. Ed è a proposito della loro evoluzione che ci si deve interrogare sulla responsabilità della Chiesa. Non la si può caricare dell’onere di tutto ciò che avviene nel costume di un popolo. Oggi l’influenza che la predicazione cristiana esercita sugli orientamenti morali e politici della società non è più quella di altri tempi. Ma degli orientamenti politici di coloro che partecipano alla vita delle nostre comunità, l’azione pastorale della Chiesa porta la responsabilità.
L’attuale insignificanza dei cattolici in politica è il sintomo di un avvenuto scollamento della vita di fede del credente dalla percezione delle sue responsabilità politiche. Non pochi cattolici (preti e vescovi compresi), nella valutazione della situazione presente, sembrano poco preoccupati di confrontare il proprio giudizio politico con l’insegnamento del Vangelo. Appena lo si fa, risulta — a dir poco — molto arduo poter simpatizzare con l’attuale impressionante revival del “nazionalismo” e le sue politiche sulle migrazioni. Se si preferisce dire “sovranismo”, forse è per cancellare la memoria tragica dei nazionalismi del secolo scorso, che hanno dato all’umanità ben due guerre mondiali.
Il credente dovrà pur giudicare se sia un’operazione compatibile con il Vangelo sostituire il Prima di tutto noi al Prima i poveri, l’orgoglio nazionale alla fraternità universale, la difesa del proprio benessere alla solidarietà, la chiusura dei confini all’accoglienza dei poveri, il Basta stranieri in casa nostra all’Ero straniero e mi avete accolto di Matteo 25,35. Non si nega che l’applicazione degli imperativi evangelici in politica sia un’operazione complessa, nella quale si possono percorrere strade diverse. Un cristiano, però, qualunque sia la sua scelta, dovrà avanzare all’interno del suo schieramento le esigenze della fede.
Una buona parte di responsabilità dello scollamento tra la coscienza di fede e le scelte politiche va attribuita al fatto che, dopo una stagione in cui la Chiesa italiana s’era impegnata a fondo nella lotta contro il comunismo, nella vita delle comunità è prevalso un atteggiamento di disimpegno. Le migliori energie sociali dei cattolici si sono incanalate nel volontariato, disertando il campo della politica. Invece di favorire il dialogo tra i diversi orientamenti sui problemi emergenti, chiamando tutti a confrontarsi con il Vangelo, s’è preferito, per evitare spaccature nelle comunità, silenziare le questioni politiche.
Dagli anni Settanta in poi sono venuti alla ribalta soprattutto i problemi della famiglia e della bioetica. I risultati del referendum del 1974 sul divorzio e di quello sull’aborto del 1981 sono stati un duro colpo per il magistero cattolico, che ha visto la maggioranza della popolazione schierarsi su posizioni opposte. Nella predicazione e nella catechesi non è mai mancata un’insistita attenzione ai problemi dell’unità della famiglia e della difesa della vita. Del rispetto della legge naturale da parte della legislazione dello Stato, però, è stata la Cei, più che aggregazioni di fedeli laici, ad assumersi il compito di cercare una sponda là dove ci si proponeva a paladini della morale cattolica tradizionale.
Così, mentre la politica mondiale era dominata sempre più dall’insorgente neocapitalismo, la Chiesa s’è trovata di fronte, favorevole alle sue posizioni su famiglia e bioetica, i movimenti politici meno attenti alle questioni della giustizia sociale. Si preparava il terreno alla proposta di un’alleanza con le rispettive religioni da parte dei diversi sovranismi, dalla Russia, passando per gli Usa, l’Ungheria, la Polonia e l’Italia, fino all’India induista del presidente Modi. L’operazione fa presa sul cattolicesimo tradizionalista, la sua nostalgia dell’antica societas cristiana e il sogno di un’impossibile restaurazione dell’egemonia della Chiesa sulla società, sotto le ali degli Stati. Il gioco in Europa è ancor più facile, perché la chiusura ai migranti dei sovranisti si ammanta del sedicente nobile scopo della difesa della civiltà cristiana.
I pastori della Chiesa devono prendere atto che sono messi in discussione gli insegnamenti fondamentali del Vaticano II sulla libertà religiosa, il dialogo con le altre religioni, la difesa dei diritti umani. Senza dire del pericolo di ridurre il cristianesimo alla “civiltà cristiana” dell’Occidente. Non si dovrebbero dimenticare i trascorsi di tragiche alleanze, nella cui trappola sono caduti non pochi cattolici nel secolo scorso, né si può ignorare che la difesa della “civiltà cristiana” non coincide con la promozione della fede cristiana. La Chiesa, oggi, si trova a dover difendere la “fede cristiana” dal farsi catturare da chi, per interessi estranei alla fede, intende salvaguardare la “civiltà cristiana”. Sono i credenti fedeli al Vangelo che creano una civiltà, non una civiltà a creare i credenti.