“Si può sempre contare sugli americani per fare la cosa giusta,
dopo che hanno provato tutto il resto”.
Wiston Churchill
Molte domande
A due mesi di distanza dal voto del “gran martedì”, e alla vigilia della incoronazione formale di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, dopo che molte cose sono state dette possiamo provare a mettere un po’ di ordine nelle nostre teste, tentando innanzitutto di articolare le domande su cui merita ragionare, dandoci il tempo che sarà necessario per rispondervi. Esse riguardano parecchie questioni:
- la natura del successo di Trump: a che cosa siamo di fronte?
- le ragioni della sua vittoria e della speculare sconfitta dei democratici (Dem), quelle dovute agli “errori” di questi ultimi e quelle più strutturali;
- gli effetti che avrà all’interno degli USA, sugli equilibri democratici, sull’idea di America, su quel mondo Big Tech che è divenuto così rilevante nel modellare il futuro;
- la possibilità di dare in altri modi risposte alle domande che lo hanno condotto alla vittoria;
- gli effetti che avrà in termini globali, sul piano politico (in Europa e in Italia in particolare) su quello economico (il protezionismo…), su quello ambientale (solo una battuta d’arresto?), sulle istituzioni internazionali (cui Trump crede ancor meno degli altri) e infine, ma non certo da ultimo, sulle prospettive della pace e della guerra (che cosa ne sarà delle guerre in corso? Quali prospettive per il dis-ordine mondiale?)
Due atteggiamenti da evitare
Nello sforzo di rispondere a queste domande – qui il passare del tempo ci aiuterà – è opportuno a mio avviso evitare due errori.
Il primo è farsi travolgere dall’ansia della catastrofe imminente. Certo, è legittimo ed è anche giusto essere preoccupati, tanto più se si osservano le agghiaccianti prime nomine al vertice dell’amministrazione americana e le altrettanto sconcertanti dichiarazioni su Groenlandia, Panama e Canada, ma Il mondo non finisce con Trump. Tutti oggi concordano che un suo tratto caratteristico è l’imprevedibilità. E ciò significa che, anche se dobbiamo farci delle idee su ciò che ci aspetta, in sostanza non possiamo prevederlo. E dobbiamo considerare che anche Trump poi – a campagna elettorale conclusa – dovrà fare i conti con la realtà, con le forze complesse che lo influenzeranno, con i Cheks and balances (controlli e contrappesi) dell’ordinamento americano. Egli può dire che sotto di lui non verrà più piantato nessun mulino a vento nel territorio degli Stati Uniti, ma dovrà poi accorgersi che tali scelte non dipendono dal governo federale.
“I rischi – reali, non immaginari – che Trump incarnerà nel suo secondo mandato saranno affrontati in modo efficace se cominceremo a considerarlo non come la somma di tutti i mali, ma come un politico ordinario” (Esprit, novembre 2024). E dovremmo inoltre non scordare che: “L’ottimismo aiuta a vincere”. Lo sottolineava Antonio Polito sul Corriere (11/11/2024), una volta tanto azzeccandola: “La nuova cultura politica della sinistra (…) è diventata [invece] pessimista, cupa, quasi catastrofica. Predica l’arrivo di un Armageddon, non di una Resurrezione”. Meglio evitare questa sindrome. Sappiamo di dover vivere in mezzo a incertezze crescenti, dovremo abituarci a questo, ma senza mettere il carro davanti ai buoi.
Il secondo è quello di reagire ricorrendo ad approcci inutili se non dannosi. La tentazione, al di qua e di là dell’Atlantico, sarà quella di entrare nella “resistenza”, di ritenere cioè che tanto più si insulta Trump, i suoi sostenitori e i suoi amici europei, tanto meglio si riuscirà a contrastarli (Y. Mounk su Le Monde del 9/11/2024). “Ci saranno alcuni a sinistra che diranno che Trump ha vinto a causa del razzismo, del sessismo e dell’autoritarismo intrinseci del popolo americano. A quanto pare, queste persone amano perdere e vogliono farlo ancora e ancora e ancora” (David Brooks, sul New York Times del 6/11/2024).
Trovo del tutto insufficiente e anche sbagliato reagire a fenomeni come questi semplicemente mobilitando categorie stigmatizzanti volte a “classificare” invece che a comprendere, tanto più che molte di esse rivelano ben presto la necessità di introdurre precisazioni e revisioni, perché quello cui stiamo assistendo è in effetti qualcosa di nuovo. Parole come populismo, nazionalismo, fascismo, razzismo, sessismo e via dicendo, possono avere un loro senso se utilizzate con cura, ma non ce l’hanno se vengono usate al fine di esorcizzare i fatti che disturbano e di autoassolversi per la propria insipienza. Il problema infatti oggi non è solo l’esistenza dei “populisti”, come Trump e i suoi colleghi europei, ma l’impopolarità delle alternative ad essi. “La terribile realtà delle elezioni americane è che i repubblicani sono stati più bravi a parlare con la maggioranza silenziosa del Paese rispetto ai democratici” (Y. Mounk, cit.). Questo è il punto. Ed è qualcosa che sta avvenendo sempre più spesso anche in Europa.
Non vedere tutto ciò e darsi alla “resistenza linguistica” rappresenta un modo di reagire agli eventi che infastidiscono i cui unici esiti sono: deprimersi perché purtroppo la storia sta andando da un’altra parte, confinarsi nella posizione di attesa di chi pensa che “hadda passà ’a nuttata” (De Filippo) e nel frattempo tentare di “sconfiggere” gli avversari a chiacchiere. Il tutto senza mai chiedersi se non sia innanzitutto il caso di cambiare le proprie idee e la propria proposta.
Assolutamente necessario invece è capire come è cambiato il mondo, quali nuove fratture attraversino le nostre società – fratture che palesemente non si erano viste o si erano ritenute secondarie – e mettere in relazione l’evoluzione della domanda sociale con l’offerta politica, come qualcuno comincia a fare per fortuna. Sotto questo profilo almeno l’effetto della vittoria di Trump è che si comincia a discutere e certi tabù sono immediatamente crollati. Proviamo allora a dire qualcosa sulle prime due domande del nostro elenco. Sulle altre bisognerà tornare più in là, quando cominceremo a vedere le azioni e non solo la propaganda.
Con cosa abbiamo a che fare?
Qui di seguito provo a sintetizzare (molto) alcune idee che possono aiutare a rispondere alla domanda che riguarda la natura del fenomeno e i suoi caratteri di novità. Operazione tanto più importante se si considera che con qualcosa di simile, anche se non uguale, abbiamo a che fare in tutta Europa.
I grandi protagonisti della destra repubblicana del passato, persone come Reagan e Nixon, per quanto innovatori siano stati, erano dei leaders politici convenzionali con un partito dietro che rappresentava in particolare la popolazione bianca benestante, il GOP (Great Old Party). Qui siamo in presenza di qualcosa di diverso. Il leader fagocita il partito e lo riscrive a propria immagine. E lo fa perché ha una forza dietro.
All’inizio della sua carriera politica Trump poteva sembrare semplicemente un candidato famoso e un fenomeno mediatico, capace di manovrare l’opinione pubblica, con pochi semplici slogan e il dito medio lanciato in alto contro le élite. Mentre oggi è diventato il leader di un movimento politico che in lui si riconosce, individuato dall’acronimo MAGA, e che ha una certa idea di dove vuol portare l’America, vi riesca o meno. Una idea piuttosto radicale che vede nei propri avversari dei “nemici dell’America”, dei “non americani”.
Scrive il caporedattore di Politico.EU: “I politici convenzionali possono vedere le loro carriere appassire un attimo prima di controversie e battute d’arresto. I leader di un movimento, figure rare nella storia americana, traggono la loro energia da profonde fonti di identità culturale, risentimento e aspirazione”. Si tratta allora di capire quanto radicato ed esteso sia questo movimento, quanto vada al di là di quei “patriots” che abbiamo visto agitarsi in modi un po’ folkloristici davanti a Capitol Hill il 6 gennaio del 2021. Su questo oggi come oggi si sentono le tesi più disparate. “Qualunque cosa sia il Trumpismo, arriva dal basso come un fenomeno di massa” sostiene Il più importante storico americano del fascismo, Robert Paxton, in una intervista rilasciata al New York Times del 23/10/2024. Saranno gli eventi a dirci la sua consistenza.
Possiamo nel frattempo constatare che questa configurazione – movimento + leader – riesce nell’operazione di trasformare radicalmente la base sociale tradizionale della destra, spostandola verso componenti popolari e meno abbienti delle periferie e dell’America di mezzo (le coste restano più Dem), fino al punto di includervi settori della popolazione immigrata stabilizzata, senza escludere la rappresentanza tradizionale (bianca, benestante, cristiana). Dando vita a una sorta di nuovo blocco elettorale. Qualcosa di simile, mutati mutandis, a quello che le sinistre sognano, ma che palesemente non riescono più a realizzare.
Questa nuova proposta politica spacca inizialmente i mondi più avanzati dell’economia digitale (Silicon Valley si divide), ma il fatto nuovo è che una parte di essi la sostiene; si chiude l’epoca dei sessantottini del digitale di cui vagheggiava Baricco (The Game, 2018), mentre è già in atto il riallineamento delle componenti che l’avevano osteggiata. Le corporation Big Tech sanno che, fatte le opportune ammende (Zuckerberg, per fare un nome), avranno le mani libere e che per una fase si continuerà senza provarci con le politiche antitrust (scelta che risale a Bill Clinton), né di mettere freni alla nuova nata, la gentile e misteriosa IA (Intelligenza Artificiale).
Nella società si afferma una spinta che potremmo anche definire “libertaria” ma in un senso del tutto specifico e paradossale. Ciò di cui ci si deve liberare è l’élite che ha governato a lungo il Paese, la sua cultura del politicamente corretto, i suoi vaneggiamenti woke, i suoi atteggiamenti aristocratici, la sua incapacità di vedere come vive “la gente come noi”, che non si accorge come noi si stia sempre peggio, quella classe dirigente che ci ha tradito. Tutta la campagna elettorale di Trump è stata una specie di urlo di liberazione dalle ossessioni “progressiste” e questo urlo ha trovato orecchie disposte ad ascoltare.
Allo stesso modo chi sostiene Trump, lungi dall’essere preoccupato per i destini della democrazia, appare tormentato dall’idea che il Presidente non riesca a fare ciò che deve e ha promesso, perché impedito dal cd. deep state (lo stato profondo). L’idea che il presidente abbia mano libera nel decidere ha cioè più sostegno popolare di quanto molti liberali e sostenitori dello stato di diritto spererebbero. Quasi a dire “libertà per noi e libertà per il nostro presidente”. Un’altra delle cose, questa, che la campagna elettorale dei Dem, tutta incentrata sulla minaccia trumpiana alla democrazia, pare non aver capito e in ogni caso essere risultata un’arma spuntata.
Quello cui ci troviamo di fronte dunque è l’avvento di una nuova destra, per la quale forse manchiamo di parole adeguate, ma che appare più in sintonia con i tempi e con le nuove configurazioni sociali di quanto non lo sia la sinistra: un misto di conservazione-reazione e di innovazione, di classi popolari e di business society, di autoritarismo e di libertarismo. Una delle novità che il nuovo secolo ci sta scodellando sta infatti proprio in questa unione degli opposti che sconcerta chi come noi ragiona con la mente ancora nel ‘900. Una sorta di ircocervo che probabilmente darà anche le sue versioni di sinistra come si intravvede già in Germania con il fenomeno dei “rosso-bruni” (il partito di Sahra Wagenknecht: “Per la ragione e la giustizia”, BSW).
Benessere, sicurezza, immigrazione
Un’ultima considerazione, su cui sarà necessario tornare meglio, è la seguente: non occorre pensare che tutti coloro che hanno votato per Trump si identifichino pienamente nel movimento che a lui fa capo, o che si riconoscano davvero in lui, anche se può stupire il fatto che, per le ragioni cui si è accennato, più di metà dell’elettorato abbia comunque accettato di sostenere un leader dal linguaggio, dallo stile politico e dalla concezione della democrazia così “selvaggi”. Si tratta allora di nuovo di capire il rapporto tra un voto e un leader politico e le ragioni per cui l’alternativa non sia sembrata credibile.
I punti delicati su cui tutte le analisi convergono sono tre: benessere, sicurezza e immigrazione. Dove per sicurezza non si intende tanto ordine pubblico e cronaca nera, ma paura del futuro e rischio che la propria vita fallisca, una paura che grava in molte contrade americane e europee. Su tutti e tre questi punti le proposte e le realizzazioni dei Dem di Biden e di Kamala Harris sono apparse poco convincenti. Essi non sono riusciti a dare una risposta positiva alla domanda che emergeva dalle nuove fratture sociali e dalle nuove forme di segregazione. E ciò che sorprende di nuovo è l’incapacità da loro denotata a vederle. È incredibile quanto inchiostro sia stato speso sulla stampa progressista per dire come le cose sotto il profilo economico durante l’amministrazione Biden siano andate meglio per le classi popolari. E ciò avveniva nello stesso tempo in cui Trump chiedeva, come Reagan prima di lui, “state meglio o peggio di quattro anni fa?” e queste ostinatamente si rifiutavano di prendere atto di tutti i miglioramenti che i Dem e i loro economisti celebravano. Tanto che alla fine il 70% degli elettori che definivano “non molto buono o scarso” lo stato dell’economia nazionale (era ben il 68% della popolazione) hanno optato per Trump, contro solamente l’8% tra chi la definiva “buona o eccellente”; l’81% di chi riteneva che la condizione finanziaria della propria famiglia fosse peggiorata (il 46% degli intervistati) ha scelto Trump contro il 14% di chi la riteneva migliorata.
Considerazioni analoghe si potrebbero fare sul tema immigrazione. Basti dire che da parecchi anni gli americani che si dicono insoddisfatti del livello dell’immigrazione nel paese sono all’incirca il doppio di quelli che si ritengono soddisfatti. E senza che gli irrigidimenti dell’ultima ora dei democratici sulla gestione delle frontiere siano servite a modificare la loro immagine.
“È stato il potere d’acquisto e non la salute della democrazia, a motivare molti elettori” scrive Esprit. E c’è molto di vero in questa affermazione. Ma forse separare la motivazione economica, intesa in senso stretto, dalle altre motivazioni su cui si è già detto qualcosa sarebbe semplicistico. “Quel grande suono di risucchio che avete sentito [con il voto per Trump] era la redistribuzione del rispetto” dice David Brooks, un giornalista del New York Times, sostenitore dei Dem.
Nel 2018 Francis Fukuyama nel suo “Identity. The Demand for Dignity and the Politics of Resentment”, scriveva che una delle questioni che le democrazie liberali non hanno risolto è il problema del thymòs, la parte dell’anima che ambisce al riconoscimento della dignità. Molto di ciò che passa per motivazione economica ha in realtà le sue radici nella domanda di riconoscimento e quindi non può essere soddisfatto semplicemente tramite mezzi economici, anche se nemmeno questi possono essere sottovalutati.
Ragionare sul riconoscimento e sul senso di identità permetterà di capire più e meglio della semplice motivazione economica la forma assunta dalla rivolta filo trumpiana, il suo carattere anti elitista e il suo segno pseudo-liberatorio.
Suggerimenti di lettura
Ci fermiamo qui. Per approfondire l’analisi delle ragioni della vittoria di Trump merita leggere due articoli che hanno molto in comune e che colpiscono anche perché uno è stato pubblicato in America, sul New York Times e l’altro al di qua dell’Atlantico, in Francia, sulla rivista originariamente di ispirazione cristiana Esprit.
Il primo articolo, dal titolo “Gli elettori alle élite: mi vedete adesso?”, apparso sul New York Times, è un saggio di giornalismo magistrale che con linguaggio immediato dà una idea sintetica delle nuove forme di segregazione sociale, quell’ “abisso di disuguaglianza di classe” che stava proprio davanti agli occhi dei democratici e di cui in qualche modo non si sono accorti, concentrati come erano sulla disuguaglianza di razza, di genere e LGBTQ. Perché, dice l’autore, “immagino sia difficile concentrarsi sulla disuguaglianza di classe quando sei andato in un college con una dotazione miliardaria”.
Anche Esprit, nell’articolo intitolato “Banalizzare Trump” si pone la domanda: “Come abbiamo potuto essere così ciechi?” Mentre ci chiediamo come sia stato possibile, o come hanno potuto votare così dovremmo piuttosto chiederci: “chi siamo noi per aver trovato l’esito così impensabile”? Così incapaci di pensare i propri avversari politici? Forse Trump rappresenta il trattamento di cui una sinistra malata ha bisogno.
Immaginare gli effetti che avrà la nuova presidenza Trump all’interno degli Stati Uniti, in Europa e sugli equilibri mondiali (punti 3 e 5 delle domande iniziali) è naturalmente troppo presto. Proponiamo altre due letture che possono introdurre a queste tematiche.
Il Washington Post, in un articolo dal titolo “Le implicazioni della presidenza Trump per i più urgenti problemi del mondo”, dopo aver messo le mani avanti alludendo all’imprevedibilità di Trump, prova a descrivere che cosa possiamo attenderci in ordine a otto punti centrali: la guerra in Medio Oriente, il rapporto con la NATO, la guerra in Ucraina, gli equilibri democratici negli Stati Uniti, la possibilità di un ritiro dall’accordo globale sul clima, il confronto con la Cina e la questione migratoria. Può essere interessante notare che tra gli otto punti di cui si preoccupa il Washington Post non compaiono gli effetti che la nuova amministrazione americana avrà sull’Europa, in termini economici e politici.
Di notevole interesse è l’intervista sulla politica estera rilasciata all’Osservatore Romano dall’ambasciatore Gianpiero Massolo, ex presidente dell’ISPI e persona da leggere con molto attenzione per la sua lunga esperienza diplomatica. Massolo ritiene che non sia il caso di drammatizzare da subito. Ci sarà certo un ritorno al principio “pace attraverso la forza”, che potrà determinare qualche scossone. Ma infine “nessuna generazione [politica] può sfuggire alla storia, ovvero al confronto con la realtà”. “E la realtà in genere porta alla mitigazione: essa ci dice che nessun paese può pretendere di rimanere senza alleati, neanche gli Usa di Trump”. L’articolo spiega le implicazioni di questo ragionamento nei rapporti con l’Europa, la Russia, il Medio Oriente, ecc.