Dove stiamo andando?

Introduzione all’incontro dei promotori del 22/06/2024

Premessa
Come avete letto nella lettera di convocazione l’idea di fondo per l’appuntamento di oggi è di scambiarci le impressioni che ciascuno ha maturato in questi ultimi mesi riguardo a dove sta andando il nostro Paese nel quadro Europeo. Questo allo scopo di individuare meglio temi e filoni su cui impegnare le nostre attività nel prossimo anno. Quest’ultimo dovrebbe essere il “risultato” operativo del ritrovarsi.
L’incontro viene introdotto da due stimoli iniziali, che non hanno la pretesa di proporre un risposta strutturata all’interrogativo su cui vogliamo lavorare. L’idea perciò è di procedere, come altre volte abbiamo fatto, in modo induttivo, mettendo insieme quello che ciascuno ha vissuto e pensato negli ultimi anni.
Può essere una buona strada prendere oggi come riferimento il documento fondativo del Forum e provare a chiedersi che cosa è cambiato rispetto ad allora nella realtà del nostro Paese, ma anche nei quadri interpretativi usati per descrivere una situazione che già allora ci sembrava di non facile lettura. La realtà, come abbiamo visto, è poi andata ben oltre, ma forse il motivo che ci spinse a riunirci – condividere uno stato di incertezza, oltre che di preoccupazione – non solo è rimasto, ma nella babele contemporanea si è approfondito. Probabilmente nutriamo tutti la sensazione che, nonostante la buona volontà, lo sforzo di mettere un po’ di ordine nella nostra testa, circa quanto avviene, persegue risultati molto provvisori che già il giorno dopo vengono messi in discussione da nuovi eventi e ancora più dalla sensazione che il modo in cui li leggiamo sia soggetto a una rapida obsolescenza.
Penso sia utile ricordare in premessa che il nostro Forum nasce quasi sei anni fa (primo incontro: novembre 2018, presentazione pubblica: marzo 2019). In questo periodo potremmo forse dire che siamo passati da un iniziale stato di preoccupazione/spaesamento a uno stato di… preoccupazione/spaesamento (forse ancora maggiori?).

Che cosa è successo dal 2018?
Ricordo dapprima i grandi fatti.
Ritorno di minacce pandemiche. Oggi si preferisce dimenticare. La stampa italiana non sembra dare molta importanza alla questione. Del rischio Aviaria, ad esempio, non si parla o, se se ne parla, è per ridimensionarlo. Mentre la stampa americana, dopo alcuni primi, circoscritti, casi di passaggio all’uomo del virus, esprime una preoccupazione decisamente maggiore.
C’è stata un’accelerazione, o almeno una maggiore evidenza, delle trasformazioni climatiche; cui corrisponde l’inizio di un significativo mutamento di atteggiamento dei modi con cui affrontarle: dalla pretesa di fermare allo spostamento dell’accento sull’adattarsi.
Pleonastico ricordare il ritorno della guerra in Europa e in Medio Oriente; l’avvento di una più ampia fase di “furioso disordine internazionale”, per utilizzare l’espressione propostaci da Enzo Pace al convegno su religioni e guerra. E perciò il contrasto crescente tra l’estremo bisogno di cooperazione posto dalle sfide pandemiche, da quelle ambientali, economiche, e le logiche prevalenti nelle relazioni internazionali.
Le elezioni europee e le conseguenze sull’UE. Dal 20 al 40% del voto, a seconda dei paesi, si orienta a destra, fortemente a destra. Anche se questa tipologia di voto non sfonda, il quadro è profondamente cambiato: venticinque anni fa popolari più socialdemocratici potevano contare sul 66% dei seggi al Parlamento europeo; oggi ne hanno il 44% (-22%). Il voto premia i popolari, che come è noto hanno due anime. Le difficoltà della socialdemocrazia sono evidenti. È possibile, forse anche probabile, inoltre, un ritorno di Trump negli USA e questo avrebbe importanti conseguenze anche sugli equilibri europei.
In sintesi: la pietra della rabbia collettiva continua a rotolare. Ci si limita a sperare che non sfondi, ma nessuno tra coloro che la paventano sembra sapere come fermarla.
C’è divisione e debolezza nei partiti di sinistra/progressisti, che in tutto l’occidente sono sempre più radicati nelle aree urbane centrali, portati a incentrare i propri discorsi sui diritti civili più che su quelli sociali, privi di rapporto e di capacità di rappresentanza dei “luoghi che non contano” (Rodriguez-Pose) e dei gruppi sociali periferici, di bassa scolarizzazione e qualificazione; incapaci infine di avanzare un discorso serio sulla distribuzione della ricchezza (perché troppo deboli? Per quali altri motivi?).
Si tratta di un voto, quello europeo, dalle conseguenze imprevedibili (Fabbrini). Il quadro si definirà dopo le elezioni francesi. Il punto non è che è ancora possibile una maggioranza moderata (Ursula), ma che i due paesi portanti (Francia e Germania) potrebbero trovarsi su fronti opposti, o comunque con protagonisti indeboliti, e il motore europeo – già debole di suo peraltro – potrebbe venire a mancare. Va ricordato che non è il parlamento a decidere, ma il consiglio europeo, dove sono rappresentati i governi.
C’è da chiedersi se una battuta di arresto della UE non sia abbastanza probabile: se ciò fosse avverrebbe in presenza di almeno quattro nodi problematici molto rilevanti: guerra, transizione green, immigrazione, un benessere difficile da mantenere e da trasferire alle generazioni future, sia quello privato dei ceti meno abbienti che quello derivante dal welfare.
Molti di questi fenomeni assumono la forma di processi che una volta avviati sembrano procedere in modo inarrestabile; su molte questioni è difficile immaginare soluzioni (cfr. guerra e ordine internazionale); qualche volta si ha l’impressione di un quadro in fase di sgretolamento.

In una sfera più “nostrana”
La destra appare insediata al governo in modo non effimero. La domanda che ci poniamo è: che tipo di destra? Ai tempi del governo giallo verde avevamo delle preoccupazioni. Che tipo di giudizio dare oggi, tenendo conto della cultura di questa destra, delle politiche, dei progetti di riforma delle istituzioni? Da prendere seriamente o si tratta di armi di distrazione di massa: “azzannatevi e nel frattempo io governo”? Cacciari, ad esempio, dice che la riforma del premierato è “fuffa”, introdotta per non affrontare i problemi veri del paese.
O ci sono pericoli per l’assetto democratico disegnato dalla costituzione? Su questo sentiremo oggi Vittorio Borraccetti.
Prodi dice che Meloni è “ambidestra”; si tiene aperte tutte e due le possibilità. Il nodo si scioglierà probabilmente dopo le elezioni americane.
Osservo che lo sforzo delle sinistre pare orientato a ricondurre le politiche della destra all’idea della “forzatura democratica”, quando non di schiacciare la destra di governo dentro la categoria cornice di “fascismo” o neofascismo. Qui al contrario mi ritrovo più in sintonia con quanto dice Formigoni in un articolo apparso su “Appunti di cultura e politica” (16/07/2023) che ho fatto girare nei mesi scorsi: “il tema del rapporto tra destra di governo e eredità del passato andrebbe affrontato con il cesello e non con l’accetta”, anche perché “se tutto è fascismo niente alla fine diventa realmente fascismo”. Le forme contemporanee di autoritarismo andrebbero invece comprese senza necessariamente far ricorso a quella categoria (contra Umberto Eco e il suo concetto di “eterno fascismo”). In ogni caso, in ordine all’avvento della destra di governo, in Italia non si sono lette spesso cose come quelle che si leggono in Francia contro il Rassemblement National (cfr. come esempio gli editoriali di Esprit).
Su alcune di queste riforme inoltre (premierato) certuni (come Stefano Ceccanti, che abbiamo conosciuto in uno dei nostri convegni) pensano possibile cogliere l’occasione per una riforma che possa dare maggiore stabilità agli esecutivi, ammesso e non concesso – osservo – che la via istituzionale sia risolutiva. Cartabia ad esempio, a questo riguardo, sostiene che l’instabilità non si risolve con l’ingegneria costituzionale: i governi cadono – a suo avviso – perché sostenuti da coalizioni troppo diverse e per mancanza di leader capaci di sintesi.
Le proposte di mediazione sembrano perora aver avuto scarso successo: Meloni appare poco interessata; c’è una più generale preferenza delle parti per lo scontro. Ragion per cui siamo probabilmente incamminati verso una polarizzazione referendaria.
Nel valutare la situazione attuale del nostro Paese va tenuto anche conto del fatto che i partiti di destra, quando prendono il potere, subiscono una torsione verso il centro. Ciò avviene per il peso dei vincoli internazionali (UE) e perché, diversamente dal passato, non pare esistere un blocco che mette insieme suggestioni nazionalistiche, ceti popolari arrabbiati e classe imprenditoriale disponibile a rischiose avventure.
Ma, detto questo, va osservato però che anche quando non arrivano al potere, tanto più se vi arrivano, queste forze determinano una torsione verso destra delle politiche avanzate anche dagli stessi governi di centro sinistra (vedi in questi giorni Biden e i due provvedimenti sull’immigrazione).
La Chiesa (solo un cenno): siamo entrati in una fase di declino del Papato di Bergoglio (sei anni più di Biden…). Si sono avviati dei processi, il cui esito è difficile prevedere; difficile però anche immaginare che possano coagularsi in quella “Riforma” di cui Bergoglio parlava all’inizio. Rimane aperta cioè la questione se la Chiesa cattolica sia riformabile.
In ogni caso la nostra esperienza dice quanto difficile sia stato portare avanti il progetto iniziale; quello che voleva aiutare le nostre chiese a guardare fuori di sé e ad aprire una discussione franca sulle sfide della storia e sulle proprie fratture interne.

In chiave più soggettiva…
Vorrei adesso sottolineare due aree problematiche più soggettive, che per me rappresentano aspetti di grave e crescente difficoltà, a farsi una opinione, ad esprimere dei giudizi, a tenere insieme le diversità. Ne parlavo già nel nostro incontro di febbraio.
1. La prima difficoltà
Il documento di Limena presenta una serie di opzioni etico politiche in cui ci riconoscevamo. Il tono, riletto oggi, era fortemente moralizzante. Non penso che quei criteri siano obsoleti e penso che siano sostanzialmente condivisi nell’area “progressista”. Ma successivamente mi è parso di capire, anzi mi è sembrato che tutti capissimo, per la particolare sensibilità che ci contraddistingue, che non basta ribadire dei criteri etico-politici. Si deve anche provare il piano delle politiche o, quanto meno, delle premesse culturali alle politiche, che è probabilmente quello più nostro. E queste devono fare i conti con la realtà in tutta la sua la complessità. Una complessità che è emersa andare ben al di là di quanto non pensassimo inizialmente.
Basta pensare alla questione della guerra (lascio perdere il merito oggi perché ne abbiamo discusso a lungo). Resta il fatto che quello che è successo ha costretto alcuni di noi – e mi ci metto anch’io – a ripensare il nostro pacifismo d’antan, in modi che probabilmente altri non condividono, o non condividono completamente (su questo ritorno tra breve).
Vorrei fare un altro esempio, quello delle migrazioni: tutti gli analisti dicono che è una delle spiegazioni fondamentali dello spostamento a destra dell’elettorato. Perché le ricadute problematiche del fenomeno riguardano essenzialmente i ceti popolari meno abbienti, che sperimentano la presenza immigrata più da vicino e che i progressisti benestanti accusano di essere xenofobi, se non razzisti. Basta dire che bisogna essere accoglienti? Come si coniuga l’opzione etica dell’accoglienza, il bisogno di allargare la popolazione in età di lavoro, le difficoltà dei processi di integrazione (probabilmente sottovalutati), il bisogno di sicurezza, i sentimenti di paura, con la garanzia di stabilità democratica? Tutto questo è governabile, ammesso e non concesso che se ne avesse la volontà?
Discorsi analoghi si potrebbero fare per altri temi: la transizione verde ad esempio… Necessaria, ma su chi ricadono i costi?
2. La seconda difficoltà
L’aspetto che vorrei sottolineare di più, perché mi crea le maggiori difficoltà, è che 6 anni fa sembrava possibile individuare forse ancora un certo numero di idee comuni nell’area genericamente individuabile come progressista. Oggi, sottoposti alla prova delle sfide attuali, quando si tratta di assumere una posizione nella prassi, si assiste in quest’area – al di là delle grandi ma generiche discriminanti etico-politiche – all’eclisse di un sentire condiviso, dappertutto e su tutte le questioni cruciali di questi anni: Ucraina: inviare armi o fare la pace? Palestina: chi organizza associazioni per l’amicizia con Israele e chi dice “dal fiume al mare”; rapporto con la Nato e gli americani: che giudizio dare? Pandemia: solidarismo vaccinale o individualismo anti-vaccinale? Riforme istituzionali: collaborare o bloccare? Ecc.
Su tutti questi temi, alcuni dei quali cruciali, si sono aperte linee di faglia molto nette (polarizzate), nelle “sinistre” di tutti i paesi occidentali. Ciò avviene sia nella lettura dei fenomeni (pensiamo solo alle interpretazioni delle origini della guerra) che nelle proposte di soluzione. E, quello che colpisce maggiormente è che queste linee di faglia attraversano non solo l’area progressista nel suo insieme, ma anche le singole subculture che compongono quest’area. Basterebbe limitarsi all’area cattolica. Ritornando per un attimo al tema della guerra, con annessi e connessi (invio di armi, Nato, ecc.), come non vedere la radicale diversità di impostazione tra un Mattarella e una Bindi, un Tarquinio, il gruppo di Libertà uguale, De Giorgi, Pax Christi, D’Ambrosio, e via dicendo (per citare persone che conosciamo?
Altri esempi potrebbero essere: quello delle riforme istituzionali (basterebbe leggere l’intervento di questi giorni di Nicola Rossi sul Riformista e la legge sull’autonomia differenziata, la riforma del titolo V), i modi di fare opposizione (frontismo o atteggiamento responsabile, vedi gli interventi del nuovo direttore de Il Mulino, Paolo Pombeni), il tema migratorio (ricordo Minniti e le critiche feroci nei suoi confronti), il referendum sul job act (Ichino e Landini) e via dicendo.
Come si fa a navigare in una situazione in cui persone di cui abbiamo stima, a cui siamo stati vicini e magari lo siamo ancora, la pensano in modo non solo diverso, ma opposto? Questa è la difficoltà, nuova difficoltà.
In questa situazione, ha ancora senso chiedersi perché la destra riesce a stare unita, mentre la sinistra non vi riesce, pensando ottimisticamente che sia solamente una questione di volontà e di narcisismo dei capi? O non è piuttosto l’emergere di differenze di fondo, molto difficili da comporre? Differenze che si tenta di coprire ritirando fuori a ogni piè sospinto una logica frontista (rispolverando la lotta antifascista per chiamare alla mobilitazione) salvo poi scoprire che non si è in grado di governare perché non si è d’accordo su nulla (come avverrà in Francia se il fronte di sinistra vincerà).
Direi allora che siamo di fronte a segni chiari che siamo giunti a un cambiamento d’epoca. Siamo cioè di fronte a un mondo nuovo, per cui le categorie interpretative tradizionali non servono a molto, tutto da comprendere. Vedo qui un’altra difficoltà nel fatto che pochi tutto sommato sembrano interessati a sviluppare modelli di comprensione adeguati e – mi sono reso conto in questi giorni – che se penso a questi pochi mi vengono in mente solo persone oltre gli 80 anni: Michael Walzer, Colin Crouch, Michele Salvati, Jurghen Habermas, Edgar Morin, Wolfang Streek, a parte forse Piketty, che è più giovane).
Nel contesto attuale dunque, in mancanza di nuove idee e nello stanco ripetersi delle vecchie, l’asse che va dalla sinistra-sinistra al centro sinistra non sembra in grado di arrestare la “pietra che rotola”. Tutti nelle socialdemocrazie europee hanno capito che l’aver accettato senza sufficiente spirito critico l’impostazione neoliberista e il mondialismo ingenuo ha logorato il rapporto con la base tradizionale e ha aperto spazi enormi alla destra. Ma spostarsi semplicemente a sinistra sembra oggi non in grado di far recuperare i consensi necessari, tanto più che se si deve governare riemergono le divisioni. Se, d’altra parte, si cerca di coniugare come in Danimarca politiche di sinistra sul piano del welfare con politiche di destra sull’immigrazione si finisce per perdere sulla sinistra. I socialdemocratici danesi sono passati dal 21,5 al 15,5, da primi a secondi, perché si è creata una forza politica sul fianco sinistro che ha raccolto il dissenso causato dalle politiche migratorie dei socialdemocratici al governo.
Sono in sostanza segni che siamo di fronte a una crisi della sintesi socialdemocratica. E del resto, se si sostiene che siamo a un cambio d’epoca come si può pensare che le vecchie ricette funzionino ancora? Non funzionano!
Concludo dicendo che ogni giorno che passa avverto sempre più la difficoltà di tenere insieme nel discorso queste polarizzazioni, che riguardano il nostro stesso mondo e che sono presenti anche tra di noi qui.
Si tratta di una situazione che da un certo punto di vista ridà valore alla nostra ispirazione metodologica. Noi qui non dobbiamo necessariamente essere d’accordo su tutto, fatti salvi i criteri etico politici che ci hanno ispirati. Da un altro punto di vista lo sforzo intellettuale che implica navigare tra i flutti è ogni giorno più grande e faticoso.