A due anni dall’inizio della guerra. Le difficoltà del pensiero

Introduzione all’incontro dei promotori del 3 febbraio 2024  [testo trascritto dalla registrazione]

Finalità dell’incontro
Come possiamo constatare ogni giorno, aprendo la radio o leggendo il giornale, l’anno appena iniziato non si presenta sotto i migliori auspici. I due conflitti a noi più vicini – Ucraina e Israele-Palestina – sembrano oggi di soluzione ancora più difficile di quanto avevamo probabilmente immaginato. Il quadro globale appare in movimento, i tempi della guerra si dilatano, le vittime si moltiplicano e i rischi di allargamento del conflitto sono all’ordine del giorno.
Come di consueto, scopo dell’incontro di oggi è confrontarci su quanto sta avvenendo, per scambiarci le nostre reazioni e capire come stanno vivendo la situazione le nostre chiese.
Vogliamo tornare nuovamente sul tema delle guerre in corso, per la sua oggettiva rilevanza e perché è coerente con il tentativo su cui siamo impegnati di tenere aperta l’attenzione su quelli che riteniamo essere l focus principali di una certa fase storica, quelli cioè che avranno effetti di più lungo periodo.
Parliamo liberamente e francamente di quanto abbiamo pensato in questi mesi, tenendo conto degli stimoli che ci sono arrivati. Cercando – se ci riusciamo – di stare sull’atteggiamento di fondo con cui abbiamo cercato di definire il nostro modo di porci:
consapevolezza dei nostri limiti. Possiamo nutrire poche speranza di influenzare il contesto, quello che possiamo fare è lavorare sui nostri atteggiamenti e aiutare altri a chiarirsi le idee;
provare a far dialogare posizioni diverse;
rifiuto di posizioni astratte che escludono la rilevanza dell’analisi del contesto e si accontentano di dichiarazioni di principio.

Le difficoltà a farsi una opinione
A questo aggiungerei, prima di provare a riassumere alcuni elementi degli scambi che ci sono stati tra noi nei mesi scorsi sul tema della guerra, una sottolineatura delle difficoltà del compito che ci siamo dati, quello cioè di “stare sul pezzo” in materie cosi ampie e complesse. C’è da un lato un problema di fonti – sappiamo in realtà poco di quello che sta succedendo davvero – e dall’altro di caos analitico.
In Italia i mezzi di comunicazione aiutano poco a farsi una opinione ragionata. In America il dibattito sui giornali è poco interessato a dire chi ha ragione e chi ha torto; piuttosto si muove con una logica di problem solving: c’è un problema? Vediamo come risolverlo; dopo di che le opinioni sono le più diverse, non c’è omogeneità, c’è differenza estrema. Mentre qui da noi gli interventi sono poco interessati a dire qualcosa sul come se ne esce; appaiono piuttosto orientati a individuare “le colpe” e perciò a indurre il lettore a schierarsi, fatto che contribuisce alla radicalizzazione delle posizioni.
Governare poi il caos analitico nel quale siamo immersi è qualcosa di complicatissimo. Cerco di spiegarmi con un esempio. Due giorni fa Il New York Times pubblica un editoriale di Friedman – questo giornalista che da sempre segue e con un certo equilibrio le vicende mediorientali – nel quale egli sostiene che Biden ha un piano, un piano in tre punti per risolvere il conflitto a Gaza. Il primo punto, quello più interessante, è che Biden starebbe pensando di riconoscere in qualche modo uno stato palestinese. Friedman spera che lo attui. Vado in cerca su Le Monde per capire cosa pensa il giornale francese sullo stesso tema. Le Monde non interloquisce direttamente con Friedman, ma risponde più o meno così: “se mia nonna avesse le ruote sarebbe una carriola”. Quell’ipotesi cioè non ha nessuna possibilità di realizzarsi, che gli americani riescano a costruire un nuovo stato palestinese sufficientemente decente e stabile è inimmaginabile. Poi mi arriva un articolo dalla rivista Foreign Affairs nel quale si dice in sostanza la stessa cosa; si sostiene cioè che saranno gli attori locali a decidere, tesi sostenuta già all’inizio della guerra da Olivier Roy, noto sociologo e diplomatico francese. Di fronte a queste difficoltà uno studioso mio amico dice: io non seguo mai queste cose, perché si tratta di cose “oscure” e la Nottola di Minerva parlerà alla fine (“…inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”, diceva Hegel).
L’altra cosa che vorrei comunicare è questa sensazione che il caos analitico riguardi un po’ tutti, anche tutti noi. Un esempio: un nostro amico, che avrebbe voluto essere con noi oggi, due giorni fa ci manda un messaggio in cui dice: “Come può essere democratico uno stato come Israele che bombarda in quel modo la popolazione di Gaza?” La mia risposta è stata: “Da quando in qua gli stati democratici non bombardano? Dalla seconda guerra mondiale, passando per il Vietnam, all’Iraq, nessuno ha mai sostenuto che gli Usa non siano uno stato democratico, ma quanto a bombardamenti non sono stati secondi a nessuno, mi pare”. Si confondono cioè qui due dimensioni di analisi che invece sono del tutto distinte. Se c’è una critica che si può fare dal punto di vista della democraticità a Israele questa l’ha fatta sommessamente Formigoni – lo storico che abbiamo conosciuto – il quale ha sottolineato che la deriva di stampo etnico dello stato israeliano è un limite forte alla sua democraticità.
Quello che vorrei si capisse, per chiudere queste note introduttive, è che tentare di stare su questo fuoco, quello della guerra e delle relazioni internazionali, è davvero una sfida molto difficile, che dobbiamo affrontare con grande senso dei nostri limiti.

Il conflitto russo ucraino e il problema della guerra
Vengo al conflitto Russia Ucraina, un tipo di conflitto che in quella forma non ci aspettavamo. Tutti abbiamo vissuto a lungo infatti pensando che la guerra non riguardasse i paesi in cui viviamo. Ora eravamo di fronte a qualcosa di nuovo. Per quanto ci si girasse attorno, si tentasse di contestualizzare, di capire le ragioni, ecc. a noi è sembrato che questa guerra non trovasse giustificazioni accettabili. Per quanto potessimo alludere all’ “abbaiare della Nato”, per quanto potessimo cercare di metterci nei panni di Putin e dei russi – operazione difficilissima – a tutti noi è sembrato che non potessero esserci giustificazioni reali e che questo riproponesse il tema della guerra in termini che non potevamo esimerci dall’affrontare. Quindi, per quanto poco ciò possa contare, c’è stata in noi una scelta di campo, una identificazione con una parte. Del resto tutti coloro che abbiamo conosciuto, che andavano in Ucraina, tornavano con questa percezione e con una chiarezza su dove stavano le responsabilità che ci ha fatto riflettere (cfr. Sclavi, Bergamaschi, Scavo).
Posta questa scelta di campo, personalmente ho però sempre vissuto male – ma non pretendo sia condivisa da tutti questa mia idea – le interpretazioni che sono state date di questo evento, in termini di scontro tra democrazie e autocrazie. Penso ad alcuni autori italiani (Parsi, Panebianco, ecc.) e a una buona parte della pubblicistica nostrana. Non che non si possa leggere in questi termini, ma mi pare che questo tipo di lettura finisca per rendere molto problematica l’azione diplomatica. Se gli avversari sono sempre riconducibili a un quadro di dispotismo assoluto (una sorta di male assoluto) cosa stiamo a discutere? Si tratta semplicemente di sconfiggerli. E poi per una ragione più di sostanza, perché questo approccio tende a ridurre i paesi con cui interloquiamo in termini conflittuali solamente a chi li governa. È come se tutto ciò che possiamo dire dei russi è che sono governati da Putin, tutto ciò che possiamo dire dei cinesi è che sono governati da Xi. E questo ci mette in difficoltà a capire che cosa effettivamente succede e perché i capi di questi paesi sono sostenuti in qualche modo, quali interessi “popolari” vi siano sotto.

La difficoltà a comprendere la natura della guerra
Un altro aspetto che ha caratterizzato le nostre riflessioni, anche se su questo le opinioni tra di noi non sono probabilmente unanimi, è una certa impressione di inadeguatezza dell’elaborazione pacifista. Penso in particolare alla discussione che ho avuto personalmente con il presidente della Rosa Bianca, Fulvio De Giorgi sulla rivista “Appunti di cultura e politica”. Loro sono partiti dall’idea dell’abrogazione della guerra, mentre al contrario dal mio punto di vista si tratta di ragionare sulla permanenza della guerra, di capire come mai essa continui a persistere. Quindi l’idea è che con la guerra si debba fare i conti: dire “basta guerre” non basta. Prendere le mosse allora nella riflessione dalla questione del permanere della guerra.
Qui a mio avviso c’è un problema di incomprensione della natura della guerra. Vorrei leggervi un citazione di una persona che in genere non amo molto – Ernesto Galli della Loggia – ma che nei giorni scorsi ha pubblicato un articolo sul Corriere che dovremmo leggere. In esso Galli parla di “un orientamento” – che lui qualifica come “assai poco in sintonia con i tempi che si annunciano” e qui ha in mente il cattolicesimo e la sinistra pacifista – “quello che consiste nel ritenere che la guerra non nasca dalla insopprimibile tendenza degli stati al mantenimento e alla crescita del proprio potere in tutte le sue forme, dalla tendenza alla difesa degli interessi considerati come oggettivamente vitali per la conservazione della propria identità geopolitica, che la guerra lungi dal nascere da ciò, come di fatti quasi sempre è, sia il frutto viceversa di una errata o cattiva disposizione dell’animo di chi governa, delle sue personali convinzione, di una sua personale sete di dominio”. E aggiunge: “ciò che spesso, beninteso, è anche vero – non siamo così ingenui da non pensare che questa sete di potere non esista- ma quasi sempre non fa altro che aggiungersi all’altro fattore prima citato”. E qui torniamo al discorso di prima, cioè: abbiamo a che fare con dei sistemi statuali, con dei sistemi geopolitici che hanno i loro interessi, che hanno una loro storia, una loro identità e la guerra nasce dall’interazione tra sistemi di questa natura. Ridurre tutto a: “dipende dalle aziende che producono armi che poi vogliono venderle”, e all’idea che c’è qualcuno cattivo che governa, mentre i popoli sarebbero innocenti e sempre contro la guerra, è semplicistico. Sempre contro la guerra, certo, ma a favore del gasolio a basso prezzo, sempre contro la guerra, ma non facciamo troppe concessioni ai paesi emergenti perché ci rimettiamo noi. E via dicendo. Voglio dire.

Il quadro globale in movimento
Qui dovremmo anche chiederci – penso – che cosa è cambiato a due anni dall’inizio della guerra, che possa eventualmente richiedere delle rettifiche delle cose che ci siamo detti. La guerra in Ucraina dura da due anni, la situazione è quella che è e non sembra destinata a risolversi rapidamente. I danni umani, materiali, anche spirituali e culturali sono enormi, tanto che qualcuno si preoccupa per una Ucraina nell’UE che ha definito la propria identità nazionale in termini di scontro con la Russia.
Abbiamo poi avuto il conflitto israelo palestinese iniziato in forma di guerra aperta il 7 ottobre del 2023, non è che prima non ci fosse. Dovremmo chiederci – penso – Cosa cambia, cosa conferma rispetto a quanto avevamo maturato?
Penso che ci siamo tutti resi conto che a essere in movimento è l’intero quadro globale. I rischi sono incalcolabili in questo momento. Non so se anche voi siete rimasti colpiti dall’ultimo articolo scritto da Edgar Morin, che peraltro non condivido in tutto e per tutto, il quale comincia con la frase: “Se è mezzanotte nel secolo” – una citazione di Victor Serge del 1939 – e poi in sostanza dice: “guardate, la tendenza è chiara, ed è alla catastrofe. Speriamo nell’imprevisto”. Quasi rovesciando la logica sua tradizionale per cui l’imprevisto in genere era l’aspetto negativo, il “cigno nero” che ci scombina le cose; no, l’imprevisto è l’unica speranza Anche se il suo pessimismo potrebbe essere esagerato, sapendo chi è e quanto ha vissuto, mi viene da pensare che quando uno come Morin dice cose di questo genere, vale la pena pensarci.
Che la questione sia da pensare in termini globali lo dice anche la News Letter inviata l’altro giorno da Esprit, la rivista francese, in cui si legge: “le rovine di Gaza sono anche le rovine dell’ordine internazionale post 1945 e della sua capacità di promuovere il diritto internazionale e la sicurezza collettiva”. Quelli che si occupano di diritto internazionale qualche volta tendono a pensare che il diritto sia la soluzione mentre il diritto internazionale, se ci sono delle condizioni strutturali, un certo tipo di ordine che consente di sostenerlo, poi produce – può produrre – degli effetti. Ma se a essere in questione è proprio quell’ordine… Per cui il modo in cui scrive Esprit mi sembra ragionevole. Mentre pensare che sia possibile pensare un diritto internazionale a prescindere da un ordine preesistente, che anzi fonda l’ordine Internazionale non mi convince.

Due modi diversi di porsi di fronte al conflitto a Gaza e quello in Ucraina
Nelle vicende che riguardano il conflitto in medio oriente le difficoltà a trovare e mantenere una posizione sensata, moderata, non polarizzata sono diventate estreme. Ogni giorno, ci si trova a leggere tutto e il contrario di tutto. Un tentativo lo abbiamo fatto comunque con una nostra News Letter, qualcuno ci ha anche scritto di averla apprezzata. Lì abbiamo cercato di dire: se io provo sul serio a mettermi nei panni degli israeliani, se poi provo a mettermi nei panni dei palestinesi, in qualche modo riesco a entrare in quello che tutte e due vivono, nei limiti in cui ci riesco ovviamente. Ogni giorno leggiamo cose di questo genere. Questa mattina mi è arrivato un articolo del New York Times in cui si racconta la vita che fanno i palestinesi nella Cisgiordania occupata. Come si fa a non immedesimarsi nelle loro sofferenze? E contemporaneamente come si fa a non immedesimarsi nella situazione vissuta dagli israeliani?
Ma nella discussione prevalente tutto viene posto in termini di aut – aut. È come se la logica dell’et – et non esistesse più, in particolare in Italia, e in Europa, molto più che negli Stati Uniti. E quindi c’è stato questo tentativo che abbiamo chiamato di equi-vicinanza, parola che poi abbiamo scoperto non esistere in nessun vocabolario. Qui abbiamo fatto una operazione diversa da quella fatta prima sull’Ucraina. Sull’Ucraina non ci sono stati molti dubbi tra di noi. Anche se certo alcuni li hanno e magari pensano sia tutta colpa degli americani che hanno provocato Putin finché questo, poveretto, non poteva non reagire. Ma noi non abbiamo mai condivisa questa analisi, penso in particolare a tutto quanto ha scritto Graziosi, lo storico dell’URSS, per demolirla.
Sul conflitto in Medio Oriente c’è stato invece da parte nostra un tentativo diverso, quello di “mettersi nei panni”, perché possiamo comprendere le ragioni di entrambi i popoli. Poi, personalmente, devo ammettere che quando leggo i testi provenienti da quelle terre mi trovo veramente in imbarazzo – lo dico francamente – perché mentre trovo sul versante israeliano anche qualcuno – magari pochi – che è capace di vedere le ragioni degli altri, è come se tra i palestinesi questa facoltà fosse ridotta ai minimi termini, per ragioni anche comprensibili, ma che mi preoccupano. Non riesco a trovare testi più aperti. Anche i discorsi di quelli che dicono “noi riconosciamo lo stato di Israele”, iniziano dicendo questo, ma finiscono con tutta una serie di implicazioni in cui lo spazio per lo stato di Israele non c’è più. La cosa è veramente drammatica; lì non si sa proprio come uscirne.

Il ruolo delle religioni
E vengo alla questione che mi interessa di più e su cui penso che dovremmo lavorare, anche promuovendo una occasione pubblica.
In tutte queste vicende, e anche in altre, è sempre più evidente il ruolo importante che ha il fattore religioso. Questo interagisce con i processi di costruzione delle identità nazionali ed etniche, diventa un marcatore di queste identità, molto rilevante. Qui la prendo alla larga, a iniziare dal fondamentalismo evangelical che ha giustificato l’azione di G. Bush J. in Iraq, per non andare più indietro. Ma senza dimenticare che il primo fondamentalismo, quello più radicale, nasce lì, negli Usa, molto tempo prima, diventa politicamente rilevante da un certo punto in poi. Giustifica interventi di quel genere, oggi giustifica l’azione di Israele come azione che anticipa l’avvento del Messia, cosa condivisa da alcuni anche in Israele. Lì c’è un dibattito teologico tra chi dice che non si può e non si deve accelerare l’avvento del Messia, perché ciò sarebbe blasfemo mentre altri pensano che sia possibile e si debba accelerare la sua venuta e che questo implichi la ricostituzione di Israele come territorio sacro in senso biblico. Anche in America c’è gente cristiana evangelical che vede questa azione come qualcosa che annuncia il ritorno del Salvatore.
In sintesi, partendo dal fondamentalismo evangelical, passando per Kirill e un certo tipo di ortodossia fino al sionismo messianico dei coloni e all’islamismo di Hamas, che nel suo documento fondativo sostiene quella terra essergli stata data da Dio… le religioni stanno dando un contributo fondamentale alle guerre.
Su questo vorrei che provassimo a ragionare. A me sembra che le religioni siano diventate, loro stesse, un campo di battaglia, altro che le religioni per la pace; no le religioni sono uno dei campi della battaglia, tra posizioni che fomentano la guerra e posizioni moderate che cercano di costruire la pace attraverso il dialogo interreligioso e altre vie. Pensiamo quanto importante fu il documento di Abu Dhabi e prima ancora i tentativi di pregare insieme per la pace fatti da Giovanni Paolo II. Pensiamo invece alla situazione in cui siamo oggi, in cui queste posizioni dialoganti sono assolutamente deboli, davvero deboli.
La diplomazia vaticana non sta ottenendo risultati, mi sembra evidente. Mi sono chiesto in questi giorni: ma perché il Papa non ha proposto una grande iniziativa interreligiosa come quella di Assisi a suo tempo? Tendo a pensare che l’idea sia stata presa in considerazione, ma si sia concluso che non c’erano le condizioni per farlo. E allora penso sia evidente la debolezza delle componenti delle religioni che hanno cercato in questi anni di costruire la pace.
Mentre abbiamo dall’altra parte una forza dei fondamentalismi che cercano di fomentare la guerra, non semplicemente si adattano al fatto che, essendoci una guerra, si è costretti a interagire con essa dando sostegno a una parte o all’altra; no, la promuovono attivamente. E con il rischio che le prime, cioè le componenti per la pace, vengano trascinate a loro volta dentro il conflitto. In Ucraina non si può pensare che le chiese ortodosse ucraine o la chiesa cattolica ucraina non sostengano la lotta di difesa del loro popolo, come del resto dicono esplicitamente, fino al punto di trovarsi in tensione con Roma. Lì non c’è stata fin dall’inizio un’azione delle religioni a favore del conflitto, ma è un subire una situazione e dovere a un certo punto dire: ma noi cosa facciamo, i nostri soldati li benediciamo oppure no? o li mandiamo allo sfracello senza nemmeno il conforto di una benedizione? Si ritorna cioè a discorsi che consideravamo blasfemi.

Ci sono anche questioni teologiche
A mio avviso qui ci sono anche dei problemi teologici. Il primo è: come rielaborare il permanere della guerra. Paolo VI il 4 ottobre 1965 all’ONU disse: “Mai più la guerra”. Sono passati 60 anni e siamo coperti di guerre. Vogliamo provare a chiederci cosa ci dice questa semplice e tremenda realtà?
La riflessione invece è andata avanti in direzioni opposte. Senza considerare questa permanenza e immaginando sempre più spesso che il problema fosse risolvibile d’amblè, una volta per tutte. Tempo fa Menozzi, lo storico, in un suo saggio in cui analizzava l’evoluzione della teologia della pace diceva: “si va sempre più chiaramente – e si vedeva che lui apprezzava questa tendenza – verso una teologia che nega la possibilità della guerra”. Menozzi adesso però scrive su Esodo che si è dovuti ritornare alla teologia della guerra di difesa, che è poi quella che il nostro amico Carlo Bolpin in una lettera che ci ha inviato critica, dicendo abbiamo accettato tutto. Ma cosa vuol dire non accettare la possibilità di una guerra di difesa, di resistenza? Vuol dire che chi combatte per la difesa del proprio paese e della propria gente non ha nemmeno riconosciuta la dignità di quello che fa, in tutto il suo carattere tragico? Non significherebbe infine togliere proprio all’aggredito, al debole, la legittimità di ciò che fa per difendersi? Non significherebbe lasciare campo libero all’aggressore e al forte?
Torniamo qui, come nella discussione sul fine vita, sulla posizione per cui la vita biologica viene prima di tutto e rappresenta l’unico valore, la dignità della vita non è nemmeno un altro valore su cui discutere, no, non conta nulla. A me ha sorpreso il fatto che Severino Dianich, persona che tutti stimiamo, in un intervento sul Fatto Quotidiano dica: “la condanna della guerra, pur con alcune oscillazioni a proposito della guerra di difesa, è cosa costante e ben nota fin da Benedetto XV che all’inizio del 900 definì la guerra una inutile strage. Tendenzialmente la fede cristiana pone la persona e la sua vita al di sopra anche di alcuni pur rispettabili valori civici come la patria e l’indipendenza della nazione”. La vita, la nuda vita, cioè diventa il valore assoluto. Forse ricorderete che in una delle nostre News Letter abbiamo riportato il dibattito tra Habermas e un importante filosofo del diritto tedesco che affrontavano proprio queste questioni e lì la tensione tra difesa della vita in senso biologico e difesa della dignità della vita in senso politico culturale, identitario, era evidente. Mentre qui la tensione tra i due poli viene risolta con, a mio avviso, il caos teologico che ne consegue. Avrete letto immagino l’intervista al presidente di pax Christi sul Fatto Quotidiano. In essa costui dice: “Io non ho problemi a parlare di genocidio”. Lui cioè ha già deciso quella che sarà la sentenza della corte dell’Aja e lo ha deciso nella situazione che c’è, con le difficoltà di rapporto tra Vaticano e Israele che vediamo, lui ha già deciso che si tratta di “genocidio” e poi, non contento, aggiunge che è molto peggio di quello che facevano i tedeschi perché questi facevano 10 a uno, mentre qui siamo già a 20 a uno.
Qui la questione è se si possa ragionare in termini già direttamente – nell’oggi – di abolizione della guerra o piuttosto di regolamentazione e, dato il caos globale che si profila, di una sua delimitazione-contenimento. Nel senso che qualsiasi strategia di altro genere, come di quelli che dicono facciamo qualcosa per creare le condizioni per la pace, facciamo delle comunità più solidali, cerchiamo di migliorare i rapporti tra di noi, ecc. tutte queste azioni hanno tempi che, nella migliore dell’ipotesi, sono di lunghissimo periodo. Mentre qui, nel giro di pochi anni, il mondo rischia di andare a catafascio, nel giro di poco tempo. Non è che qui abbiamo 100 anni per fondare uno spirito di pace, una educazione alla pace, una cultura della pace… Tutte cose giuste e molto apprezzabili ma che hanno tempi completamente diversi dai tempi storici. È questo –mi pare – il punto debole di tanti discorsi.
A me sembra fondamentale questa idea, che siano le religioni stesse il luogo del conflitto, che non si tratta di qualcosa che le religioni guardano come se fosse fuori di loro, alludendo a qualcosa che riguarda altri: “noi siamo per la pace e ora diciamo come si fa a farla”. E che quindi sia da fare i conti con il permanere nelle religioni di idee contrapposte su ciò che Dio è e vuole. Perché c’è ancora in giro un Dio della pace e un Dio della guerra e il Dio della guerra sta vincendo. Se si prova infatti a fare un bilancio tra azioni per la pace e azioni per la guerra, condotte dalle religioni, i conti non tornano e il bilancio appare in passivo. C’è quindi un problema proprio interno qui. Possiamo lasciare andare come se nulla fosse, senza affrontarlo?
L’ultima domando che mi farei, che ogni tanto mi faccio, è: cosa fanno le nostre chiese. Per quanto ne so, a parte esperienze particolari come quella di Treviso, di “Bilanci di pace”, nessuno parla di queste cose, non ci sono attività, né iniziative, momenti di formazione e di riflessione. Un esempio: giorni fa vengo chiamato a parlare da dei preti che vogliono sentire una analisi sulle chiese del Nord Est. Reagisco dicendo che non ho alcun interesse ad andare a parlare di questo tema. Se volete vengo a parlare della situazione internazionale, vi parlo di dove stiamo andando – dico – perché tutto il resto è assolutamente secondario. Ecco, non ci sono richieste di questo genere. Per delimitare, non è solo un problema delle nostre chiese. Non è che le sezioni di partito si riuniscono per parlare di queste cose, non c’è nessuna attività, di nessun genere.
Queste in sostanza le idee che avevo in mente di proporre per aprire la discussione.