Bruno Baratto
Sono ancora più convinto che valesse la pena di iniziare almeno ad aprire un discorso di questo tipo e di aprirlo anche con questo tipo di approccio, perché altrimenti ricadiamo nelle polarizzazioni, che costringono all’interno di un ragionamento, sia razionale che teologico inefficace, vista la situazione in cui ci troviamo, in cui la a guerra comunque c’è, avevamo detto che non doveva esserci più, ma la guerra comunque c’è. Quindi grazie a Enzo Pace, grazie a Stella Morra, grazie a Andrea Grillo.
Due cose su cui mi piacerebbe continuare a ragionare.
La prima è una questione che poneva Enzo Pace, ma che ritorna di fatto anche negli altri contributi: una delle questioni fondamentali è vivere dentro un contesto plurale e accettare che questo contesto plurale sia costitutivo. Il discorso amico-nemico espelle l’altro in quanto ‘altro’. Finché sono tra amici, posso non pensare all’altro e questo mi semplifica la vita o penso che mi semplifichi la vita. Per cui mi viene una provocazione per Pace, partendo da tutto il discorso sulla globalizzazione e questa ripresa delle identità etnico-particolari come reazione, mentre sembrava che la globalizzazione potesse cancellarle. La pluralità delle esperienze e delle posizioni, come costitutiva e strutturale del nostro vivere, è ineliminabile, a meno che non si voglia rischiare di non affrontare la realtà. Ci eravamo interrogati già come forum: la questione del cambiamento climatico ecologico richiede varietà di competenze e varietà di interventi che nessuno, da solo, può presumere di poter mettere in campo, nessuno da solo può riuscirci. È un esempio fra i tanti: abbiamo bisogno della pluralità di competenze, di situazioni, di pensieri. La domanda è come riusciamo ad affrontare la conflittualità inevitabile che ne deriva in termini nonviolenti, verso la costruzione di un ‘noi’?
Concordo su quanto detto sia da Stella Morra che da Andrea Grillo, anche se in modi diversi, che bisogna passare alle pratiche. Non basta soltanto la riflessione: servono pratiche che stimolino la riflessione e riflessione che ispiri pratiche. Ricordo la vecchia battuta di Ricoeur che, alla fine del suo ragionamento sul male assoluto, diceva che la filosofia arriva a una difficoltà, all’incapacità di continuare la riflessione, se non si arriva a una scelta, a una decisione in ordine a una pratica, a una prassi. E la prassi viene prima del voler superare, del non accettare la logica della polarizzazione, per quanto faticosa, costosa e incerta possa essere. Mi piacerebbe continuare su questo discorso, grazie.
Gigi Copiello
Provo a dirlo schematicamente: la guerra che c’è oggi in campo si può leggere anche come una guerra tra sistemi di rappresentanza e di governo.
E lo dico con tutta franchezza: dove abitiamo noi, dove viviamo noi, il sistema liberal-democratico è un sistema, si può dire, ‘senza-religione’, nel senso che la secolarizzazione è uno dei suoi contrassegni. La secolarizzazione è il vero fondamento del sistema dove viviamo noi, che è minoritario nel mondo, peraltro, e pare anche non destinato a crescere.
Un sistema, quindi, che ci “interessa” fino ad un certo punto, magari poco e nulla.
Aggiungo un’altra considerazione: i teologi e i filosofi, giustamente, è il loro mestiere, cercano il bianco e il nero, nel senso che i principi primi hanno queste caratteristiche. Ma il punto è che il bianco e il nero non esistono in natura. Nella natura e nella storia ci sono i grigi, non c’è il bianco e il nero che cerchiamo noi. È importante cercare il bianco e il nero, perché nel grigio della storia si sappia dove andare, ma la storia è fatta di grigi.
Perché dico questo? L’ho detto all’inizio, il bianco e il nero è un sistema liberal democratico, senza religione e che non ne vuol sapere di religione, anche sul piano dei costumi. Raccomanderei “Il mondo di ieri”, un libro di Stefan Zweig, che parla di com’era l’Europa prima della Prima guerra mondiale e poi è successo che lui è dovuto scappare e si è suicidato in Brasile, perché non sapeva più dove scappare da quel mondo, che era uscito dalla Prima guerra mondiale e che era entrato nella seconda. Ma attenzione: l’Europa, prima della Prima guerra mondiale, era un mondo dove le libertà che vediamo adesso c’erano già tutte e sembrava un mondo completamente pacificato. Lui aveva rapporti e relazioni con tutti gli intellettuali, con tutte le culture d’Europa, ma dopo poco tempo tutti costoro erano nelle trincee, armati l’uno contro l’altro e lui è rimasto solo. Questa non è forse la situazione che stiamo vivendo ora? Anche noi rischiamo di ritrovarci sulle trincee, trincee impensate ed impensabili, ma dentro quelle trincee ci ritroviamo noi, noi che ci guardiamo attorno.
Allora la chiudo così: noi possiamo anche dire che “la religione è contro la guerra”, sì, senz’altro, ma viviamo nel grigio del mondo ed esonerarci da una scelta di campo non la vedo possibile. Mi spiego: io sono contro ogni fondamentalismo, ma una ‘religione della democrazia’ – la metto così – è un ossimoro fino a un certo punto, può esserlo sul piano dei principi, ma nel grigio della storia non possiamo esonerarci da assumere questa responsabilità. Questo, lo dico per concludere, è tutta un’altra storia dall’esportazione della democrazia, ma una religione della democrazia, che ponesse per esempio il tema della fraternità dentro questo processo, non la vedo fuori luogo, se no noi possiamo dare belle testimonianze e le dobbiamo dare, però intanto la storia ci travolge.
Gianpiero Della Zuanna
Buongiorno a tutti, volevo riprendere un po’ quello che ha detto Copiello, e volevo chiedere anche ai relatori: quello che mi turba un po’ è l’ansia, dell’Occidente, ma più in generale di chi dovrebbe essere l’alfiere dei valori liberal-democratici, l’ansia autodistruttiva che deriva dall’idea che tutte le cose su cui si è fondata il mondo liberal-democratico sono fondamenti sostanzialmente peccaminosi. Parliamo del colonialismo, dello sterminio dei popoli originari, ecc. Quindi sostenendo un po’ quello che dice Putin, quello che dice il patriarca di tutte le Russie, quando affermano che l’Occidente appunto è in fondo malato e quindi la loro guerra è una guerra santa, perché è una guerra contro chi è sostanzialmente malato. Noi in certo senso continuiamo ad accreditare questa cosa, per cui vorrei chiedere a voi che cosa ne pensate di questo e quanto questo è legato ai discorsi di stamattina, cioè all’incapacità appunto delle religioni di porsi in modo positivo davanti a questi processi e insieme l’incapacità delle religioni, in un certo senso, di evitare l’abbraccio della politica, segnatamente di una ‘politica cattiva’. Perché non esiste solo quella politica, ci può essere e c’è stata, anche una politica come quella che ha costruito l’Europa, quella che ha costruito questi anni di pace, che forse andrebbe valorizzata e più considerata, grazie.
Luciano Sguotti
Tre cose, anche riprendendo quello che diceva Mattarella in questi giorni, cioè in primis il tema della deterrenza e forse un po’ contraddicendolo: perché non può essere la deterrenza l’asse portante del radicalismo evangelico.
I conflitti sono giochi di deterrenza: tenendo il mondo in una situazione che crea nel potenziale nemico un terrore, nell’attaccare mantengono la pace tra le popolazioni.
Io penso che fondarsi su una forma di terrore, per rendere possibile l’incapacità di altri ad attaccare, mi sembra una illogica giustificazione della guerra o dei conflitti. Da parte delle religioni e dei poteri, significherebbe, a mio parere, togliere alle religioni e alla politica la loro reale essenza: essere promotori di dialogo e di soluzioni dei conflitti.
Ancora di più, ed è il secondo elemento, dobbiamo restituire alle religioni una “resistenza”, si una resistenza alla cultura dominante egemone della guerra! Noi possiamo e dobbiamo dare alle religioni un significato più alto, promuovere la nonviolenza, la coesistenza pacifica, credere in un disarmo delle coscienze e fornire strumenti: le religioni devono battersi con tutte le forze dell’intelligenza per con cadere nella trappola del terrore
Il terzo punto ovviamente è che religioni e politica si contaminino, perché in quel “TU NON UCCIDERE” sta la forma più elevata della coscienza morale e civile di una società.
Perciò ricapitolando:
No ad una religione della deterrenza (armata) per promuovere pace, benessere e cooperazione. Si ad una cultura che resista alla egemonia della guerra sulla vita umana.
Si ad una religione che fondi la sua essenza sul TU NON UCCIDERE.
La politica deve dare risposte. Grazie
Renata Gherlenda
Io ho delle domande, non delle considerazioni, su alcune cose che non ho capito bene.
Il professor Pace parlava di una convergenza tra politica e religione, in particolare quando c’è una identità tra territorio e lingua, la lingua dei testi sacri. Come si pone questo rispetto all’Europa o agli Stati Uniti dove il cristianesimo è diffuso ma è una religione di origine semitica e ha come lingua dei testi sacri l’ebraico e il greco? Ecco questo non l’ho capito bene.
Un’altra cosa che non ho capito è se veniva detta la stessa cosa, o due cose diverse, tra Enzo Pace e Andrea Grillo, quando mi è sembrato di cogliere una critica rispetto alla politica in Gran Bretagna, dove una persona viene riconosciuta nella sua etnia e vengono riconosciuti anche alcuni aspetti giuridici, che non sono gli stessi per tutti. Quando appunto viene detto “ti riconosco nella tua dignità in tutto”, quindi anche nei tuoi costumi, nelle tue tradizioni, si intende anche che vengano riconosciuti gli aspetti giuridici che queste comportano?
Altra domanda ai relatori: quand’è che si intende che la difesa non è legittima?
Alessandro Castegnaro
Dico anch’io una cosa, perché tutta questa discussione che stiamo facendo, non solo qui, ma che abbiamo cominciato da diverso tempo, mi mette un’ansia particolare, che cerco di esprimere e che ho già presentata ai relatori a suo tempo.
Perché questa discussione non la facciamo in astratto, la facciamo in un certo momento storico, in un momento specifico che io descriverei, molto sinteticamente, in questi termini: da un lato siamo di fronte a una crisi dell’ordine mondiale e della cooperazione internazionale, quello che Enzo Pace chiama “il furioso disordine mondiale”; dall’altro, accanto al logoramento dei soggetti mondiali che avrebbero dovuto in qualche modo regolare i conflitti – penso in particolare all’ONU…ed è facile dire che “l’ONU dovrebbe…”, ma di fatto l’ONU non fa –, si manifesta una debolezza delle religioni, su cui abbiamo riflettuto anche oggi, di quelle che si pongono nella logica della costruzione della pace.
La domanda allora tranchant, grezza, è: “ma le religioni sono effettivamente candidabili in questi tempi a diventare attori di pace, o il massimo che possiamo loro chiedere è di fare meno danni possibile?” Questa è la questione di fondo.
Andrea Grillo
Provo a dare qualche risposta. Sono tante e belle questioni e tante belle prospettive che si aprono grazie alle domande. Comincio subito da chi ha fatto riferimento alla necessità del confronto interno che, nella tradizione cattolica, ha raggiunto il massimo livello di differenziazione di posizioni. Nel primo documento importante di papa Francesco – Evangeli Gaudium – si dice che anche la dottrina della chiesa cattolica deve differenziarsi, al proprio interno. C’è, quasi en passant e dentro un discorso più ampio, con tutte le virgolette del caso, la prima formulazione di una universalità cattolica, non più declinata come fa il concilio di Trento e declinata ancor oggi dal canonista, che dopo 11 anni dal testo in questione, dice ancora: “non si può”. Se ragioni così come dice il concilio di Trento, la bestemmia peggiore che può dire un papa è che si deve differenziare la dottrina. Sembra lavorare contro se stesso. Ma questo significa valorizzare l’universalità, che dobbiamo tenere cara, tenendo conto almeno di cinque culture continentali diverse, che sono appunto modi di pensare la storia e le relazioni molto differenziati. Che devono essere adeguatamente pensati in una logica di fratellanza, tenendo presenti le diverse culture. Questa è una grande sfida, ma appunto è la sfida della comunione, dove tutto è più ampio e dove non funziona più la vecchia regola, che deve dire: “ho una sola dottrina che vale da Timbuktu a Palermo a Chicago”. Ma questa è un’impresa della pratica e della teoria insieme.
Appunto, si è sottolineato, “dobbiamo fare pratiche”, ma una delle pratiche è il modo in cui fai la teoria. Noi facciamo la teoria come se fossimo un sovrano assoluto, che non sbaglia mai! L’autocritica interna alla teoria è una pratica nuova e necessaria, che la rende credibile contro la “cancel culture”, che è forte di fronte a modi monolitici di pensare la cultura.
Non possiamo negare che nel medioevo e nell’età moderna, si parlasse in un certo modo degli Ebrei. Fino a Pio XII, che degli Ebrei non diceva di “sterminarli” ma di “emarginarli”. L’emarginazione dell’ebreo fino alla seconda guerra mondiale è normale nella cultura cattolica e di questo dobbiamo chiedere perdono, perché quella è stata la base che, se non ha voluto, ha almeno reso possibile e tollerabile quel che è avvenuto. Ma allora non è che bisogna buttare all’aria la tradizione, solo perché negli anni ’40 non riuscivamo a pensare le cose che pensiamo nel 2024, ma darne conto è il modo per essere credibili, per essere quella religione che non solo si limita a non fare danni stando zitta, ma che può dire una parola ancora autorevolmente.
La ‘religione della democrazia’? Non direi così. La democrazia, lo stato liberale, ha bisogno di una religione marginalizzata, privatizzata. Un grande canonista diceva: “noi abbiamo fatto un progetto moderno, mettendo la religione da parte, ma manchiamo della giustificazione della democrazia e, per giustificare la democrazia, dobbiamo tornare a quelle religioni che abbiamo messo da parte, ma che rendono, nella loro assenza, i cittadini capaci di tutto”. Capaci di bersi l’ultima menzogna che dice un patriarca o che dice un capo politico. La forza della religione è una ispirazione, con tutto il carico complesso della tradizione, non soltanto con uno slogan.
A proposito della domanda di chi ha chiesto della differenza tra quanto ho detto io e quel che ha affermato Enzo Pace, preciso che ho sostenuto la stessa cosa di cui ha parlato Pace, facendo riferimento a un diverso modo di pensare il rapporto tra dignità infinita e forme finite della stessa. L’idea che ‘ogni uomo è assolutamente degno’ tende a partire per la tangente della infinità indefinita. Ogni uomo concreto è diverso dall’altro, in quanto a lingua, cultura e tradizioni diverse, ma su questo, mentre le tradizioni continentali pensano l’universalità della legge astratta, le tradizioni anglofone hanno piuttosto maturato l’idea di mettere insieme i diversi, di non farne una versione universale astratta, spogliandoli delle loro caratteristiche. Ecco, l’equilibrio tra queste due strade oggi è urgente: è urgente trovare forme nuove del rispetto dell’altro, nella sua lingua e nella sua tradizione.
Sul contributo del cattolicesimo, che appunto ha nel nome stesso questa universalità, ma ha anche il fatto di avere un rapporto con le sue fonti più complesso di una evidenza. La tradizione cattolica, quando non si chiude negli angoli fondamentalistici, è consapevole di avere una tradizione linguistica diversa, ebraica e greca, latina e poi delle lingue nazionali, che appare come un universo di possibilità. Ricordo in proposito una cosa interessante: il latino si può usare fondamentalisticamente oggi, ma nella Germania degli anni 1930-40, parlare latino voleva dire non cedere alla germanizzazione anche della fede. Il latino era la lingua della libertà nella Germania degli anni 1930-40 e i vescovi resistevano a parlare un latino che voleva dire non parlare la stessa lingua di Hitler. Questo rappresentava, come dire, un surplus di resistenza alla barbarie.
Allora le logiche delle lingue, quante più sono, tanto meglio garantiscono la non assolutizzazione, nemmeno delle lingue originarie che, nella tradizione biblica, sono tutte lingue di Babele. Anche l’ebraico, è una lingua di Babele; sono tutte lingue di Babele; non c’è la lingua pura. Abbiamo bisogno, nel nostro piccolo, di lingue sacre, ma in realtà apparteniamo a una tradizione diversa e questo è un primo livello su cui appunto le tradizioni cristiana e cattolica hanno qualcosa di forte da dire, purché non facciano il gioco del nemico e finiscano per giocare, tra lingue sacre, una guerra interna alla chiesa.
Rispondo infine a un’altra domanda su una cosa importante: quando la difesa non è legittima. Credo questo riguardi una questione apparentemente marginale, cioè la grande intuizione, quando c’è di mezzo la libertà, che la difesa deve essere giustificata. Giustificata in contesto, nel caso specifico; non c’è una giustificazione generica, può essere l’ impossibilità di ricorrere ad altri ad esempio, cioè ci sono alcuni criteri che sono diventati criteri morali che si sono formati nel tempo, che professano la intangibilità della vita dell’altro. Per cui dire che la difesa è legittima vuol dire superare duemila anni di una tradizione, dove non centra direttamente la religione, per la maturata consapevolezza sociale e ideale, della intangibilità della vita e della libertà dell’altro. Questo non riguarda direttamente la guerra, ma getta sulla guerra una luce trasversale e minacciosa. Prepariamo la guerra ogni volta in cui parliamo senza responsabilità. Dire che la difesa è sempre legittima significa giustificare la guerra di tutti contro tutti come orizzonte “normale”
Alessandro Castegnaro
Su questo, aggiungerei che è proprio necessario, allora, fare un’analisi della situazione concreta, mentre noi tendiamo a saltare questo passaggio. Il nostro modo di ragionare procede per principi generali, mentre non si può parlare dei diritti in astratto, ma ‘in concreto’, nelle determinate diverse situazioni. L’Ucraina, la Russia, eccetera.
Stella Morra
Dirò solo due cose perché l’audio non era ottimale e quindi non ho sentito benissimo le domande. Comincio agganciandomi all’ osservazione di Andrea Grillo, in riferimento all’ultima domanda fatta, se le religioni possono essere operatrici di pace o no e al limite almeno capaci di non fare danni. Diciamo che l’idea di non fare danni è il minimo, ma è anche un po’ troppo poco, probabilmente. L’esempio che faceva Andrea Grillo, parlando delle lingue di Babele, dice qualcosa che ho provato a spiegare prima, e che trovo decisivo in quanto a operatività possibile delle religioni. La Pentecoste non è la soluzione di Babele: non si ritorna indietro a una lingua unica pura, ma è che tutti capiscono nella propria lingua. Nemmeno gli apostoli parlano tutte le lingue, ma ognuno capiva nella propria, anche gli apostoli parlavano nella propria.
Dunque io credo che questo sia il dato strutturale, cioè costituire ‘pratiche del noi’ dove il ‘noi’ è strutturalmente differenziato, non solo ‘plurale’, ma ‘differenziato’. Questa è una delle cose che ho sentito in una domanda: perché esattamente la storia non è fatta di bianchi e di neri, è un grigio. Non è un caso che l’aldilà era considerato “il riposo eterno”. Ciò dice che di per sé la chiarezza, o certe distinzioni possibili, o ‘un’inclusività-senza-fatica’, sarà possibile solo nel regno di Dio. Di qua siamo abbastanza nel regno del grigio o della rete con pesci buoni e pesci cattivi.
E dunque la differenziazione non è in sé un male, è comunque un dato strutturale.
Allora il servizio che le religioni possono rendere è immaginare e offrire pratiche e modelli di convivenza, di queste differenze, in termini generativi, di ricostruzione di ‘noi’ plausibili, storicamente plausibili. Da questo punto di vista io credo che dobbiamo, anche al nostro interno, reimparare la ‘pratica del noi’.
Questo è un po’ quello che in qualche modo ho cercato di dire e secondo me questa questione comporta riprendere anche una capacità propositiva. In fondo le comunità cristiane hanno avuto una grande funzione di traino culturale: offrire e accogliere modelli della vita comune, immagini, metafore, pratiche che, come diceva Andrea Grillo, magari anni dopo mostrano anche chiaramente i loro limiti e non le adotteremo più, ma hanno costituito un modello. Dobbiamo avere il coraggio di una più consapevole assunzione di questo ruolo di operatori di pace, cioè offrire dei modelli di convivenza possibile, consapevoli della loro parzialità e che, forse fra quarant’anni saranno smentiti, ma che comunque sono inevitabili, nel tempo della storia e necessari e sono plurali anche al proprio interno. Nessuno di noi, né tra credenti né tra non credenti, ha la soluzione definitiva e non lo è, tra credenti, ritrovarsi tutti necessariamente d’accordo su un’unica soluzione storica.
Ecco, questo volevo sottolineare, a partire dai frammenti delle domande che ho compreso, grazie.
Enzo Pace
Alle domande relative alla globalizzazione – ce ne sono state varie – risponderei così: rispetto alla prima forma moderna della globalizzazione, che abbiamo sperimentato con il paradigma de “la conquista dell’altro” (come l’ha chiamata Todorov), definita “colonialismo”, dalla scoperta dell’America in poi l’Europa era al centro. Dopodiché questo centro progressivamente si sposta e nell’ultima globalizzazione l’Europa non è più al centro: Anche da un punto di vista religioso: nell’Europa le religioni vivacchiano, declinano, stentano ad avere una visibilità pubblica credibile fino in fondo; ma fuori dell’Europa c’è una crescita furiosa delle religioni, compreso il cristianesimo, che però è un vino nuovo che ha rotto le vecchie botti, creando delle forme liturgiche, delle teologie, anche da un punto di vista architettonico, delle strutture che non hanno più niente a che fare con le chiese del passato. Questo in Asia, in Africa e in alcuni paesi dell’America latina: Brasile, Guatemala, Messico, qualcosa anche in Cile. Quindi cosa vuol dire questo?
Vuol dire che la globalizzazione ha reso possibile questa connessione profonda, accorciando i tempi e lo spazio, per favorire la circolazione di merci, tecnologie, capitali finanziari. Per un certo periodo di tempo, anche l’Europa era così, c’erano politiche attive per fare arrivare persone da varie parti del mondo. Talvolta sembra che la presenza di persone provenienti da altri paesi sia sempre stata sul piano della irregolarità, della clandestinità, ecc., ma non è vero. Se si fa la storia della migrazione in Germania, si vede che la presenza turca è stata una precisa politica voluta dopo la costruzione del muro di Berlino, quando i turchi sono stati chiamati, attivamente, a sostituire gli italiani e i greci. Sono stati chiamati contadini dell’Anatolia, che adesso sono ormai diventati i nonni, i bisnonni di tutta una nuova generazione di tedesco-turchi. Cosa voglio dire con questo?
Che la globalizzazione ha favorito tutto questo ed è intuitivo – non è un argomento di studio – è intuitivo che, di fronte a questo diventare, anche in punti molto piccoli, dal punto di vista dell’urbanizzazione e del popolamento di una nazione, diventare dei piccoli villaggi globali, crea spaesamento. Bradford che è una città multiculturale e multireligiosa, che avrà 500mila abitanti, ha le stesse proporzioni di Arzignano come presenza di persone di origine straniera, mentre Arzignano ha solo 27mila abitanti. Questo senso di spaesamento è un fatto sociale, da cui prendere le mosse per capire come governarlo e in questo senso vanno misurate anche le politiche di gestione di questa diversità, che man mano che è andata crescendo, è diventata una super-diversità. Infatti noi dobbiamo mettere in discussione le categorie con cui classifichiamo queste presenze diverse: i musulmani, gli indù, i buddisti, ecc. Non funziona così, perché ciascuna di queste presenze ha al suo interno una varietà di posizioni, anche da un punto di vista teologico e culturale, per il semplice fatto che ognuna di queste comunità si porta appresso una storia, fatta anche di cicatrici interne, soprattutto dal punto di vista del fatto religioso. Queste comunità, come il cristianesimo, hanno delle divisioni interne che si riproducono nel tempo e ci sono momenti in cui queste cicatrici tornano ad essere purulente e altri in cui, come dire, l’infezione si tiene sotto controllo. Siamo in una fase in cui tutto questo è accentuato dalle guerre.
Non c’è angolo del mondo, non solo del medio oriente in cui non ci si chieda qual è la componente demografica sunnita rispetto a quella sciita. Ci sono addirittura alcuni stati governati da una setta che si spaccia per essere musulmana e fino al 1980 era considerata eretica, basti pensare alla Siria, dove la famiglia Assad fa parte di una setta che fino agli anni ’80 non si sapeva cosa fosse. Il padre, molto più scaltro del figlio Bashar, riuscì a farla riconoscere come setta sciita e questo spiega l’alleanza con l’Iran.
Quindi siamo in una situazione in cui tutta questa complessità o super-diversità religiosa è aumentata e di riflesso si scarica anche sulle nostre società, che fino a qualche decennio fa, fino agli anni ’80, si pensavano omogenee. Sì e no si sapeva che c’erano gli ebrei e un po’ di valdesi, ma forse non si sapeva neanche quanti fossero gli ebrei. Ora invece siamo arrivati a una società che ha più di 180 diverse provenienze e quindi abbiamo tutto il mondo in casa ed è giusto dire che questo crea spaesamento: la globalizzazione crea spaesamento.
In India, quando è cominciata l’ascesa del partito induista, la prima cosa che ha fatto è stata quella di rafforzare, con più di 4mila km di barriere elettrificate, il confine con il Pakistan e il Bangladesh, per il timore che la migrazione clandestina, che c’era e continuava ad arrivare in India, andasse a ripopolare questa parte della popolazione che non è certo ben vista dalla maggioranza fondamentalista indù.
C’è un mondo che alla globalizzazione, ha provato a reagire attraverso i movimenti, che vediamo anche in Europa, che chiamiamo sovranisti, populisti. Sono movimenti che chiaramente riprendono dalla storia l’idea della nazione, dell’identità nazionale, che si fonda su una religione, su una lingua, sul fatto che questa è la terra mia e non posso ospitare più di tanto persone che vi sono estranee.
Il riferimento all’illuministico libro di Habermas, La solidarietà tra estranei, quando Habermas dialogava con Ratzinger su qual era il rapporto tra laicità positiva e diversità religiosa in Europa, è una posizione che non regge. Bisogna trovare nuove categorie di linguaggio, altrimenti non riusciamo a capire. Quindi c’è un nesso senza dubbio e il punto estremamente delicato è che queste politiche etno-nazionaliste prima o poi riescono a trovare un aggancio in qualche movimento religioso. Ma sono le società iperdiverse che generano conflitti.
E ‘conflitto’ non è una parolaccia, è fisiologico e con cambiamenti sociali, politici culturali e religiosi di questo livello, è evidente che devi aspettarti dei conflitti. Quando si inaugura la moschea di Poitiers – che già Poitiers evoca chissà quale scontro, come Lepanto, parola che è tornata di moda – c’è un movimento nazionalista, più nazionalista addirittura della Marine Le Pen, che si chiama Génération Identitaire, il quale va al cantiere, occupa la moschea, mette un cartello “no islamizzazione della Francia”. Qui è chiaro che c’è un conflitto che non si può sottovalutare, non può essere ridotto a folklore. Qui c’è un sensore su cosa non funziona nel modello francese, della laicità alla francese, come separazione di pubblico e privato, perché “la religione è un fatto privato”. Ma la religione non si può più considerare così, come un fatto privato, bisogna rileggerla riprendendo lo schema marxiano che sosteneva che ‘la religione ha un peso pubblico’.
Il problema è capire quali sono i limiti che bisogna darsi, che la religione deve darsi, così come la politica deve darsi i suoi limiti e il limite è quello… qui rispondo a una domanda che chiedeva notizie sul modello di integrazione britannico.
Il modello di integrazione britannico ha sempre funzionato, si può dire, con quella mentalità imperiale-coloniale che lo ispirava. Dove i britannici sono andati, cosa hanno fatto? Hanno preso le diverse religioni o comunità, le hanno riconosciute mettendole in una gerarchia, da quelle più manipolabili a quelle meno manipolabili. Ad esempio i sikh sono sempre stati trattati benissimo, per cui la comunità sikh in Inghilterra è una comunità ben integrata. Con i musulmani o i pakistani, in qualche parte nel subcontinente indiano gli atteggiamenti sono stati diversi. Il principio generale è sempre stato quello di dire: un individuo che arriva in Inghilterra, proviene da una regione, che io Inghilterra ben conosco perché ci sono stata come colonizzatore, quindi so come funziona, questo individuo è integrato attraverso la sua comunità etnica, per cui il riconoscimento avviene attraverso una etnicizzazione anche della religione a cui una persona appartiene. Questo è il limite dello schema, del modello ormai entrato in crisi anche in Inghilterra, che è evidentemente diverso da quello francese, in cui la religione, siccome è un fatto privato non interessa allo stato. Tu fai quello che vuoi a casa tua, però non ti sognare di chiedere a me stato un qualsiasi riconoscimento, anche di un atto religioso come potrebbe essere quello della scuola di Pioltello – “per la fine del Ramadan abbiamo bisogno di fare una festa collettiva, quindi abbiamo bisogno di uno spazio, abbiamo bisogno di fare tutta una serie di riti. Lo stato dice “ma no, questo è un fatto privato, arrangiatevi voi”.
Il modello inglese ha teoricamente il pregio, all’inizio, di aver facilitato l’integrazione dolce, perché in qualche modo una persona arriva, si sente come a casa propria. Però ha un limite, col passare delle generazioni, perché questo ha voluto dire incistare in città come Birmingham o Bradfort delle enclave etno-urbane che funzionano come una piccola Islamabad o una piccola Lahore. Quando si arriva a Bradford e si entra in un taxi, la radio è sintonizzata su radio Lahore e non su radio Londra!
Questo è il limite grosso del modello; ed è lo stesso limite che si ritrova in paesi dove sono sorti i movimenti più feroci contro gli immigrati in Europa, che oggi sono in Belgio, in Olanda e in Danimarca.
Quindi in questo senso la globalizzazione ci ha messo di fronte, noi europei, al fatto di non essere più al centro del mondo e dover gestire il mondo, abituati – in questo senso Giampiero Dalla Zuanna ha in parte ragione – in qualche modo a conquistare, come direbbe Todorov, la testa degli altri e assimilarli alla nostra testa. È il problema delle teologie africane, delle teologie indiane; è il problema che si pone, a livello teologico, con un popolo che ho incontrato in Africa, in Nigeria e in Ghana, vedendo come si ragiona lì, dove crescono le vocazioni, ci sono tantissimi giovani che vogliono fare i preti, li incontriamo anche qui da noi, ma hanno difficoltà ad entrare nel linguaggio che sta dietro alla teologia cattolica nostra, alla nostra cultura e alle nostre lingue.
Questo è un elemento importante da tener presente. Anche tutti i movimenti che hanno la pretesa di contrastare gli effetti negativi della globalizzazione dimostrano di complicare i problemi, non riuscendo a gestire i conflitti.
Se vincono le destre in Europa, speriamo di no, come faranno a gestire società che non sono più omogenee, che hanno una diversificazione interna così elevata? Se non sei capace di fare una politica intelligente di riconoscimento e di chiarezza, se non sei capace di dire: “ti riconosco fino a questo punto, ma ci sono delle cose che non posso riconoscerti, proprio perché ho anche la consapevolezza di dover difendere la dignità infinita delle persone”. Penso al problema del genere e al problema di tutte quelle forme chiamate ‘diritti religiosi’, che nei canoni delle altre religioni spesso sono il prodotto storico di civiltà tribali-patriarcali e quindi riproducono degli schemi che a una nuova generazione sikh, buddista, musulmana, induista europea, cioè di gente nata in Europa, non dicono più niente. Quindi anche per queste religioni si tratta di fare il lavoro cui alludeva Andrea Grillo per quanto riguarda il cambiamento delle categorie interpretative dei testi sacri.
É una fase storica eccezionalmente creativa, questa che noi viviamo in Europa, perché possiamo ancora offrire, in società aperte come siamo noi per fortuna, una serie di strumenti alle nuove generazioni di credenti, che non sono più credenti come lo erano in precedenza i protestanti, i cattolici, gli ebrei, ecc. Questa è una fase creativa e quindi può essere controfattuale questa idea, che circola in Europa, che ormai l’Occidente è in decadenza, mentre in realtà siamo in una fase molto creativa, sfidata anche da queste nuove forme di presenza, che la globalizzazione ci ha portato.
La questione ‘terra-lingua’, è evidentemente un mito. Ora la parola ‘mito’, nelle scienze antropologiche e sociali, non vuol dire fanfalucche, ma vuol dire un racconto di cui i gruppi umani hanno bisogno per sentirsi parte di un comune destino.
Allora, se io ne sono consapevole che è un racconto, posso distinguere ciò che è in qualche modo esagerata o esasperata costruzione di una falsa credenza collettiva e invece ritenere ciò che è buono. Perché è vero che, in alcuni casi, la lingua che parlo ha radici in una lingua sacra – un terzo dei musulmani nel mondo arabo dice che la prima lingua è quella del corano, quindi l’associazione “la mia lingua è la lingua del corano” è facile. É più complicato per le altre religioni, per il cristianesimo, ma c’è. Come quando Peterson, in polemica con altri autori sulla questione della teologia politica – una delle categorie che secondo me oggi andrebbe rivisitata, perché in alcuni casi oggi ritorna – Peterson, che era uno storico delle religioni, dice che il cristianesimo è vaccinato contro ogni ipotesi di ideologia politica, perché ha la concezione di Dio uno e trino, la concezione della relazione.
Attenzione che ‘relazione’, cito un’altra parola che non piace a qualche papa, implica il termine “relativo”, che non è “relativismo”. Per cui, certo, tu devi credere, ma sempre in una relazione con altri, che credono in modo diverso da te. Il problema c’è quando il cristianesimo si presta a una visione ideologica, per la quale “ciò che è scritto è assolutamente indubitabile”.
Quando, qualche anno prima della sua scomparsa – questo nome vi richiamerà subito un testo famoso, Lo scontro delle civiltà – Samuel Huntington ha profetizzato la terza guerra mondiale, lungo le linee di frattura che lui individuò soprattutto nelle culture e nelle religioni – tra l’ortodossia orientale e il cristianesimo occidentale, fra Islam e occidente – egli generalizzò queste fratture. Fu molto discusso e criticato ma qualcosa ci azzeccò, nel senso di aver intuito che le variabili religiose e culturali entrano in conflitto, come abbiamo visto oggi. Prima di morire, nel 2005, scrisse un libro che si intitolava Chi siamo noi e la domanda era “chi siamo noi americani”, sottintendendo noi americani di tradizione protestante. Il suo problema era che la mentalità americana stava declinando a causa dell’immigrazione, in particolare non dei musulmani, ma dei latinos, cioè persone provenienti da paesi di identità cristiane, ma che evidentemente si portano appresso un cristianesimo di nuova generazione, di tipo pentecostale e carismatico, completamente distante dalla sobrietà teologica e liturgica del protestantesimo classico. Quindi “chi siamo noi” era come a dire che qui c’è il problema della lingua, perché ormai in molti stati americani siamo diventati inquilini e quando entri in ospedale o quando vai in un aeroporto senti l’annuncio sempre in due lingue, spagnolo e inglese.
’Chi siamo noi’, detto nel 2005, fa capire cosa è Trump oggi. Perché Trump è dire questo: “noi americani dobbiamo riscoprire le radici”, la nostra identità, la nostra lingua la nostra tradizione religiosa, protestante ovviamente. Quando viene posto questo su un piatto d’argento ai movimenti evangelicali, della cosiddetta destra evangelicale, questo vuol dire ritornare a quel mito – in questo senso è un mito – dell’America come la nuova Gerusalemme. Allora tutta la tua visione religiosa fondamentalista rientra nella politica e si arriva allo slogan: “l’America torni a essere grande”. Cosa vuol dire ‘torna ad essere grande’ in uno scenario di disordine mondiale come oggi?
Vediamo appunto che anche gli Stati Uniti non riescono a gestire questi processi. Chi riesce a gestirli – non abbiamo mai parlato di questo, molto più saggiamente e astutamente, è la Cina. È la Cina che è diventata una potenza mondiale e poi da Deng Xiaoping a Xi Jinping c’è tutta una traslazione dal maoismo al confucianesimo, che ha preso dal confucianesimo l’idea che anche il buddismo, anche il taoismo, fanno parte – parole testuali di Jinping nell’ultimo rapporto del partito comunista – fanno parte dell’anima spirituale del popolo cinese… e senza un’anima spirituale i popoli non vanno avanti. Si recupera cioè questa idea che la tradizione possa servire, in Cina funziona.