Per le medesime ragioni non peccano neppure coloro che,
durante una guerra giusta, non mossi da cupidigia o da crudeltà,
ma solamente dall’amore del pubblico bene, tolgono la vita ai nemici.
Catechismus Romanus ad parochos (1566), n. 328
Grazie per questa occasione di confronto. Credo che sia un merito obiettivo del “Forum di Limena” il fatto di aver aperto un dibattito prezioso, su un tema che affrontiamo spesso con strumenti troppo rozzi; le cose che ho sentito dire stamattina, sia da Enzo Pace sia da Stella Morra, confermano quello che ho cercato di porre come idee di base del mio discorso, ma che vorrei ora precisare, proprio alla luce di quanto ho appena ascoltato.
Lo schema di riflessione proposto da Enzo Pace dimostra che il rapporto guerra-religione ha come terzo ambito quello politico, che fa da mediazione. La tradizione cristiana e i grandi teologi Agostino e Tommaso, nel momento in cui devono giustificare parzialmente il peccato, si rifanno a questo e dicono: della guerra decidono i politici, noi mettiamo in chiaro alcuni riferimenti. Questo “rimando” è classico: la pretesa di sostituirlo con altro, con una “visione diretta” è forse una illusione e ogni chiesa ha in sé le potenzialità per “imporre” una soluzione univoca, sulla base di una “lettura profetica” che può sempre essere, allo stesso tempo, lucidità o oscurantismo, luce o tenebra.
Questo modo di ragionare classico è ancora il nostro ed è quello che secondo Stella Morra oggi dovrebbe cambiare. Cioè il modo di affrontare la questione non può più essere riducibile alla domanda se l’omicidio sia un vizio della giustizia e la guerra un vizio della carità. Questo modo di ragionare non basta più e costituisce quel superamento del punto di vista classico su cui oggi abbiamo da lavorare, senza confondere la profezia con il fondamentalismo.
A questo aggiungerei, e qui sottolineo ancora quanto ha detto Stella Morra, l’importanza di passare dal privato-pubblico al “noi”. Perché questo punto è la novità dell’ultimo secolo: non è solo la novità ecclesiale, è la novità civile, è la novità culturale. La insufficienza delle categorie “secche” di opposizione tra pubblico e privato e la riscoperta di una esperienza “comunitaria” che potrebbe gestire diversamente i conflitti. Senza dimenticare che le categorie con cui abbiamo “polarizzato” nella alternativa tra pubblico e privato la nostra esperienza (anche quella bellica) sono il frutto di una “insofferenza” verso le figure classiche di vissuto comunitario, inteso come legame oppressivo e eterodeterminante. Ivi compreso quello che porta alla guerra con la retorica sul dovere di “difendere la patria”.
1. Una premessa sugli umani e le “circostanze”
Di questo parlerò meglio più avanti, ma voglio anticiparne qui uno spunto per farmi capire, attraverso un esempio: abbiamo un ultimo documento, per certi versi molto interessante, della Congregazione della dottrina della fede (oggi Dicastero per la dottrina della fede) che si chiama Dignitas infinita. (Dicastero per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dignitas infinita circa la dignità umana, si può leggere al link: https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_ddf_doc_20240402_dignitas-infinita_it.html, accesso 30 maggio 2024).
In questo documento, con tante cose belle, continua un vizio tipico della chiesa tridentina. Una chiesa condannata a restare tridentina (il che non è affatto un destino di diritto divino) ragiona ancora in termini di privato-pubblico e deve sempre riaffermare che una cosa che viene detto ora in realtà è stata detta da sempre. Quando, nel paragrafo 3 del documento, si sostiene che “la chiesa da sempre afferma la dignità infinita dell’uomo e della donna”, se si legge la nota a fondo pagina, corrispondente a tale affermazione, si scopre che il documento più recente ad essere citato è di papa Leone XIII, nel 1891. Il fatto rimosso, e letteralmente nascosto dal documento, è che quel tema della “dignità infinita di ogni essere umano” comincia a porsi per la cultura universale solo a fine ‘700, la chiesa lo recepisce in ritardo solo un secolo dopo, dalla fine del 1800, e solo da allora anche il magistero cattolico comincia a parlare il linguaggio della fratellanza sul piano politico, aprendosi poi anche alle logiche della libertà e della eguaglianza. In questo senso – e vedremo nel percorso che vi propongo – abbiamo fatto dei progressi dalla fine dell’Ottocento ad oggi, nel far uscire il tema guerra dalla marginalità, che sostanzialmente lo rimandava alla pura valutazione politica, alla quale la Chiesa suggeriva semplicemente criteri etici di valutazione della guerra.
Da fine ‘800 e soprattutto a partire dalla Prima Guerra Mondiale, il tema “guerra” diventa un tema decisivo, che la struttura ecclesiale però continua a gestire come un tema marginale: questo è il punto problematico e di questo voglio parlarvi e voglio farlo in un modo differente rispetto a come lo ha fatto Enzo Pace e anche da come lo ha fatto Stella Morra. Assumo il tema mettendo in questione in che modo esso interroga il mio rapporto di teologo con la mia tradizione cattolica.
Ci troviamo di fronte ad una alternativa: da un lato dobbiamo forse rivedere la dottrina sulla guerra? Questa è una possibilità, ma dall’altro dobbiamo farci la domanda di quale sia il rapporto, rispetto al fenomeno ‘guerra’, delle nostre idee razionali e delle nostre idee di fede.
Un dato che accomuna tutta la tradizione storica è il fatto che sul tema ‘guerra’ si deve ragionare con la ragione e con la fede insieme, in un rapporto che classicamente è stato pensato in un certa figura e modalità e che oggi bisogna affrontare con strumenti diversi.
Come è stato messo bene in luce dalla relazione di Enzo Pace di questa mattina, uno degli elementi decisivi, nella sua assoluta novità, è costituito dal fatto che il punto di vista credente oggi tende a due opposti: da un lato ad un pacifismo senza mediazione e dall’altro ad un bellicismo altrettanto assoluto.
Il primo polo della questione è la tendenza a pensare il cattolicesimo come un contributo strutturale alla pace, in modo immediato. Questo ha avuto il suo spazio teorico e pratico, in quello stesso ambito da parte mia, a suo tempo, ho fatto l’obiettore di coscienza, al posto del servizio militare, come un ambito di scelta per cui l’essere cattolico mi ha portato, pur essendo figlio di un poliziotto che usava le armi, a fare la scelta di non usarle, di essere contro questa pratica e questa formazione.
Ma il fatto nuovo è che oggi argomentazioni cristiane (meno cattoliche che di altre confessioni, ma anche interne al cattolicesimo) sostengono apertamente la guerra, in modo deciso e netto: come è stato possibile che la storia di più di 100 anni, segnata da due conflitti mondiali, non sia riuscita ad impedire che le chiese cristiane possano dichiararsi apertamente a favore di un conflitto armato, in cui sono “numerosissimi civili” ad essere coinvolti, travolti e uccisi?
Per esaminare la questione vorrei partire dall’ultimo documento che interviene sul tema, e che lo fa dal punto di vista cattolico. Ci sono due numeri che Dignitas infinita dedica alla guerra: sono i numeri 38 e 39, che offrono la fotografia del tema, proponendone un esame su tre piani: una dottrina classica, una dottrina nuova dell’ultimo secolo e un elemento imbarazzante degli ultimi anni. Prima di citare il testo, desidero però precisare che questa esposizione si colloca all’interno di un documento che fa del “riconoscimento della dignità infinita di ogni uomo e ogni donna, al di là delle circostanze”, un principio di evidenza razionale, cui le fedi dovrebbero aggiungere la forza della propria tradizione credente. Questo va chiarito perché il procedimento argomentativo del documento nel suo insieme trova proprio a questo livello una sua debolezza argomentativa, che viene rispecchiata nella trattazione del tema specifico della guerra.
Ecco i due numeri nel loro testo integrale (i testi in grassetto sono mie sottolineature):
“38. Un’altra tragedia che nega la dignità umana è la guerra, oggi come in ogni tempo: «guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali e religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana […] vanno “moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare “una terza guerra mondiale a pezzi”. Con la sua scia di distruzione e dolore, la guerra attacca la dignità umana a breve e a lungo termine: «pur riaffermando il diritto inalienabile alla legittima difesa, nonché la responsabilità di proteggere coloro la cui esistenza è minacciata, dobbiamo ammettere che la guerra è sempre una “sconfitta dell’umanità”. Nessuna guerra vale le lacrime di una madre che ha visto suo figlio mutilato o morto; nessuna guerra vale la perdita della vita, fosse anche di una sola persona umana, essere sacro, creato a immagine e somiglianza del creatore; nessuna guerra vale l’avvelenamento della nostra Casa Comune; e nessuna guerra vale la disperazione di quanti sono costretti a lasciare la loro patria e vengono privati, da un momento all’altro, della loro casa e di tutti i legami familiari, amicali, sociali e culturali che sono stati costruiti, a volte attraverso generazioni». Tutte le guerre, per il solo fatto di contraddire la dignità umana, sono «conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno». Questo risulta ancora più grave nel nostro tempo, quando è diventato normale che, al di fuori del campo di battaglia, muoiano tanti civili innocenti.
39. Di conseguenza, anche oggi la Chiesa non può che fare sue le parole dei Pontefici, ripetendo con san Paolo VI: «jamais plus la guerre, jamais plus la guerre!», e chiedendo, insieme a san Giovanni Paolo II, «a tutti nel nome di Dio e nel nome dell’uomo: Non uccidete! Non preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di ciascuno!». Proprio nel nostro tempo questo è il grido della Chiesa e di tutta l’umanità. Papa Francesco sottolinea, infine, che «non possiamo più pensare alla guerra come soluzione. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!». Poiché l’umanità ricade spesso negli stessi errori del passato, «per costruire la pace è necessario uscire dalla logica della legittimità della guerra». L’intima relazione che esiste tra fede e dignità umana rende contradittorio che la guerra sia fondata su convinzioni religiose: «coloro che invocano il nome di Dio per giustificare il terrorismo, la violenza e la guerra non seguono la via di Dio: la guerra in nome della religione è una guerra contro la religione stessa».
2. Un primo esame del testo più recente “de bello” nel magistero cattolico
Si deve osservare che il n. 38 è costruito in forma altamente dialettica: esso nega la dignità umana nella guerra, però subito dopo dice:
«pur riaffermando il diritto inalienabile alla legittima difesa, nonché la responsabilità di proteggere coloro la cui esistenza è minacciata, dobbiamo ammettere che la guerra è sempre una “sconfitta dell’umanità”».
Qui si dicono due cose in grandissima tensione: se all’inizio la guerra è chiaramente identificata come “attentato alla dignità” la parte centrale della frase formula ancora la dottrina classica sulla guerra, ripetuta tale e quale. Abbiamo allora, contemporaneamente, il discorso nuovo e il discorso tradizionale, giustapposti senza mediazione.
C’è però una sporgenza nuova del tema, che appare solo nel n° 39, dove ribaltando il ragionamento, si dice:
«non possiamo più pensare alla guerra come soluzione. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”».
Quindi nel n°39 si prende in qualche modo le distanze dal n°38, come è diventato piuttosto frequente in alcuni documenti recenti del magistero: prima si dice una cosa e poi si dice anche il suo contrario, senza chiarire in che modo si debbano gestire le circostanze concrete. Una evidenza “al di là delle circostanze” diventa incapace di gestire le circostanze.
Ma l’ultima parte del testo citato è ancora più interessante, perché fa emergere del tutto un dato preoccupante che si manifesta negli sviluppi più recenti. L’intima correlazione che esiste tra fede e dignità umana – che la tradizione ha prefigurato, ma che ha raggiunto una evidenza pubblica solo negli ultimi due secoli – rende contradittorio che la guerra sia fondata su convinzioni religiose:
«coloro che invocano il nome di Dio per giustificare il terrorismo, la violenza e la guerra non seguono la via di Dio: la guerra in nome della religione è una guerra contro la religione stessa».
Questo è l’aspetto nuovo che risponde a temi e toni che sono di tutta la storia dell’uomo, ma che nell’ambito della nostra esperienza europea emergono con nuova ed inaspettata forza, anche all’interno della tradizione cristiana. Vorrei far emergere da queste righe magisteriali, con tutta la loro complessa tensione, tre questioni, di cui la teologia deve assumere responsabilmente il compito di discutere:
a) la guerra come tema di ragione: la riflessione razionale è del tutto necessaria e non risolvibile sul piano della sola fede. Bisogna usare la ragione per riflettere a fondo sul tema e per smascherare i giudizi segreti con cui una ragione “vecchia” e “ingenua” pensa di offrire chiarimenti, quando invece oscura le menti con argomenti vuoti o pieni di errori. Sarebbe sufficiente osservare come i ragionamenti che oppongono “intenzioni” e “effetti collaterali”, conflitto nucleare e convenzionale, proporzionalità e legittimo uso della forza, dimentichino la sproporzione della potenza di un solo missile rispetto alla implicazione delle vite innocenti di uomini, donne, vecchi e bambini, del tutto estranei al conflitto. La ragione qui ha un compito di vigilanza, senza la quale le parole diventano soltanto “specchi di interessi inconfessabili”.
b) la guerra come tema di fede e religione, nel senso di una profezia o escatologia che mostra il limite intrinseco alla logica razionale che vuole giustificare la violenza istituzionale. La ragione, da sola, non permette un giudizio equilibrato: può arrendersi alla cieca violenza del conflitto o, al massimo, può limitarsi a gestire i profili formali dello “ius ad bellum” o anche dello “ius in bello”. Il fatto che in una guerra si sia accusati di “crimini contro l’umanità” (o di “genocidio”) è un volto di questa impotenza razionale, di fronte alla quale le risorse della fede, se non oscurate dalla ideologia, possono creare lo spazio per un “sussulto argomentativo”, altrimenti impossibile. Le fedi e le religioni possono circoscrivere la riduzione della guerra a “strumento”, che è sempre una tentazione razionale. Una più radicale “comunione” può smascherare la dimensione di rimozione dei soggetti viventi, che la ragione può sempre giustificare.
c) la guerra e il supporto religioso-credente alla sua giustificazione: questo tema è specifico degli sviluppi non solo antichi, medievali e moderni ma anche postmoderni. Potremmo dire così: almeno per la tradizione cristiana, la elaborazione sofferta delle esperienza dei due conflitti mondiali sembrava aver assicurato che, senza la illusione di scongiurare la guerra come fatto, si potesse essere giunti alla comune ammissione di una differenza assoluta tra guerra e volontà di Dio. È diventata una urgenza anche intra-cristiana degli ultimi anni la esigenza di ritrovare, su un livello di superiore compito ecumenico, la comune volontà di lavorare perché le armi cessino di fare fuoco. Anche su questo livello elementare, né a livello interreligioso, né a livello interconfessionale, ma nemmeno a livello della medesima appartenenza tradizionale è possibile uscire da “scomuniche” (intra-ortodosse oltre che intra-cristiane) che alimentano lo scontro nazionalistico, senza una adeguata sorveglianza ecclesiale sulle categorie, sui linguaggi e sui toni. Un uso irresponsabile della parola si segnala come deriva di chiese che si fondano sulla “Parola fatta carne”. Si torna, per certi versi, a sostenere la indegnità del “nemico”, a partire dalla sua identità etnica, dal suo comportamento morale, dalle sue alleanze politiche. Un “altro cristiano”, riconosciuto come traditore e peccatore, perde la dignità e può addirittura essere ucciso “per il suo bene”. Questa eredità del pensiero classico, sviluppata anche dal cattolicesimo premoderno, non è stata oggetto di adeguata autocritica e perciò contamina il linguaggio ecclesiale, fuori e dentro il cattolicesimo, offrendo “ragioni ecclesiali” alla violenza di Stato.
3. Che cosa manca in questo schema tripartito?
Alla domanda sulle carenze di questo “schema”, si deve rispondere che ad esso manca, parlando in modo simile anche se con parole diverse da quelle usate da Stella Morra, la correlazione d’impianto che è delicatissima ma che è decisiva. S. Morra, ragionando a fondo sulla medesima questione, ha parlato appunto di stato nascente, stato istituente e stato costituente. Io dico che il modo di comprendere il fenomeno ha bisogno di attingere a livelli di consapevolezza e di tematizzazione razionale nuovi. E su questi punti, appunto, la tradizione non è muta, ci dice cose molto importanti. Per esempio la scelta che ha fatto una larga tradizione di eliminare la guerra dall’ambito dove penseremmo di trovarla, cioè nel suo riferimento alla giustizia, collocandola nell’ambito del peccato contro la carità. La guerra è definita peccato e questa è una grande tradizione di cui essere gelosi: talvolta appunto noi capovolgiamo il discorso e la mettiamo quasi tra le virtù! No la migliore tradizione ce la peccato come peccato, nel quale scopre storicamente alcune cause di esclusione.
Il fatto di uscire da queste logiche, classiche, e che restano anche preziose, comporta un percorso che ha bisogno di autocritica ed è su questo punto che dobbiamo confessare una certa delusione di fronte all’ultimo documento: mentre Amoris laetitia all’inizio del suo testo dice “per entrare nella nuova logica, dobbiamo smontare gli argomenti classici”, e lo fa proprio nei suoi primi numeri, in Dignitas infinita si dice “lo abbiamo sempre detto”… ma questo è semplicemente falso, e contribuisce a confondere le idee, non a chiarirle. Avremmo bisogno di nuove categorie, ma purtroppo il documento non le introduce, limitandosi a giustapporre tre diverse logiche: la giustificazione della guerra, la ingiustificabilità della guerra e la gravissima santificazione della guerra. Questo procedimento impedisce una elaborazione efficace della questione.
4. Excursus: la difesa non sempre è legittima
Vorrei ora invitarvi a ragionare su un uso corretto delle categorie classiche. Già solo questo intento, oggi, ci servirebbe per vagliare criticamente le cose che si sentono dire, nel “mare magno” delle prese di parola incontrollabili da cui siamo quotidianamente circondati. Vi ricordate che di recente, per una questione riguardante l’omicidio, da parte di un politico che parla spesso solo per slogan, è stata usata l’espressione: “la difesa è sempre legittima”. Questo assunto è talmente falso che solo un uomo privo di responsabilità, che vuol godere del favore di tutti i violenti e di tutti gli imbecilli (spesso sono le spesse persone) può averla pronunciata a cuor leggero. Se la difesa fosse “sempre legittima”, l’ordine sociale sarebbe impossibile: la ragione degli uomini, sulla base di una esperienza secolare, ha stabilito accuratamente che la legittima difesa a livello individuale (e la guerra di difesa, per analogia), devono essere considerate nel contesto proprio, perché non ogni difesa è legittima, come non lo è ogni guerra. I criteri di considerazione della difesa fanno parte della sapienza umana, per quanto riguarda la difesa individuale e lo stesso vale per quanto riguarda la guerra, tenendo però conto di come i due fenomeni (un singolo che si difende e una nazione che si difende) siano profondamente diversi. La “legittimità della autodifesa violenta” è sempre una eventualità residuale, che deve sempre essere provata. Per questo la difesa violenta non è legittima “sempre”, ma solo “secondo le circostanze”. Una difesa “al di là delle circostanze” è principio di dissoluzione di ogni ordine sociale, anche se compiace immediatamente la “domanda di giustizia” del singolo cittadino.
Prima Enzo Pace diceva “noi oggi possiamo avere il caso, che stiamo vivendo, di guerre convenzionali in tempi nucleari”. La cosiddetta guerra convenzionale si legittima per non essere nucleare? Eppure reca gli stessi danni. Avete vista Gaza che cos’è diventata, non sembra sia esplosa una bomba nucleare? Quattro missili della potenza di cui oggi possono essere dotati, senza alcun ricorso al nucleare, sterminano la popolazione, contringono tutti alla fuga, desertificano la vita di generazioni…allora attenzione a non cadere nel modo di dire (semplicistico e falso): “no, quello è un limite, non lo varchiamo”. Non c’è bisogno di varcarlo, noi arrechiamo lo stesso danno che fa una bomba nucleare, pur escludendo tutti i tragici effetti collaterali del nucleare, con l’uso delle armi convenzionali. Quindi da questo punto di vista, il linguaggio è viziato: ha dentro l’ipocrisia di rimozione delle espressioni come “bombardamenti chirurgici” o delle “guerre convenzionali”. Qui appare però a mio avviso un profilo delicatissimo della questione, ossia la differenza strutturale tra omicidio e guerra, che merita di essere brevemente ricordata per come è stata studiata dalla tradizione. Nella nostra tradizione, con tutta la sua antica serietà, troviamo i semi di quelle difficoltà, che sconfinano spesso in veri e propri errori di valutazione, che oggi troviamo nelle nostre parole e nei nostri cuori.
5. Guerra e dignità dell’altro: una differenza importante
Non si deve mai dimenticare che, nonostante tutte le nostre etiche interne alla guerra – una parte della riflessione anche della teologia morale non ha affrontato solo lo “ius in bellum” (ossia le condizioni tassative che giustificano il ricorso alla guerra), ma anche l’esercizio dell’etica all’interno della guerra, lo “ius in bello” (ossia il concreto esercizio delle azioni di guerra) – la guerra fa saltare ogni ordine etico: è il principio del dominio della forza e questa è la grande esperienza del ‘900. E. Lévinas ha scritto Totalità e infinito, il suo capolavoro del 1961, per dire una sola cosa, ossia per fondare la ingiustificabilità della guerra. Alla radice c’è l’esperienza della seconda guerra mondiale in tutti i suoi aspetti, vissuti da lui come ebreo: gli anni della shoàh, sperimentando la logica “anonima”, spersonalizzante e distruttrice della guerra.
Alla radice di questa differenza fondamentale – la differenza dell’altro – dobbiamo ricordare come la sovrapposizione tra ragione e fede non è mai garantita a priori nel saper trovare il percorso giusto. Il motivo per uscire definitivamente dalla logica bellica è riconoscere la dignità infinita dell’altro, che corrisponde però alla finitezza del suo diritto: qui la riflessione cristiana ha ancora un problema storico, che esige la elaborazione di categorie nuove.
5.1. Excursus 1: La dignità infinita in privato e la clandestinità in pubblico
Quanto tutto ciò risulti impegnativo dalla difficoltà con cui Dignitas infinita affronta alcune questioni non nominando nemmeno, per usare le parole di Stella Morra, forme nuove di istituzioni e di costituzioni. Creando una sorta di “parallelismo” tra dottrina (immutabile) e disciplina (mutevole) cerca di aggirare l’ostacolo costituito dalla “dignità condizionata”. Lo stesso tipo di problema emerge in un altro documento del medesimo Dicastero (Fiducia supplicans) in cui la correlazione tra i due piani risulta faticosissima e sostanzialmente inefficace.
Proviamo a domandarci: da dove viene tutta questa paura per le benedizioni, quando sono per persone che vivono situazioni “irregolari”, se queste persone le desiderano ardentemente? La risposta è: perché alterano la struttura istituzionale e la pretesa di un “ordine pubblico”. E’ evidente che qui sto cambiando discorso, sto uscendo dalla dignità infinita alla vita e sto entrando nella dignità infinita alle scelte di vita, ma la difficoltà è esattamente la stessa: una chiesa che si pensa tridentina, se benedice persone omosessuali o divorziate risposati, lo fa in sacrestia non davanti a tutti, non riesce a pensare a quello come un atto comune. L’importante è che non sia pubblico, che rimanga in ambito privato. E questo non riguarda soltanto la piccola cosa o la grande cosa della benedizione, ma riguarda la postura della chiesa nel mondo.
La postura della Chiesa cattolica è ancora privato-pubblica, resta tridentina: ossia rimane, in poche parole, moderna. Il cattolicesimo non ha ancora elaborato la cultura tardo-moderna e post-moderna, che chiede “communitas” tanto ad di qua quanto al di là del profilo privato-pubblico. Uscire da una chiesa tridentina vuol dire cambiare modo di pensare l’istituzione e perciò cambiare anche ilmodo di pensare la guerra.
Per far capire meglio questo esempio è utile leggere l’incipit di Dignitas infinita. Il testo in questa introduzione afferma la dignità infinita dell’uomo e della donna, concetto che la chiesa propone oggi profeticamente, ma non ha il coraggio di ricordare che questa cosa, detta così, l’ha scoperta da poco più di un secolo.
“Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti”. (Dignitas infinita)
Questa frase, si deve fare attenzione, è una sorta di autocontraddizione. Questa deve essere una evidenza trasparente alla ragione: se però è la storia della salvezza che ci mostra la dignità, dicendo al di là di ogni circostanza stiamo usando il linguaggio del diritto universale, che non può prendere sul serio alcuna tradizione particolare. La fede sembra, in questa ricostruzione autorevole, una mera “pedagogia” per valori universali. Una strana formulazione di un assetto di pensiero che dovrebbe custodire la unicità di ogni uomo e donna come “infinitamente degna”, nel quale il “davanti a Dio” diventa una mera circostanza secondaria. Qui emerge un problema del linguaggio contemporanea a proposito dell’infinito: davvero accediamo all’infinito solo se pensiamo “al di là delle circostanze”?
5.2. Il modo “politico” di considerare le persone
Con bella efficacia, Enzo Pace nella sua relazione ha detto che “non regge l’idea che si rispettino le persone spogliandole di tutte le loro caratteristiche, dicendo tu sei universalmente dotato di dignità, se non ti custodisco nella tua tradizione linguistica, religiosa, morale”. Questo è un procedimento del mondo contemporaneo che in qualche modo deriva dalla rivoluzione francese e allo stesso tempo dalla rivoluzione americana, in quanto eventi che rappresentano effettivamente due aperture alla dignità infinita: sono diverse nel modo di pensare la “universalità dei diritti” e abbiamo bisogno di tutte e due queste “vie”. Notiamo però quanto è dissonante questo procedimento: si sposa la affermazione della “dignità infinita”, ma poi tutto il documento non fa altro che prendersela con tutta quella tradizione “moderna”, cogliendone soltanto il limite: si suonano le trombe, “finalmente si parla di dignità infinita”…ma come se ne parla, che valore hanno le vite concrete, le lingue concrete, le figure concrete degli uomini e delle donne? Questo insieme di “circostanze” è decisivo, visto che il conflitto bellico (meglio sarebbe dire il degenerare in guerra dei conflitti) sorge proprio lì. Sono le circostanze il problema.
Secondo lo stile classico, si dice che questa affermazione concorda con quanto riconoscibile dalla ragione. Ma non è così scontato e lineare. Anzi, proprio nell’ultimo secolo è precisamente questa correlazione ad essere entrata in crisi. Dovremmo allora dire la cosa diversamente.
In rapporto con le diverse tradizioni la ragione è inaggirabile per la fede, ma la fede mostra continuamente alla ragione il suo limite; d’altra parte la ragione può cancellare l’orizzonte che a sua volta la fede pone: questo rapporto complesso va tenuto presente e portato alla luce proprio per esaminare la questione.
Sulla pace e sulla guerra noi superiamo le difficoltà se abbiamo chiaro questo doppio rapporto tra fede e ragione. E su questo dobbiamo confessare apertamente i limiti anzitutto della nostra tradizione: mettere le carte scoperte sul tavolo, evidenziando i linguaggi della tradizione che appaiono incompatibili con questa prospettiva. Per questo può essere utile rileggere un “testo matrice” su cui invece spesso operiamo una rimozione insidiosa.
5.3. Excursus 2: una dignità “finita” in S. Tommaso d’Aquino
Una visione della dignità umana come “dignità infinita” non è un concetto noto a Tommaso d’Aquino e in generale a tutti gli uomini premoderni. Nella grande questione 64 della II-II Summa Theologiae , collocata nella parte dove Tommaso parla di tutte le virtù e di tutti i vizi, quando si occupa dell’omicidio, l’articolo 2 giustifica l’uccisione del peccatore proprio sul piano della “mancanza di dignità”. Negli argomenti a favore viene citato il salmo: Di buon mattino sterminerò tutti i peccatori della regione (Sal 101,8) e nel corpus si dice con il peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione perciò decade dalla dignità umana che consiste nell’essere liberi e nel vivere per se stessi. Così sebbene uccidere un uomo sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere non punibile, perché un uomo cattivo è peggio di una bestia. Così conclude Tommaso, citando Aristotele.
Non vi è alcuna dignità infinita universale, ma una dignità finita e subordinata ad un raffronto tra vita vegetale, vita animale e vita umana: l’uomo che pecca, per Tommaso, perde la dignità, regredisce allo stadio animale. Questa è la voce della nostra tradizione, sta dentro di noi (e con noi intendiamo non solo la comunità ecclesiale, ma l’intera compagine culturale del linguaggio comune a tutti, uomini e donne), e se la si vuole superare occorre farlo esplicitamente, argomentativamente, altrimenti, prima o poi, torna comodo rifarsi di nuovo ad essa: chiunque citare anche questo brano per escludere dalla “dignità umana” o il disabile, o l’immigrato, o l’occidentale corrotto o l’orientale superstizioso. Questo è il cammino doloroso e faticoso degli ultimi due secoli: riuscire a scovare nella diversità dell’altro una dignità che non può essere toccata, infranta, violentata.
Credo che sia fondamentale, anzitutto oggi, proprio per gettare luce sui percorsi cristiani che generano violenza, e che possono arrivare alla negazione della dignità dell’altro, entrare in questo denso confronto, anzitutto con se stessi e con le proprie “zone d’ombra”, che possono ancora lasciare tracce, anche nei fedeli cattolici, di questa forma di perdita di dignità del peccatore, che per questo diventa motivo che sufficiente a giustificare la sua riduzione a soggetto “senza dignità”. Una volta che un uomo venga considerato “indegno”, tutto diventa possibile. Questa legittima domanda di “dignità al di là delle circostanze” deve essere accuratamente circostanziata e non risolta con una scolastica elencazione di “forme della dignità” (ontologica, morale, sociale e esistenziale) che non offrono una vera intelligenza del fenomeno, essendo privilegiata una lettura “ontologica” che tende ad identificarsi con una pericolosa astrazione.
6. Giustizia, carità e guerra
Riascoltiamo il discorso della tradizione classica: la guerra come peccato contro la carità si fonda su evidenze storiche, mentre l’omicidio come peccato contro la giustizia può essere giustificato quando è compiuto verso un peccatore. Questa “riserva” costituisce un bacino di violenza potenziale, che va ben al di là delle regole razionali di composizione del rapporto tra aggressione e difesa. Qui si annida una questione più radicale, che quella analisi non è in grado di disinnescare, anzi rischia di rimuovere o addirittura di giustificare.
Riascoltiamo ora le parole dette da Enzo Pace, quando si riferiva sull’uso fondamentalistico della religione, cosa che è in agguato in tutte le tradizioni, anche nella nostra illuminata tradizione cattolica romana. Quando il problema è serio, che cosa si fa? Si legge la Scrittura in modo fondamentalistico per trovare un “al di là dalle circostanze”, per aggirare ogni ragione.
Proviamo a cambiare esempio e poniamo la questione: perché la donna non può essere ordinata? Perché “non abbiamo il potere di farlo”, si dice, e ci si arrampica sugli argomenti di cui parlava Enzo Pace, per assumere una posizione ultima, che divide tra amici e nemici: chi dice il contrario è un nemico (della tradizione e della Chiesa). A partire da 1994, dopo Ordinatio Sacerdotalis. i teologi non potevano parlare, ma oggi possono farlo, perché capiscono che anche qui c’è in gioco una dignitas infinita delle donne, sul piano dell’esercizio della autorità, al pari di quella degli uomini.
Vi è dunque un’evoluzione nel modo di considerare la dignità come dimensione infinita che non può mai essere perduta ed è su questo, su questo modo di leggere le cose, che comincia nel XVIII secolo e si sviluppa nel XIX, XX e nel nostro secolo, la trasformazione profonda sia del modo di pensare l’omicidio, sia del modo di considerare la guerra.
Tuttavia, come abbiamo visto, la analogia della guerra con l’omicidio è assai rischiosa. Perché i presupposti elaborati sul piano del rapporto personale, se non adeguatamente chiariti, diventano molle e motivazioni per incrementare la guerra, che da giustificata diventa giusta e da giusta può diventare addirittura santa. Questo mancato controllo della “sequenza argomentativa”, che oggi accade sia in campo politico, sia in campo ecclesiale, sollecita all’esercizio di una “disciplina del pensiero (comune e credente)”.
Qui, infatti, la vera novità, a mio avviso, rispetto al contesto in cui è stata elaborata la dottrina ripresa anche dal catechismo CCC (ai nn. 2302-2317), è il ritorno del rapporto tra “fede-religione-chiesa” e “nazionalismo”. Il supporto delle fedi (cristiane e non cristiane) alle “ragioni di esistenza di una nazione” (di carattere aggressivo oltre che di carattere difensivo) portano un elemento nuovo, che assimila la logica bellica alla “guerra santa”. Se guardiamo, a partire dall’inizio del nuovo millennio, questa logica è entrata potentemente in tutti i grandi conflitti: la “confessionalizzazione delle guerre” è diventata normale, a oriente come a occidente. Questo è stato possibile nel silenzio imbarazzato e talvolta nella parola complice di teologi e di pastori. Ma la “parola complice” spesso è il frutto di una lacuna nella elaborazione teologica. Di qui il richiamo finale ad una parola teologica responsabile.
7. La responsabilità teologica
Concludo perciò con alcune questioni per la teologia. E’ il modo di esercitare la autorità da parte della Chiesa che esige un modo corretto di utilizzare le fonti e di chiamare in causa la Scrittura e la Tradizione.
Si tratta di identificare meglio in che modo la giustificazione, che in extremis non si può mai negare del tutto ad una guerra, non renda la guerra giusta e tantomeno santa. Continuare a riflettere su questo assunto, che permane, dovrebbe essere un compito inesauribile per ogni teologo cristiano. Vediamo di svolgerlo in tre brevi punti:
7.1. Far emergere con maggiore evidenza il disegno di Dio come disegno di pace. Sono necessarie, a tal proposito, la elaborazione di pratiche intra ed extra ecclesiali: anche all’interno della chiesa questa priorità non è affatto chiara. Non è chiara per esempio se si accetta che, come di fronte a condizioni matrimoniali irregolari, la principale preoccupazione sia di evitare lo scandalo. Evitare lo scandalo, nel caso della guerra, non è mantenere la pace, è mantenere lo status quo, che, se ingiusto, prima o poi degenera in lotta armata. Vi è un sottile filo di continuità tra “principio dello scandalo” e “giustificazione della guerra”: esso deriva dalla inconfessata rimozione del “comune”, rispetto a cui prevale solo privato e pubblico.
7.2. Rielaborare la sovrapposizione tra fede, ragione, popolo e nazione, mediante un riferimento strutturale al “fare tradizione”, realizzando azioni di prevenzione. E qui voglio dire una cosa che spesso noi dimentichiamo: la posizione del cattolicesimo sulla guerra è ovviamente privilegiata dal fatto che la “universalità cattolica” ha il vantaggio di non identificarsi in nessuna nazione particolare. Anche se spesso può accade che si confonda la Chiesa cattolica con lo Stato Vaticano (e possono farlo sia la opinione pubblica o antichi o moderni capi di stato), dopo il 1870 la “perdita del potere temporale” ha condotto la chiesa cattolica ad un punto di vista in cui la “immedesimazione nazionale” è ancor più difficile. Questo è allo stesso tempo un limite ed un enorme vantaggio. Eppure, se andiamo alle vicende di pochi decenni fa, e torniamo alla Seconda Guerra del golfo, ricordo che organizzammo alla facoltà teologica di Sant’Anselmo a Roma degli incontri sulla pace (con invito al prof. Consorti) ma i preti americani che erano studenti dell’Ateneo non parteciparono, perché secondo loro parlare di pace allora in quel contesto era negare i diritti della loro nazione a difendersi dal terrorismo internazionale, portando la guerra in Iraq. I preti del North American College non partecipavano agli incontri sulla pace! Il nostro scandalo per le prese di posizioni della Chiesa ortodossa russa di oggi deve far memoria di questi fatti di circa 20 anni fa. Appena viene toccato un territorio con presenza cattolica scattano, anche presso i cattolici, gli stessi meccanismi che scattano nei russi, negli ucraini, negli israeliani e nei palestinesi. Certo, una differenza fondamentale è costituita dalla costituzione “universale” della Chiesa romana, che non si nazionalizza se non parzialmente. Ma il fenomeno politico e antropologico della “nazionalizzazione” implica un magistero cattolica capace di non cadere nella “astrazione”, ma in una rilettura delle “circostanze”.
7.3. Infine un necessario richiamo alla fratellanza. Come avevo già detto prima, la ricostruzione dell’idea di fratellanza come decisiva trova un orizzonte decisivo nel testo di Fratelli tutti: questa è davvero la grande intuizione, cioè l’impegno a lavorare sulla terza delle espressioni che qualificano la rivoluzione francese, oltre a libertà e uguaglianza. Per la sua difficile “giuridicità”, a differenza di libertà e uguaglianza, la fratellanza è il livello in cui il metapolitico e il pre-politico hanno comunque un ruolo decisivo. Convertire il metapolitico e il pre-politico alla logica di fratellanza è una grande impresa, una sfida istituzionale aperta, che riguarda la chiesa e riguarda le religioni. Se una comunità di fede, che pure ha bisogno di elaborare accurate strategie, anche giuridiche, di libertà e di eguaglianza, non riesce a produrre forme effettive di “vita fraterna”, non contribuisce veramente alla pace. La correlazione tra questa dimensione pre- e meta-politica con la dimensione etico-politica può costituire, effettivamente, il campo nel quale una competenza teologica risulta mediazione inaggirabile al discorso delle chiese e delle fedi.
Conclusione
In una parola, la tesi che ho cercato di sostenere è la seguente: per parlare significativamente della “guerra” come “peccato” e come “non peccato” si deve proporre una sintesi di ragione e fede che faccia del tema “guerra” una analisi capace di una visione complessiva, senza lasciare da un lato la fede “esterna” alla ragione e dall’altro la ragione “esterna” alla fede. La immediata coincidenza tra verità di ragione e verità di fede (che è anche la pretesa di Dignitas infinita, come la versione più recente di un pronciamento organico sul tema) è una illusione, che rende più forti le forme del razionalismo senza fede e del fondamentalismo senza ragione. Ogni tradizione deve, per così dire, depurare sia un versante sia l’altro. Il razionalismo senza profezia, e la accelerazione profetica senza ragione. Da entrambi i fronti oggi possiamo patire gravi danni.
Importante è, teologicamente, non nascondere le questioni: il problema è una “teoria della fratellanza” davvero convincente appare decisivo. In modo più specifico, dobbiamo chiederci in che senso il “terzo” principio della rivoluzione francese modifichi la nostra comprensione sia della libertà sia della uguaglianza. E perché paradossalmente libertà ed eguaglianza inizino orientare il loro sguardo sulla fratellanza, nella sua “irriducibilità al diritto e al dovere”. Qui sta un punto davvero impegnativo, per la Chiesa come per la cultura comune.
Ai rimedio di conflitti sempre più forti e insidiosi, che cosa possono offrire le fedi e le religioni? Io credo una “teoria e pratica della fratellanza universale”. Senza di questo, le religioni possono fare quasi soltanto danni maggiori. Nel senso che amplificano e ideologizzano i conflitti e offrono loro un orizzonte “giusto” e “santo”, che li trasforma nella cosa peggiore: in idoli bellici. Di fronte alla guerra, più degli “ordigni” dobbiamo temere gli “idoli”.