Su questo tema, mi fa molto piacere intervenire, per la logica che vi siete dati di evitare di fermarvi puramente alle parole, agli auspici, ai desideri che certamente ci uniscono tutti, ma dopo che abbiamo detto “ah, tutti siamo per la pace”, poi che cosa succede?
Quindi grazie di questo invito e mi scuso molto di non essere in presenza con voi, ma di interloquire da lontano. Purtroppo la vita è complicata, credo per tutti e per me lo è abbastanza in questo periodo. Mi avrebbe fatto piacere essere lì, ma non è stato possibile, abbiate pazienza.
Allora, dato che abbiamo già sentito parlare abbastanza a lungo e forse abbiamo bisogno di non ammonticchiare troppe cose, vorrei provare in parte a reagire a quello che abbiamo sentito, ma anche ad offrire qualche ulteriore spunto, limitandomi veramente a due o tre questioni rapide, poi caso mai se ci sarà tempo per un dibattito, si potranno approfondire meglio.
Mi stuzzica molto, anche per mia sensibilità sociologica oltre che teologica, questo ragionamento che è stato fatto e che trovo molto pertinente, cioè che “le religioni non hanno una influenza immediatamente diretta rispetto al tema della guerra, né in bene né in male, paradossalmente, ma c’è piuttosto un uso folkloristico della religione”. Le religioni rischiano oggi di avere, seppure in forme diverse nelle diverse parti del mondo, lo stesso ruolo sociale che non hanno mai avuto prima e cioè di essere diventate il deposito della sacralizzazione.
Quando dico ‘uso folklorico della religione’ voglio dire esattamente che è come se le religioni fossero diventate l’ultimo bacino possibile dove attingere simboliche, motivazioni, fondazioni, legittimazioni di tipo ‘sacrale’ che, appunto, poi vanno a intersecarsi con il tema delle identità etnico-politiche o etnico-nazionalistiche.
Questo ovviamente, dal mio punto di vista almeno, è un vero problema teologico nuovo. Noi usciamo da una riflessione teologica circa questo tema molto standardizzata e negli ultimi tempi anche molto fragile, perché per lungo tempo la teologia si è limitata a pensare la guerra in termini morali – guerra giusta vs guerra ingiusta e limiti e legittimità di – ma senza riuscire a pensarla, come molte altre esperienze dell’umano, in termini storico-salvifici, che sono invece i termini interessanti oggi, almeno per il cristianesimo, dal punto di vista teologico.
Cioè relativi alla funzione di trasparenza o di opacità, rispetto al regno di Dio, che alcune cose hanno nel corso della storia e come le parole e le pratiche cristiane possono rendere più trasparente, rispetto al regno di Dio, ciò che nella storia accade.
Questo tema è una lettura che ha anche delle conseguenze morali, ma non è riducibile a una lettura morale.
Allora l’idea è che il problema teologico, rispetto alla questione attuale appunto, esca da una lettura puramente e rigidamente morale o moralistica e in qualche modo si ponga il problema di una lettura storico-salvifica, cioè di una comprensione di ciò che nella storia accade in termini di opacità o trasparenza rispetto al regno di Dio. E rispetto a questo, siamo abbastanza disabituati, poco attrezzati, per questo appunto dicevo è particolarmente rischioso per il cristianesimo questo uso sociale di un deposito di sacralizzazione. Cioè che la funzione dell’esperienza cristiana, delle pratiche e della lingua cristiana, sia semplicemente quella di costituire un processo di legittimazione alla sacralizzazione di ciò che accade nella storia, che siano le questioni etnico-identitarie o che siano altre questioni.
Da questo punto di vista dunque la prima osservazione che vorrei fare è che in questa logica non c’è una posizione cristiana sulla storia tout court, ma c’è la coesistenza, interna al cristianesimo, di una pluralità di strade e livelli, dunque di atteggiamenti, interventi, pensieri, idee, parole, che in qualche modo sono chiamati a interagire nella complessità della storia. Non c’è, diciamo, la soluzione ideale, la risposta in stile catechistico in cui si dice ‘che cosa un cristiano deve pensare e fare rispetto a questo problema’: “ok è così, punto”. Non funziona così.
Entrare in una logica storico-salvifica significa assumere la complessità della storia e dunque assumere anche che, rispetto a ogni passo della storia, le posizioni possano essere plurali, non solo perché abbiamo opinioni diverse, ma perché variano in se stesse, dalla più profetica alla più escatologica.
Vale a dire perché sono chiamate a interpretare una gamma di possibilità diverse di trasparenza della storia rispetto al regno di Dio, che non è mai unificabile in una posizione sola.
Abbiamo faticosamente imparato, dopo il Concilio, che è legittima e addirittura può essere una ricchezza la coesistenza di opinioni diverse, ma continuiamo a ragionare come se le opinioni diverse, dentro la comunità, fossero semplicemente frutto di disaccordi. Cioè “la mia sensibilità e la tua”, “la mia posizione politica e la tua”, “la mia educazione, i miei strumenti e i tuoi”. Invece la grande questione in gioco è che la pluralità di posizioni è interna al fatto cristiano, perché mostra le sfaccettature del poliedro, per dirla come papa Francesco, perché non siamo di fronte a una sfera cioè a una storia già compiuta che sia interpretabile in modo univoco.
Allora, da questo punto di vista, la vera azione a servizio della pace è innanzitutto provare a mostrare le pratiche di questa convivenza, cioè che è possibile vivere da diversi, non solo per i nostri disaccordi, ma anche perché la realtà è così complessa, che nessuno può presumere di raccoglierla in un elemento solo.
Allora si impone la questione della necessità di pratiche di convivenza della differenza, è una necessità interna al pensiero cristiano… Questa questione di coesistenza di posizioni diverse non è una questione semplicemente di disaccordi, perché non riusciamo a metterci d’accordo, perché la mia sensibilità o la tua sono diverse, la mia educazione o la tua sono diverse… ma è una coesistenza interna connaturata all’esperienza cristiana, perché legata all’incarnazione, perché inevitabilmente in una lettura storico-salvifica la storia non è univoca, perché non è totalmente “trasparente” del regno di Dio.
E dunque noi siamo chiamati in qualche modo ad assumere una gamma di posizioni possibili, che nella loro diversità sono legittime, da quella più profetica a quella più escatologica, rispetto alle opzioni concrete.
E, dicevo, la vera azione a servizio della pace è mostrare la possibilità di una pratica generativa di queste convivenze.
Quando prima il professor Pace ci richiamava le pratiche di assimilazione… l’esperienza cristiana ha fatto molto fortemente, in un primo passaggio dopo Vaticano II, questa pratica. Pensiamo a tutta la teologia dei cosiddetti cristiani anonimi, che è sostanzialmente una pratica assimilatoria pacifica, non proselitistica, ma di per sé una logica per cui abbiamo detto tutti, “voi non lo sapete ma siete dei cristiani, siete assimilabili, siete tutti figli di Dio e quindi…” e ci sembrava anche un gesto gentile.
Ora il problema è provare a ragionare teologicamente su una pratica di convivenze delle diversità che sia generativa, non assimilativa. Cioè che ci consenta di tenere insieme, ad esempio diverse posizioni, diverse pratiche intorno alla guerra o intorno ad altri temi senza dover ricorrere all’assimilazione.
E qui entrerei nel secondo punto che è “Ok, belle parole teoriche, ma allora cosa vuol dire questo, cosa dobbiamo fare?” Possiamo per esempio accettare che dentro la comunità cristiana ci sia chi ritiene che una certa guerra sia giusta e chi ritiene che alla guerra non si debba ricorrere mai? Sono compatibili queste posizioni?
Allora il problema è proprio qui secondo me. Questo è esattamente il punto, dal mio punto di vista, in cui siamo. La situazione del mondo in cui ci troviamo, con la pluralità delle guerre e delle loro difficoltà di interpretazione, per cui di ognuna diciamo “eh ma qui è una storia particolare, c’è un pregresso, c’è una situazione ecc.”, richiede un passo ulteriore, ci pone il problema di passare da una enunciazione generica all’individuazione di pratiche concrete per rendere possibile quanto ho appena prospettato.
E le pratiche si elaborano solo a livello di culture: la forma dell’incarnazione per noi è la cultura o le culture nella loro pluralità, che non sono solo quelle degli altri, ma anche quella in cui ciascuno di noi è immerso.
La vera questione è che le comunità cristiane possono servire la convivenza pacifica nel mondo attraverso una capacità d’intervento sulle dimensioni metacognitive delle culture, su quella parte di cui ci diceva prima molto bene il professor Pace, cioè su quella parte che esattamente si radica o in una sacralizzazione per legittimarsi o da qualche altra parte, se ha delle alternative.
Allora io credo che la grande decisione da prendere sia questa: se vogliamo essere religioni che forniscono un deposito di sacralizzazione possibile, finendo di fatto per esasperare la polarità, le polarità, oppure se siamo in grado di inventare un altro ruolo sociale della religione in questo tempo.
Qui il ragionamento sarebbe molto lungo e tornerò forse su questo più tardi, ma qui vorrei dire si stabilisce un primo passo, di cui non ho adesso il modo di dare tutta la motivazione teologica, se qualcuno è interessato ne parliamo dopo, ma ora ne anticipo un po’ il risultato. Ragionando teologicamente su queste pratiche, possiamo individuare la questione di fondo: ‘che cosa vuol dire, secondo la logica dell’incarnazione, la costruzione di un ‘noi’ non etnico-nazionale’?
Perché questa è la questione: negli ultimi due secoli le chiese cristiane in particolare hanno sposato l’idea di nazione, ma non solo le chiese cristiane, hanno sposato l’idea di nazione nel senso moderno, più che contemporaneo, del termine: ‘nazione’ come esattamente lingua, terra… e le religioni lo hanno sposato per usarlo, per farsi proteggere dalle nazioni nelle loro legislazioni. In realtà, come ci spiegava il professor Pace, ne sono state usate, cioè hanno contribuito a dare un patrimonio di sacralità alla lingua, alla terra, all’unità nazionale.
Il problema è che dobbiamo chiederci che cosa possiamo “sposare” oggi.
E credo che la grande urgenza culturalmente sia che dovremmo sposare la forma del ‘noi’. L’idea di Fratelli tutti non è semplicemente un auspicio emotivo, ma è una struttura molto seria che consente di vedere che cosa significa in qualche modo passare dalla ‘dinamica pubblico-privato’ alla ‘dinamica del comune’. Ed è chiaro che questo crea un tasso di conflittualità con le nazioni, che sono basate sulla polarità pubblico-privato.
In qualche modo lo possiamo fare attraverso tre passaggi che appunto per noi, per me come teologa, hanno radici profondamente teologiche nella storia dei credenti, ma ve li racconto in terminologia contemporanea.
I tre passaggi sono:
l’individuazione degli stati nascenti, cioè la capacità di cogliere nella storia, nelle storie, quegli aspetti, quelle dimensioni, quelle realtà che sono generative. Non in modo generico ma politicamente generative e che magari sono estremamente parziali.
Faccio un esempio molto concreto, che è riferito alla mia esperienza di teologa donna. Se continuiamo a ragionare sul genere prendendo come interlocutore la parte più ideologica di una pretesa teoria del genere, uccidiamo la parte più dialogica di questa esperienza, per esempio le categorie euristiche di studio, che ci vengono offerte, le categorie in relazione ai diritti umani, eccetera, con le quali invece dovremmo dialogare. Anche in una ideologia, ammesso che esista, totalmente sbagliata, ci sarà sempre un’interpretazione, una parte, un tema, una questione più moderata e più generativa.
Allora l’opzione di dialogare e rinforzare quella parte e non dipingere l’avversario come la parte più ideologica è un’opzione politicamente molto forte. Molto forte. Che rischia di scontentare abbastanza tutti, perché i più profetici tra i pacifisti dicono “Ah, ma non puoi accontentarti di questo pezzettino devi essere radicale” e i più apocalittici tra i ‘non-pacifisti’ dicono “eh no, se gli dai ragione su questo pezzettino, vuol dire che gli dai ragione su tutto”…
Il coraggio dell’individuazione degli stati nascenti è l’opzione di dialogare e nutrire gli aspetti generativi. E questo è il primo passo.
Il secondo passo è passare dall’individuazione degli stati nascenti all’articolazione degli stati nascenti come stati istituenti. Cioè dare forza strutturale, immaginare vedere e nutrire tutti i mezzi e i passaggi che da quello stato nascente escono e si possono strutturare. E fare le scelte conseguenti.
Nella polarizzazione ‘mandare armi vs non mandare armi’ non c’è via d’uscita.
Che cosa noi, in genere, apprezziamo molto? Apprezziamo molto per esempio le ONG che non ti dicono se manderebbero armi o no ma, per esempio, si prendono cura di alcuni, si occupano dei feriti, si occupano dei bambini, ecc. questo lo capiamo tutti che è positivo.
Qui il problema è che le ONG non riescono mai a far diventare istituente questo passaggio nascente, ma rimane sempre minoritario. Questo è uno dei motivi per cui secondo me è una gran bella notizia l’assoluzione di ieri alle due navi delle ONG che erano sotto processo per i salvataggi in mare. Perché è un passaggio di stato istituente, cioè è un precedente legale che dice, formalmente, che “non c’è reato”, quindi il passaggio dallo stato nascente allo stato istituente.
Terzo passaggio: fare dello stato istituente uno stato convocante o costituente.
Cioè intorno magari a dei frammenti molto piccoli, istituiti, cioè passati attraverso una forma stabile, che va al di là del sentimento individuale, costruire dei patti.
Dei patti con coloro con cui è possibile costruire dei patti.
Costituire, convocare chi è d’accordo su quel pezzo lì. Per ridare voce a chi, come spesso ciascuno di noi, si sente disorientato e impotente come ci diceva il professor Pace e non lasciarlo nelle mani delle ricerche identitarie polarizzanti.
Io credo che, ad esempio, la grande opzione da fare a tutti e tre i livelli è non privilegiare il dialogo polarizzante ma mettersi a ragionare, lavorare, collaborare, costituire patti con tutte le parti più mobili, per dar loro voce e non farci sentire così soli e disorientati. Da questo punto di vista, ad esempio, gli studi di Etienne Wenger su la comunità di pratica così come gli studi di Bruno Latour su Il riassemblaggio del sociale, sull’andare verso il noi, sul costituirsi come un noi, sono estremamente interessanti e ci possono aiutare molto e secondo me possono diventare molto significativi nello strutturare azioni concrete rispetto alla guerra, ma richiedono, e qui l’ultimo punto,
…un approfondimento molto serio.
Sui fogli che mi avete mandato della vostra riflessione previa, al punto 8 si diceva “si può dire che oggi prevale una lettura non abbastanza approfondita sull’origine della guerra?” Non so se la risposta sia sì o no, ma quello che so è che tendiamo appunto a ridurre e semplificare tutto intorno a delle polarizzazioni e, invece, il grande servizio sarebbe un passo indietro di comprensione dei meccanismi generativi di tutta questa situazione che sono, minimamente, un po’ quelli che cercavo di indicare, ma soprattutto è necessaria l’assunzione responsabile da parte delle comunità cristiane di una pluralità interna, vissuta come dicevo prima.
Gli stati nascenti possono essere molti e quindi non è che se io privilegio il dialogo con questo stato nascente, tu che privilegi il dialogo con un altro stato nascente, sbagli o sei necessariamente mio nemico, anzi. Più siamo e più possiamo cogliere una pluralità di stati nascenti, cercare di condurli verso l‘istituente e strutturare situazioni convocanti, costituenti, patti allargati.
Da questo punto di vista va interpretata così, secondo me, l’opzione rispetto al tema della sinodalità che la chiesa cattolica ha fatto: la sinodalità è la ricerca di pratiche di questo genere e non è affatto un problema interno di gestione e governo della chiesa. È la ricerca anche interna di pratiche costituenti, di capacità di cogliere gli stati nascenti dentro e fuori la comunità; una volta colti, di trasformarli in decisioni istituenti e intorno a queste decisioni istituenti stabilire dei patti.
Da questo punto di vista la questione è riscoprire una capacità – e torno, chiudendo, all’origine della mia riflessione – di una lettura storico-salvifica del reale. Che non vuol dire, come spesso abbiamo pensato, a una lettura di “ma sì, andrà tutto bene”, no: una lettura storico-salvifica vuol dire che la responsabilità delle donne e degli uomini nel tempo, riguarda “la trasparenza della storia rispetto al regno di Dio”.
E intorno a questo criterio dobbiamo collocarci. Non intorno al criterio di pensare che, in assoluto, io ho trovato la soluzione veramente evangelica, mentre tu che sostieni un’idea diversa dalla mia non sei evangelico: non è questa la logica.
La logica è quali realtà nascenti e trasparenti del regno stiamo servendo? Seppur diverse o di diverso peso, più profetiche o meno profetiche, più radicali o più morbide-moderate, come queste possono diventare l’occasione di un nuovo patto per costituire dei ‘noi’?
Ecco, qui mi fermerei e intanto vi ringrazio molto dell’ascolto.