RELIGIONI IN GUERRA?

Il legame complesso tra religione, politica e guerra

      Qui di seguito, propongo una prospettiva utile per leggere la complessa fase storica in cui siamo, indubbiamente caratterizzata da uno stato di furioso disordine mondiale. Non c’è oggi infatti un’autorità sovranazionale capace di spegnere i conflitti o di porsi in essi facendo quello che le riusciva di fare in passato, più o meno in tutti gli angoli del mondo, certo con alterne fortune, ma comunque riuscendo a produrre risultati di qualche rilievo. Al contrario oggi non le riesce di fare quasi nulla. Siamo entrati in una fase storica di furioso disordine mondiale in cui potenze imperiali vecchie e nuove si sfidano per l’egemonia su regioni intere del mondo, secondo la tradizionale logica della partizione del pianeta per il controllo di un insieme di risorse economiche strategiche: dall’acqua alla terra, dalle risorse minerali fondamentali per i cellulari alla gestione delle grandi vie commerciali.
In questo senso, la prospettiva che scelgo è quella che prova a legare in modo complesso la relazione tra le tre parole chiave che oggi abbiamo di fronte – religione, politica, guerra – e vorrei anticipare subito qual è il mio punto di vista: non c’è, probabilmente non c’è mai stata forse, una relazione diretta fra religione e guerra.
La politica, in questo momento storico, si porta appresso due eredità dell’Ottocento-Novecento. La prima eredità è che la politica ragiona e funziona ancora secondo una logica oppositiva, quella dell’amico-nemico di cui parla Carl Schmitt. Funzionerà sempre probabilmente così, anche se non si tratta di una legge di natura ineluttabile nella sua causalità. Tutt’al più essa è una probabilità, un evento che sta tra il caso e la necessità, tra il calcolo razionale degli effetti e la rassegnazione per il piano inclinato degli eventi storici.
La seconda eredità è l’etica della fratellanza di matrice ebraico-cristiana e anche musulmana. Tale eredità non è compatibile con la logica amico-nemico che caratterizza l’ambito della politica. La differenza-distanza fra i due principi è un prodotto della modernità: la politica si afferma come sfera autonoma rispetto ad altre sfere della vita sociale, la funzione del governo di una società si differenzia dalla cura delle anime (la governamentalità, di cui parlava Michel Foucault nelle sue lezioni al Collège de France nel 1978). Da Machiavelli in poi, come ci ha insegnato un cattolico conservatore filonazista come Carl Schmitt, la politica moderna ha secolarizzato concetti teologici propri dell’escatologia occidentale (per riprendere un’idea di Jacob Taubes), la battaglia finale tra il bene e il male è stata tradotta nella prassi umana (troppo umana) della quotidiana lotta politica. Se il sistema politico è regolato dal codice binario amico-nemico, non c’è da meravigliarsi se tale codice possa interagire con quello che solitamente usano le religioni, qui intese come sistemi sociali organizzati capaci ancor oggi di interpretare il senso del vivere e del morire. Esse hanno offerto e offrono risposte diverse a questo fondamentale tema, vitale per l’individuo e per le società umane. Compreso il tentativo di dare una risposta (con le teodicee) convincente al perché la storia dell’umanità sia dominata più dallo spirito della guerra (la morte) e meno dalle ragioni, giustamente più ragionevoli, della pace.
Quando, dunque, le religioni in particolari momenti storici decidono di appoggiare un progetto politico, sanno benissimo che entrano in uno spazio, in una sfera in cui vale un’altra logica, oltre a quella della fratellanza, una logica che è quella del dominio.
Alla fine degli Ottanta del secolo scorso finiva la guerra fredda. Guerra ideologica, spartizione del pianeta in due grandi aree d’influenza cui cercarono di sottrarsi i Paesi non allineati, riarmo minaccioso e guerre calde in varie parti del mondo. La data che convenzionalmente avrebbe dovuto segnare la fine di tutto è il novembre del 1989 con la caduta del Muro di Berlino. Un numero che nell’archivio delle nostre menti si associa all’emozione collettiva di esserci liberati da un incubo, dalla paura che spesso abbiamo provato di aver sfiorato il collasso, di esser andati vicini a un conflitto nucleare. Durante la guerra fredda il fattore religione era prigioniero dello scontro di civiltà tra il mitico Occidente liberale, capitalista e cristiano (o meglio, ebraico-cristiano, visto che la capitale di questa indistinta entità chiamata Occidente era in un Paese orgogliosamente convinto della sua identità wasp (white-american-protestant) e l’antitesi comunista, atea, dell’uomo nuovo, l’homo sovieticus, cui parlava nel 2004 la giornalista Anna Politkovskaja nel suo saggio La Russia di Putin, analizzando criticamente la linea neo-sovietica scelta dal 2001 dell’attuale capo del Cremlino. La caduta del Muro di Berlino sembrava poter inaugurare una nuova storia nei rapporti tra religione e politica. Durante la guerra fredda, i segni dei tempi erano stati forti e chiari: il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso, da un lato, e le teologie della liberazione dall’ingiustizia sociale e della salvaguardia del creato, dall’altro, avevano riproposto il principio superiore dell’etica della fratellanza alla logica amico-nemico.
Come possiamo rappresentarci allora il rapporto tra religioni e guerra? Si tratta di un rapporto che non è diretto, ma piuttosto è mediato dalla politica. Le religioni entrano in guerra attraverso il comando politico.
A titolo d’esempio, pensiamo alla parabola di un personaggio come il patriarca di Mosca, Kirill. Questi, sino alla sua elezione come Patriarca nel 2009, era considerato un uomo del dialogo ecumenico; oggi parla di guerra santa. Altre volte ha parlato di una contrapposizione tra un Occidente debosciato e un Mondo russo-ortodosso custode della pura spiritualità cristiana. Si tratta di una retorica di tipo religioso che sostiene l’operazione speciale contro l’Ucraina voluta da Putin. Dunque, a sostegno di un’operazione non solo a difesa delle minoranze russe in territorio ucraino, ma anche e soprattutto per contrastare la volontà dell’Ucraina di rendersi completamente indipendente (non le basta l’indipendenza formale acquisita nel 1991) da Mosca. Un progetto politico questo, che contrasta sia con l’ideologia neo-sovietica di Putin sia con il mito del Mondo Russo-ortodosso tanto caro al patriarca di tutte le Russie, Kirill. La religione, nel caso di cui stiamo parlando, entra in guerra come partner funzionale di un progetto politico.
Non siamo dunque di fronte né al ritorno delle guerre di religioni, semmai esistite, né a scontri di civiltà alimentati dalle esasperate diversità tra le religioni, l’entrata in guerra di una religione è mediata dalle politiche di identità. Se compariamo quanto avviene oggi in diversi contesti religiosi è come se, per dirla con una immagine, la religione fosse una donna, ed essa venisse presa per le sue lunghe chiome e trascinata dentro un conflitto, attraverso quelle che chiamo le politiche di identità etno-nazionali. È questo l’aspetto dell’attuale fase storica, che più colpisce.
Le religioni rientrano in gioco nei grandi e piccoli conflitti bellici perché gli stati e le politiche identitarie etno-nazionali da loro sostenute hanno bisogno di una legittimazione simbolica che altrimenti non potrebbero vantare, affidandosi solo al ritorno del nazionalismo o al revival etnico. Inoltre, come dirò meglio più avanti, nel mondo contemporaneo il ritorno della boria (come diceva G.B. Vico) degli imperi e delle nazioni nasconde la crisi verticale delle grandi narrazioni ideologiche dell’Otto-Novecento. Le élite al potere tornano perciò a guardare alle religioni come un malato a corto di fiato guarda la bombola di ossigeno a cui ha bisogno di attaccarsi. Siamo di fronte al furioso ritorno dell’idea che si debba difendere la concezione che una nazione trovi il proprio fondamento sul mito collettivo dell’identità originaria un popolo. La radici di tale originarietà sono ricercate in una religione (spesso quella ritenuta della maggioranza di una popolazione), da cui è derivata una lingua.
Quindi, se c’è un popolo caratterizzato da una sua originaria purezza, che ha una sua lingua, le cui matrici sono  rintracciabili in un Testo sacro, si creano le condizioni favorevoli perché si realizzi un terzo passaggio, costituito dal manifestarsi dell’idea che il territorio abitato da un certo popolo non sia più un territorio con dei confini statali che possono essere difesi, modificati, ricostruiti in caso di conflitto; no, il territorio diventa nell’immaginario etno-religioso la Terra con la ‘T’ maiuscola. Qualcosa di immodificabile, eventualmente, da riconquistare e da ricostituire se perduto o minacciato. Siamo di fronte alla sacralizzazione della terra, che deve essere redenta perché abitata abusivamente da estranei, nemici.
Nella triade etnia, lingua, terra, la parola etnia torna a suscitare emozioni e passioni che pensavamo affievolite dai processi di globalizzazione, che invece sembravano, aver rianimato il mito etnico, nel senso di un racconto collettivo che isola e fissa un momento originario in cui appare nella storia dell’umanità un raggruppamento umano con tratti assolutamente originali tali da renderlo unico, differente e, perciò, incompatibile, con altri gruppi umani.  

Perché le religioni entrano in guerra?
La domanda molto semplice che ci poniamo tutti noi è: perché? Perché le religioni si lasciano coinvolgere nelle guerre contemporanee?
La prima risposta è che le religioni entrano più facilmente nel gioco della politica e della guerra quando le politiche di identità etno-nazionali diventano il cuore, il motore, della politica stessa, quando cioè esse lasciano immaginare la possibilità di una società coesa, dove la diversità delle fedi e la differenza tra culture sia ridotta o cancellata e quando il confine tra ciò che è ritenuto vero e ciò che è falso coincide con la frontiera naturale di uno Stato. Quando in una società s’impone nell’immaginario collettivo l’idea di un primato originario, naturale, di un’etnia su tutte le altre, le religioni possono fornire i codici simbolici e linguistici per rafforzare tale idea, sacralizzandola, trasformando un progetto politico contingente in una missione escatologica a carico di una Nazione. Questo può avvenire e di fatto avviene anche se la biologia e l’antropologia ci insegnano che popoli puri in realtà non esistono.
La seconda ragione dell’affermarsi di queste politiche d’identità sta in un atto di generosità politica da parte delle religioni. È come se queste ultime offrissero una boccata di ossigeno a una classe politica, a una élite politica, che non ha più un’ideologia a cui aggrapparsi. Se crolla il muro di Berlino vuol dire che crollano anche tutte le ideologie dell’Otto-Novecento. E in questo vuoto le politiche d’identità sostituiscono le ideologie dell’Otto-Novecento con una mitologia della purezza etnica delle nazioni. Le religioni si prestano – o possono prestarsi – a fare un’operazione molto semplice: “dare conforto spirituale alla politica”, dicendo che la difesa dell’identità etno-religiosa di un popolo è cosa buona”, che “va nella direzione giusta”.
Ricorro a due esempi che possono essere d’aiuto per comprendere gli argomenti astratti sin qui presentati. Il primo riguarda l’Iran, il secondo l’ultimo ciclo di guerre balcaniche del 1990-2001.
Perché un regime screditato come quello degli ayatollah resiste nonostante i poderosi movimenti collettivi di protesta e di ribellione aperta che dal 2000 a oggi si sono apertamente confrontati con l’élite al potere? Non c’è solo un sistema di potere che è capace d governare reprimendo. C’è anche una questione escatologica. Nel disegnare la nuova Costituzione iraniana del 1979, l’ayatollah Khomeini secolarizza categorie teologiche dell’islam sciita, ponendo come principio costituzionale fondamentale il primato dell’esperto della Legge di Dio (lett.: velayat-e faqih, di colui che sa interpretare in terra i segni di Dio nel tempo nell’attesa degli Ultimi Giorni, quando tornerà a rendersi visibile il XII capo – imam – scomparso nel IX secolo).
L’Iran è una repubblica parlamentare, formalmente democratica, con pesi e contrappesi. L’unico organismo sottratto alle regole della democrazia è il Consiglio dei dotti, che costituzionalmente riunisce i garanti della rivoluzione (politica) avvenuta nel 1978 e dell’escatologia finale del ritorno dell’imam nascosto, che si presenterà nelle vesti del Mahdi, il Salvatore.  Il consiglio dei dotti si autoproclamano non eleggibili perché teologicamente solo loro sono legittimati a regnare sovranamente perché accompagnano la società dei credenti verso la méta, il ritorno dell’imam. Si dà il caso che tale visione escatologica imposta dal ceto clericale sciita è stata gradualmente considerata, soprattutto dopo la prima guerra del golfo Iraq-Iran (1980-88) e la morte di Khomeini, una camicia di forza che soffocava l’aspirazione alla democrazia che aveva guidato la prima generazione rivoltatasi contro il regime della famiglia Pahlavi. Dai movimenti dell’Onda Verde dei primi anni Duemila sino al movimento “Vita, donna e libertà”, una sempre più vasta parte della società civile iraniana (che diserta le urne in misura crescente: nelle ultime elezioni sei su dieci non è andato a votare, secondo le cifre ufficiali, otto su dieci secondo fonti di oppositori in esilio!) contesta il regime in nome di valori e principi liberali dicendo apertamente di non credere più alla favola escatologica raccontata dal clero sciita. Ecco perché di fronte a tale radicale critica, gli ayatollah e il blocco di potere che si è costituito attorno alla loro declinante autorità religiosa ha risposto non solo con la consueta durezza repressiva del passato, ma ha riaffermato il principio che chi esercita il potere è legittimato dal volere divino.  Se ci si ribella, si va contro Dio. La visione escatologica giustifica un regime del terrore della verità. Non è un caso che, quando un regime come quello politico-religioso iraniano avverte la crisi di legittimazione che lo circonda ormai da decenni, tenda ad aprire fronti di guerra all’esterno: già durante la guerra Iraq-Iran, quando Khomeini già nei primi mesi del 1980 veniva criticato dall’ala liberale che lo aveva inizialmente appoggiato, seppe unire la retorica della difesa della nazione contro una guerra voluta da Saddam Hussein su mandato americano con l’esaltazione delle virtù dei giovani militanti del movimento Bassij (uno dei più importanti movimenti giovanili creati da Khomeini a sostegno della sua rivoluzione politica) che andavano al fronte facendosi saltare inermi sulle mine sparse dall’esercito iracheno durante la sua ritirata verso la fine della guerra. Egli li eleggerà senza mezzi termini shahid, martiri della fede e nella nazione.
Il secondo esempio è quanto avvenuto nella ex-Jugoslavia, un laboratorio sociale a cielo aperto a due passi dai confini di casa nostra. Lì si è materializzato un nazionalismo etno-religioso che abbiamo imparato più tardi a riconoscere in forme diverse, anche altrove, sotto altre latitudini culturali.
Noi ricordiamo certamente come si sfascia il patto federativo degli slavi del sud. Si trattava di un progetto che aveva un suo senso politico. L’idea di Tito era quello di dire “mettiamo tra parentesi le differenze linguistiche, religiose e nazionali e creiamo una federazione degli slavi del sud”. Era una scommessa storica interessante. Ovviamente c’era anche il retropensiero, proprio di quella generazione di comunisti jugoslavi, i quali pensavano che la religione sarebbe diventata sempre più ininfluente nella vita sociale e politica, un fatto privato, un insieme di tradizioni destinate a sparire con la modernizzazione. Nella vicenda dei Balcani il conflitto all’inizio riguarda le tensioni crescenti tra le pretese egemoniche dell’élite serba e le sempre più vistose insofferenze sia da parte della classe dirigente croata sia di quella slovena. Ragioni di tipo economico – gli squilibri tra le aree più dinamiche della Croazia e della Slovenia e le regioni del sud più arretrato – politico – l’ineguale ripartizione dei posti chiavi dello Stato federale e, infine, le divergenti idee sulle politiche di sviluppo, tra i fautori di un collettivismo pianificato dallo Stato centrale e quanti spingevano per una graduale liberalizzazione del mercato. Solo nella coda velenosa del conflitto compare come elemento di divisione, la religione. Solo allora, verso il 1994-95, si prendono di mira come bersagli militari luoghi di culto delle principali religioni dei popoli degli slavi del sud (ebraica, cristiana e musulmana). Le classi dirigenti di matrice comunista riscoprono la retorica nazionalista e introducono nei loro discorsi finalizzati alla giustificazione della guerra in corso il tema della differenza tra religioni come motivo in più per sottolineare l’impossibilità di vivere assieme, perciò la necessità di rompere il patto federativo, anche se le persone di diversa fede avevano saputo farlo sino ad allora.
C’è un evento significativo che riassume efficacemente quanto sin qui detto Mi riferisco all’appassionato discorso, tenuto nel 1989 da Slobodan Milosevic alla Piana dei Merli (Kosovo). Il leader serbo lo pronuncia davanti a una massa enorme di un milione di serbi del Kosovo, convenuti in questo luogo simbolo: esso, infatti, fu teatro dell’ultima battaglia condotta e persa dall’esercito serbo contro le truppe ottomane nel 1389. Milosevic disse: “Noi non vi abbandoneremo mai”, perché questa è la nostra terra, qui Cirillo e Metodio hanno avviato la prima evangelizzazione, ponendo le basi della nostra identità culturale e linguistica. Storicamente le cose sono più complesse di come le racconta Milosevic, giacché i due personaggi di origine greca (Salonicco) hanno evangelizzato dapprima la regione morava e poi un vasto territorio che comprende l’attuale Croazia, Bosnia, Serbia, Kosovo e Macedonia, elaborando nella seconda metà del IX secolo un alfabeto i cui caratteri sono derivati in parte dal greco, in parte dal copto e dall’ebraico, chiamato glagolitico. Esso sarà usato a fini liturgici e per tradurre testi patristici scritti in latino o greco. Una piattaforma grammaticale e sintattica quella creata dai due santi che semmai unisce e non distingue oggettivamente i principali popoli slavi del sud. Inoltre, grazie a Clemente, discepolo di Metodio, divenuto nell’885 vescovo di Ohrida (attuale Macedonia del Nord, allora parte del regno di Bulgaria) il glagolitico fu modificato rendendolo ancora più aderente alle lingue slave antiche, assumendo il nome di lingua cirillica. Infine, Cirillo e Metodio sono venerati come santi sia dalla Chiesa cattolica sia da quella Ortodossa. Un altro motivo in più per rendere il discorso di Milosevic un contingente artificio retorico per reinventarsi un’identità di leader politico in crisi. Siamo di fronte alla lucidità del politico che non ha più ideologie di riferimento e si ritrova senza più un ruolo dominante, come chi sente venir giù il tetto di casa. Si aggrappa a una corda per salvarsi e salvare il salvabile. Una corda che viene dal cielo, fuor di metafora, la retorica etno-religiosa a sostegno di un programma nazionalistico. Dopo aver creduto alla possibilità di tenere fuori dal campo politico la religione, Milosevic si dimostra un nazionalista pentito, orfano del mito comunista.

Confini tracciati prima nella mente
Il riferimento al caso jugoslavo appena fatto ha che fare con l’idea che i confini in queste politiche di identità sono quelli che ci sono sempre stati; non sono solo linee tracciate sul suolo, sono dispositivi della mente. Per cui le guerre – la storia dei Balcani ce lo dimostra –si fanno non solo sui campi di battaglia, ma hanno inizio ancor prima nelle menti degli individui, costruendo l’immagine del nemico che sta alle porte, che sino a qualche tempo prima era il tuo vicino. In questo modo il linguaggio religioso viene piegato alla logica dell’amico-nemico di cui parlavo all’inizio.
Vista dall’osservatorio Europa, questa guerra nei Balcani cosa ci ha insegnato? Che cosa ci ha anticipato? Ci sono partiti politici in tutti i Paesi dell’Unione Europea che si definiscono in base a due polarità: negativa, nei confronti di un tipo di società ad elevata diversità culturale e religiosa; positiva, a difesa dell’identità originaria delle singole nazioni sovrane. Ci sono leader di partiti e movimenti neo-nazionalisti che raccolgono consensi proponendo programmi di chiusura delle frontiere agli immigrati e ai richiedenti asilo, deportazione di questi ultimi in luoghi ben distanti da dove cercano di approdare o di giungere (la Danimarca ha sottoscritti accordi con l’Etiopia, l’UK con il Rwanda, l’Italia con la vicina Albania) o il rimpatrio ai luoghi d’origini di persone che molti casi non sono più da considerare primi migranti. Strategia politiche tutte che interpretano la grande mutazione sociale e culturale di gran parte delle società europee come una catastrofe imminente. Un segno della difficoltà da parte del ceto politico a gestire la super-diversità che è ormai visibile nei mondi della vita quotidiana. Le politiche di identità etno-nazionali fioriscono laddove i vari progetti di società multiculturale e di pianificazione umanistica (uso questo aggettivo, pensando ai corridoi umanitari che sinora sono stati gli unici tentativi di gestire in modo intelligente l’arrivo di migranti e rifugiati) dei flussi migratori hanno mostrato più ombre che luci.
La solidarietà tra estranei, di cui parla sovente Habermas, segno del difficile passaggio storico della storia europea, è diventato in Europa, dopo gli anni Ottanta, sinonimo non di un cantiere aperto dove costruttivamente si cercano soluzioni di architettura sociale tra forze politiche diverse, ma di un campo di battaglia dove le diverse forze sanno di poter lucrare consensi, con uno sguardo più rivolto all’oggi che non al futuro. Un campo di battaglia che riproduce lo schema amico-nemico. Uno schema questo che alimenta il conflitto e arma le menti.
In un piccolo paese, relativamente omogeneo da punto di vista culturale e linguistico come la Tunisia (diversa dalla vicina Algeria, dove la storica presenza di popolazioni di origine berbera della Kabilia è stato solo di recente riconosciuta), l’attuale Presidente, di fronte all’arrivo di africani provenienti dal Sub-Sahara che cercano poi di giungere in Europa, ha potuto affermare che “questa pressione migratoria è frutto di un disegno criminale di sostituzione etnica della popolazione tunisina”. Conoscendo quel Paese, l’affermazione mi è apparsa strana, giacché i tunisini e le tunisine che conosco son ben fieri della loro eredità storica multiculturale (fenicia, romana, cristiana, ebraica, araba e musulmana). La repressione della polizia e la micro-violenza diffusa nei confronti dei migranti irregolari è nel frattempo cresciuta notevolmente. C’è chi, a dispetto di quanto accade e di quanto si dice di negativo sui migranti, ha costruito un piccolo cimitero interreligioso nei pressi di Zarzis (nel sud della Tunisia, non lontano dal confine libico). L’artista di origini algerine, che lo ha progettato e realizzato, l’ha chiamato il Giardino d’Africa, Giardino del Paradiso, dove poter dare dignitosa sepoltura a quanti, dopo la traversata del deserto e aver cercato d’imbarcarsi sulle coste tunisine per raggiungere Lampedusa, fanno naufragio. Rachid – è questo il nome del progettista – raccoglie ciò che il mare restituisce, cerca d’identificare le persone annegate per assegnare loro un posto nell’area riservata rispettivamente ai musulmani, ai cristiani e ai non-identificabili. Una terra comune e uno spazio condiviso in onore della dignità della persona umana.  

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In Palestina
Nel 1974 viene fondato in Israele il Gush Emunim, “il blocco dei credenti”. Poi se ne aggiungeranno altri, ma questo è il primo movimento che interpreta, da un punto di vista teologico, la legittimità degli insediamenti ebraici che sono stati costruiti nei territori occupati dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 rispettivamente in Cisgiordania, Gaza e nelle alture del Golan. Dietro questo movimento c’è una teologia, quella, in particolare, dei rabbini (padre, Abraham Isaac, 1865-1935 e figlio, Zvi Yehuda, 1891-1982) Kook, formatisi in ambiente hassidico (della corrente mistica di area centro-est Europeo). Essi hanno interpretato la Shoah come un segno negativo inviato dal Signore al suo popolo: la catastrofe si sarebbe abbattuta sugli ebrei anche a causa della loro inosservanza dei comandamenti divini. In positivo, la Shoah deve, invece, spingere gli ebrei a pentirsi, ritornare all’osservanza piena dei mitzvot in vista dell’avvento prossimo del Messia. Movimenti come quelli ispirati dalle idee di Kook, quando nasce lo Stato d’Israele, avevano inizialmente deciso che non vi avrebbero messo piede. Ritenevano che lo Stato sionista, che pretendeva di essere uno stato secolare, non fondato primariamente sulla Legge divina, non potesse essere riconosciuto come legittimo. Era uno stato empio, nel crudo linguaggio dei rabbini e dei militanti di questi movimenti.
L’atteggiamento cambia radicalmente con la Guerra dei Sei Giorni. All’indomani della vittoria e della conquista dei territori ancora attualmente occupati dall’esercito israeliano inizia un nuovo tipo di “ritorno alla terra d’Israele”. Possiamo definirlo messianico. Così come per la Shoah, i rabbini hassidici, le cui comunità si sono salvate dalla persecuzione nazista e dai pogrom stalinisti trovando rifugio soprattutto negli USA, hanno letto escatologicamente la vittoria della Guerra dei Sei Giorni. Questa volta si tratta di un segno positivo inviato dal Signore al suo popolo eletto: è giunto il momento atteso di poter ricostituire i confini biblici di Eretz Israel, della Terra Promessa. I tempi del Messia sono imminenti e la purificazione (o redenzione della Terra) è un compito che ogni buon ebreo è chiamato a svolgere attivamente. I territori occupati non sono tali per questi militanti. Villaggio dopo villaggio, insediamento dopo insediamento si dà inizio a un’operazione di riconquista della terra perduta e alla sua ri-sacralizzazione, ridisegnando persino nella topografia la mappa di una Terra data dal Signore al suo popolo. Non c’è nessuna occupazione in corso, secondo i militanti dei movimenti messianici; ma restituzione di un territorio sacro per gli ebrei, abitato abusivamente da un popolo di alieni. Non è possibile per i militanti di movimenti o partiti del così detto sionismo religioso (potremmo dire del nazionalismo etno-religioso) nessuna concessione di terra ai palestinesi.
Proviamo a metterci nei panni di Smotrich, ministro delle finanze, brillante avvocato, espressione di quella generazione di ebrei che è nata nei territori occupati, che considera naturale essere lì, aver costruito un villaggio, aperto scuole, fatto famiglie (numerose, con un tasso medio di 6,5 figli per donna contro il 3,1 del resto della popolazione israeliana), avviato aziende e così via, che quindi non solo non ha nessuna volontà di negoziare, ma ritiene assurdo negoziare perché quella è la Terra Promessa. Per lui e come per i settecentomila ebrei che vivono in Cisgiordania o nelle alture del Golan l’ipotesi dei due stati è del tutto infondata. La Knesset e i governi israeliani, del resto, continuano ad autorizzare la costruzione di unità abitative a Gerusalemme est (nel marzo del 2024 ne ha messo in cantiere 1500). Gerusalemme est sulla carta doveva essere la capitale dello stato palestinese, ma come si fa a immaginare la capitale dello stato palestinese quando non solo si proclama nella nuova legge fondamentale che Gerusalemme è una e indivisibile capitale dello Stato israeliano, ma anche e soprattutto si espandono i nuovi quartieri destinati alle famiglie di ebrei nella parte orientale della città?
Se spostiamo l’angolo visuale su quanto accade nel vicino della porta accanto, i palestinesi, non c’è da stupirsi dell’effetto mimetico che il sionismo religioso abbia potuto produrre nel campo avverso. Mi riferisco al movimento Hamas (Harakat al-Mukawama al Islamiyya, movimento della resistenza islamica) che nasce nel 1986, dodici anni dopo il Gush Emunim. Quando voi leggete lo statuto di Hamas del 1988, avete la sensazione che l’estensore del documento abbia proceduto con copia-incolla dell’atto fondativo del Gush. Lo statuto dice infatti che “questa terra (la Palestina, nda) – waqf – ci è data da Dio e in quanto terra donata da Dio nemmeno noi siamo in grado di cederne anche solo una zolla, perché sarebbe come tradire il patto con Dio”. In altre parole, è come se Ahmed Yassin, fondatore di Hamas, avesse mimeticamente risposto alla pretesa del Gush e di movimenti simili  di una proprietà sacra della Terra di Palestina con gli stessi argomenti usati dagli ebrei radicali. Se non che tale promessa non si trova nel testo sacro dei musulmani, il Corano, né nelle fonti orali della tradizione islamica.
Il fondatore di Hamas, era una persona inerme, perché inferma dall’età di 14 anni, tetraplegico per un incidente non si sa bene se di gioco o di macchina. Un profugo che ha visto il suo villaggio distrutto assieme a una parte della sua famiglia nella prima guerra del 1948. Decide, nonostante sia divenuto semi paralizzato, di andare a studiare in Egitto all’università Al-Azhar, dove entra in contatto con i Fratelli musulmani. Prima di diventare Hamas, il movimento di Yassin è dunque una cellula palestinese dei Fratelli musulmani nel territorio occupato di Gaza. Vale la pena ricordare che l’associazione dei Fratelli musulmani, nata in Egitto nel 1929 non ha teorizzato la lotta armata per la conquista del potere politico. Il suo fondatore Hasan Al-Banna voleva promuovere una reislamizzazione della società egiziana dal basso, portando le persone a riscoprire la propria identità religiosa e i valori spirituali dell’islam, andati perduti a causa del colonialismo. La teoria della lotta armata sarà sviluppata più tardi, dopo la morte di Al-Banna assassinato in circostanze oscure nel 1949. Sarà un militante, Sayyid Qutb, finito in carcere al tempo di Nasser, che aveva sciolto l’associazione accusata di aver tramato contro di lui, a proporre una lettura rivoluzionaria del Corano (l’unico libro che gli era concesso tenere e leggere in prigione!). Non potrà mai mettere in pratica le sue idee perché sarà condannato a morte e impiccato nel 1966. Saranno altri che dopo aver letto il suo commento al Corano metteranno in pratica la teoria della lotta armata e della guerra rivoluzionaria. Si formerà una fazione non riconosciuta dai Fratelli Musulmani che inizierà a organizzarsi clandestinamente, uscendo allo scoperto con un clamoroso attentato che ucciderà il presidente Sadat nel 1981, all’indomani della pace siglata con Israele. Un anticipo di ciò che accadrà molti anni dopo (nel 1995) a Ytzhak Rabin, assassinato per mano di un estremista ebreo all’indomani degli accordi di Oslo con Yasser Arafat.
Tornando a questo personaggio, Ahmed Yassin, quando spiega ai suoi che la Palestina è il deposito della parola di Dio rivelata, non dice mai dove tutto ciò si trovi scritto nel Corano. Le sue parole hanno convinto una parte dei palestinesi di Gaza che, proprio in nome di questa sacralità della terra di Palestina, è legittimo sacrificare la propria vita suicidandosi e uccidendo il nemico (è la figura dello shahid, il martire).

Movimenti etno-nazionalisti nel buddismo contemporaeo
 Nel 2011-2012 in Sri-Lanka (2012) e in Myanmar (2011) emergono movimenti fondati da due monaci buddisti. Ciò che accomuna questi due gruppi, che non rappresentano certo tutto il complesso mondo buddista singalese o burma, è l’idea di nazione che hanno in mente. Il fondamento ultimo della legittimità dello Stato nazionale deve essere il buddismo: matrice della lingua nazionale (il singalese), compasso che disegna i confini sacri del territorio (della Patria) e che impone a chi non è buddista (dalla minoranza tamil ai cristiani e ai musulmani singalesi) di riconoscere il primato del buddismo stesso. Possiamo quindi sfatare l’idea che il buddismo non centri niente con la politica, con la guerra, con la violenza. I monaci buddisti dello Sri-Lanka hanno scritto l’inno di guerra quando c’è stata la lunga guerra civile finita nel 2009 contro una parte della minoranza tamil.  Questa minoranza ha lontane origini indiane. Sono arrivati nell’antica Ceylon al tempo della colonizzazione britannica, come braccianti, portati dagli inglesi a lavorare nelle piantagioni del the. Erano e sono ancor oggi in gran parte hindu (mentre, il resto è cristiano).
Quando nel 1948 nasce lo stato post-coloniale dello Sri Lanka la classe dirigente che ha fatto la lotta per l’indipendenza riconosce come lingua ufficiale il singalese e afferma che l’identità nazionale si fonda sulla religione buddista. Dunque, la nuova classe dirigente post-coloniale inaugura una politica etno-nazional religiosa. Non tutta la grande rete dei monasteri buddisti o degli ordini buddisti sostiene attivamente questa politica. Nel 2012 nasce il movimento chiamato Bodu Bala Sena (d’ora in poi BBS), l’Esercito del Potere Buddista. La retorica dei leader del movimento può essere riassunta così: l’isola di Ceylon/Sri Lanka è per eccellenza l’isola del dharma, giacché custodisce le reliquie del Buddha – c’è un dente canino conservato nel santuario di Kandy – e un testo sacro, la “Cronaca dei re buddisti” del XIII secolo, considerato testo fondante dell’identità singalese post-coloniale. Perciò, di nuovo, si immagine il territorio di uno Stato come Terra Santa, governata da chi difende le virtù del Buddha dharma. I monaci che aderiscono a tale movimento sono circa 1300 su un totale di sessantamila (tra ordinati e novizi, comprese le donne consacrate).
Nel 2012 il leader del BBS lancia la campagna contro le macellerie halal gestite da musulmani. L’argomento principale può essere riassunto così: i musulmani abbattono gli animali infliggendo loro un’inutile sofferenza. Mangiare carne non è proibito in assoluto a un monaco; è sconsigliato perché cibarsi “può spegnere il seme della compassione”, per cui è meglio praticare il vegetarianismo. Inoltre, mentre per gli hindu la vacca è sacra, per il buddismo no. Dunque, la posta in gioco è un’altra: premere sul governo perché imponga la chiusura delle macellerie halal, colpendo una remunerativa attività commerciale della comunità islamica singalese. I musulmani sono quasi due milioni, secondo il censimento nazionale del 2012 (pari a quasi il 10% della popolazione totale), concentrati soprattutto nelle province orientali dell’isola, in gran parte bilingui (tamil e singalese). L’islam qui è arrivato ben presto, portato da mercanti arabi nel VII secolo. Si formò così una vasta comunità fiorente e ben radicata sino al XVI secolo, quando con l’arrivo dei portoghesi iniziò un drammatico declino. I mori, così erano chiamati dai lusitani, furono oggetto di veri e propri pogrom. L’interesse dei nuovi coloni era distruggere la rete costruita dai mercanti musulmani per controllare la lucrosa via delle spezie. Una minoranza di sopravvissuti trovò riparo nel regno di Kandy, dove un re di fede buddista l’accolse e la difesa dagli attacchi dei portoghesi. A questo primo strato storico di musulmani di origine araba si sovrapporranno tra il XVIII e il XIX secolo, con il passaggio di mano dell’isola dal primo colonizzatore portoghese a quello olandese, prima, e britannico, dopo, si stabiliscono sull’isola persone di fede musulmana proveniente da Giava e dalla Malesia assoldati dai colonizzatori come marittimi o braccianti agricoli. Nel XX secolo, infine, si aggiungeranno migranti provenienti dal Pakistan o dal sud dell’India.
Ho ricordato volutamente in breve la storia dell’islam singalese per meglio comprendere quanto sia assurdo considerare i musulmani singalesi degli stranieri da parte del movimento BBS: estranei che non solo non condividono i valori fondativi dell’identità nazionale buddista-singalese, ma ne minacciano l’integrità e purezza. Sono dei fondamentalisti che vogliono islamizzare la società, imponendo i loro usi e costumi. La diversità socio-religiosa costituisce un tratto distintivo dello Sri Lanka: la maggioranza della popolazione di fede buddista convive da secoli con i tamil hindu, i musulmani e cristiani (anglicani, luterani e cattolici). I monaci del BBS sognano, invece, una nazione etnicamente pura, garantita da una religione e da chi pretende di esserne il solo custode autorizzato, l’ordine monastico buddista.
In Myanmar la situazione politica è peggiore rispetto allo Sri Lanka. Mentre qui c’è una democrazia, lì si vive sotto una dittatura militare. Nel 2011, Ashin Wirathu, un monaco buddista, fonda il movimento “969” (tre numeri che rinviano alle virtù del Buddha Dharma). Il primo bersaglio scelto per mobilitare un migliaio di giovani novizi di vari monasteri è la minoranza musulmana dei Rohyngia. Il linguaggio usato da Wirathu per etichettare questa minoranza come straniera (coerentemente con la legge del 1985 sulla cittadinanza secondo la quale i Rohyngia sono degli immigrati irregolari provenienti dal Bangladesh che devono perciò essere espulsi dal territorio in cui vivono, in realtà, da secoli, lo stato di Rakhine), un popolo di alieni che nulla avrebbe a che fare con la storia del Myanmar, pericolosi infiltrati islamici che minacciano (come altre minoranze, del resto, di matrice cristiana) l’integrità della nazione buddista. I militanti del movimento 969 hanno apertamente appoggiato la pulizia etnica operata dall’esercito nei villaggi dei Rohyngia, con il pretesto di dare la caccia a un gruppo di guerriglieri che nel frattempo ha cercato di organizzare la resistenza armata contro il regime militare.
Un ultimo esempio ci viene dall’India e dal complesso mondo induista. L’India è governata da circa venti anni dal Partito del popolo Hindū (Bharatiya Janata Party). Nel logo del partito compare uno slogan non nuovo: “l’India è degli hindū” (hindutva). Questo partito, sostenuto da una rete di movimenti politici e religiosi invocano l’hindutva, fondamento ultimo e assoluto della legittimità dello Stato. Tradotto in termini giuridici, il diritto positivo statuale deve riferirsi alle verità eterne del dharma. In tal senso, il progetto politico è di ridefinire su basi etno-religiose il fondamento dello Stato secolare voluto da Gandhi. Non ho tempo per andare molto a fondo, ma “l’India è degli hindū” è in radice un attacco micidiale a tutto il progetto di stato che avevano in mente i padri fondatori dell’India indipendente postcoloniale, Gandhi, Nehru e soprattutto, Ambedkar, un dalit (fuori casta), convertito al buddismo, diventato un brillante avvocato cui si deve la stesura di gran parte della Costituzione dell’India indipendente. Essi avevano concepito uno stato laico – ma non anti-religioso – perché ritenevano che potesse essere la casa comune e accogliente per tutte le diversità religiose che popolano la società indiana. Uno stato confessionale non avrebbe garantito la libertà religiosa paritaria per tutte le religioni. La società indiana, infatti, è storicamente multiculturale, multilinguistica e multireligiosa, con una ampiezza delle diversità religiose che non ha eguali in altri Paesi del mondo. Lo stesso induismo è un sistema stratificato e complesso di credenze e pratiche spesso molto diverse fra loro. Affermare che “l’India è degli hindū” vuol dire che s’intende costruire una nuovo mito collettivo, che mira a ridurre la complessità sociale e religiosa in funzione della supremazia di una etnia (quella hindu) sulle altre componenti storiche e socioreligiose dell’India (islam, cristianesimo, buddismo, gainismo, sikhismo più le molteplici religioni tradizionali o tribali).

Universalità e particolarismi: le religioni contese tra etica della fratellanza e principi di identificazione etnica
Le religioni, nei casi fin qui ricordati sommariamente, sono tornate a gonfiare le vele degli etno-nazionalismi. Il soffio dello spirito è così diventato una potente boccata di ossigeno per chi è a corto di argomenti, per tutte quelle élite politiche che, in sintonia vera o presunta con “il popolo”, ritengono ingovernabili società in cui “non è possibile vivere assieme perché siamo troppo diversi”. Com’è possibile l’ordine sociale, se la solidarietà deve essere raggiunta tra estranei? In molti casi, gli estranei sono sia i forestieri in servizio permanente – gli immigrati, anche quando non lo sono più – sia persone appartenenti a minoranze linguistiche, religiose ed etniche presenti da secoli (come i Rohingya nel territorio di Rakhine dell’antica Birmania o i Moors – di fede musulmana, nello Sri Lanka). Così facendo, le religioni affidano la proclamazione e la difesa della verità, di cui si fanno portatrici, alla politica, finendo per far diventare la verità… un affare di parte, di una parte (foss’anche della parte maggioritaria di una popolazione), con l’inevitabile corollario della verità che si fa regime, che s’impone più delle volte con la forza del potere politico. Ogni volta che una religione chiede alla politica di difendere le tesi di verità che essa gelosamente custodisce, rinuncia alla sua vocazione universalistica, diventa una religione combattente. Alimenta inevitabilmente il conflitto tra persone che hanno diversi modi di credere o appartengono ad altre fedi. I casi esaminati ci insegnano che i conflitti etno-religiosi, quando esplodono, condensano un tasso di violenza simbolica che rapidamente degenera in violenza fisica.
Religioni del dio unico o universi simbolico-religiosi popolati da molte divinità appaiono allo stesso modo sensibili alla logica della guerra, tutte le volte che esse finiscono per essere l’emblema di un aggregato umano alla ricerca di una propria unità storica, della continuità nel tempo e del radicamento legittimo in uno spazio determinato. Il dio degli eserciti è in realtà un totem cui un gruppo o un popolo attribuisce un valore sacro, perché in esso proietta il proprio desiderio di affermazione come soggetto autonomo della propria storia. Storia gloriosa o dolorosa: esistono così popoli pazienti e popoli trionfanti. Le religioni mettono a disposizione l’universo simbolico di cui dispongono e che custodiscono gelosamente lunga la freccia del tempo. Forniscono potenti simboli che, discesi in terra, divengono idoli della tribù, costruiti socialmente per meglio immaginare l’identità, la propria e la differenza da quella dell’altro. Non è un caso che, nella loro storia millenaria, molte grandi religioni mondiali abbiano sofferto della tensione ricorrente fra universalità e particolarismi, fra il principio dell’etica della fratellanza, per un verso, e il principio d’identificazione etnica, per un altro, fra la proclamata ricerca della pace e il cedimento alla logica della guerra.
Quando prevale il particolarismo, il legame fra religione e spirito della guerra si fa più stretto, perché la religione è utilizzata come sinonimo del mito di fondazione dell’identità di una nazione o di un intero popolo, in lotta per sopravvivere, quando ci si misura contro le pretese d’espansione di altri che mirano a occupare il territorio dove essi abitano o a cancellarne fisicamente l’esistenza.
Le religioni tendono a occultare i motivi latenti di un possibile conflitto, salvo poi sposarne le ragioni quando lo spirito della guerra soffia. Per una nazione o un popolo, che cerca di definire la propria identità, il bisogno di un mito di fondazione è necessario come l’ossigeno per l’essere vivente. Un mito non vuol dire un’invenzione pretestuosa, ma un dispositivo che fa immaginare unito ciò che nella realtà non lo è; che fa pensare che ci sia stato un inizio, una purezza delle origini, quando invece le cose sono andate diversamente, per accumuli e stratificazioni socioculturali successive, per contrasti e contaminazioni progressive. Il mito è la narrazione condivisa del legame che tiene assieme persone diverse. Non si richiamerà mai abbastanza l’attenzione sui casi che abbiamo analizzato, quando a più riprese abbiamo costatato lo stretto rapporto che esiste fra politiche d’identità, religione e questione della lingua.
Le religioni diventano un fattore rilevante nella geopolitica contemporanea quando si prestano al gioco linguistico della politica che pretende di stabilire chi è il nemico, collocandolo alla frontiera del bene e del male, quando drammaticamente si prospetta per gli individui l’alternativa fra vivere e morire. La lingua sacra delle religioni può articolare, allora, con maggior vigore della politica, le parole che salgono dal cuore e che dichiarano odio verso il nemico, contribuendo a dare forza alla violenza che la guerra finisce per imporre a tutti, volenti o nolenti. Non è detto che ciò avvenga come una necessità inevitabile. Nella catastrofe le religioni hanno saputo diventare agenti di pacificazione, sottraendosi alla logica amico-nemico della politica.
Si dovrà cercare di limitare i danni derivanti dalle cicatrici che si riaprono tra le religioni e all’interno delle religioni. Se realisticamente il polemos sarà ancora padrone della scena mondiale, sarà importante non dissipare il patrimonio di buone pratiche, che leader religiosi lungimiranti hanno accumulato negli anni passati (dal dialogo ecumenico e interreligioso, che è entrato a far parte anche delle agende politiche locali, nazionali e internazionali, sino ai documenti come quello sulla fratellanza di Abu Dhabi).
C’è un’immagine simbolicamente efficace, riportata al termine di questo testo, che mostra una promessa fatta dall’emiro di Abu Dhabi a Papa Francesco: la realizzazione di uno spazio condiviso, ospitale per le tre religioni monoteiste. Nel gennaio del 2023 è stata inaugurata l’isola della tenda di Abramo, dove sono state costruite una moschea in onore di Shaykh al-Tayeb, una sinagoga in onore di Moshé ben Maimon e una Chiesa cattolica in onore di San Francesco d’Assisi.

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