Riprendiamo in questa news letter una linea di riflessione e di documentazione che avevamo iniziato pochi mesi fa con la lettera del 25 gennaio 2024, dal titolo “Provare l’impossibile: mettersi nei panni di popoli in guerra”. Come allora i testi che vi proponiamo intendono contribuire ad alimentare quel particolare tipo di immaginazione che è presupposto necessario del mettersi dal punto di vista di chi soffre, vivendo nella paura e nel dolore perché coinvolto in guerre orribili. Una operazione difficile, ma che ci pare più importante di quella a cui siamo ogni giorno indotti dalla disperante tendenza contemporanea dell’assumere posizioni estreme e polarizzate. Quasi che la guerra guerreggiata non bastasse e ci si volesse attrezzare fin d’ora a iniziare nelle proprie menti guerre future che ci potranno coinvolgere più da vicino.
Leggerli può aiutare a comprendere come i dibattiti e gli scontri che si registrano qui da noi, in occidente, siano astratti ed estranei rispetto all’esperienza di chi è direttamente coinvolto nella guerra.
I primi quattro testi si riferiscono alla popolazione Ucraina, sofferente – “martoriata” dice ogni dì Bergoglio – da più di due anni per l’aggressione russa e di giorno in giorno sempre meno al centro dell’attenzione dei nostri concittadini, ormai assuefatti allo stillicidio di notizie e colpiti maggiormente da quanto accade in Palestina, anche per l’incredibile opportunità che quegli eventi offrono di accapigliarsi tra gruppi e fazioni desiderosi di scontrarsi.
Dobbiamo i primi due testi alla sollecitudine di Tetyana Shyshnyak*, cittadina ucraina residente in Italia ed attivista per la pace, con cui abbiamo stabilito una cordiale collaborazione. Della sua disponibilità la ringraziamo vivamente.
La newsletter si conclude con un testo che viene da una guerra dimenticata e di cui nessuno si occupa, forse perché da essa non ci sentiamo minacciati e un nostro eventuale altruismo non riceverebbe l’attenzione mediatica che vorremmo.
Ucraina. La dottoressa
La prima testimonianza, raccolta direttamente da Tetyana*, descrive con semplicità ciò che la guerra ha significato per una dottoressa e dirigente sanitaria che prima del conflitto era direttore generale di uno dei più grandi ospedali pediatrici dell’Ucraina (a Karkiv). Lei, fin dalle prime ore di guerra, ha avuto la casa devastata, mentre è bastato che passasse un solo giorno perché l’ospedale nel quale lavorava fosse aggredito. Per qualche tempo ha vissuto e lavorato nell’ospedale danneggiato dalle bombe sostenendo il morale del personale, poi ha dovuto trasferirsi a Kiev e cambiare vita.
In questo rapido testo ci dice qualcosa dei suoi pensieri, delle sue paure e anche della sua rabbia. Osserva il suo paese cadere in una situazione catastrofica, ma non cancella del tutto la speranza che il domani possa portare ancora giorni felici. Si rende però conto che in questo momento si è dominati dall’obbligo e dalla sfida di sopravvivere. “Dobbiamo diventare più forti” – dice – e sta quindi imparando a diventare “una donna di ferro”.
Ucraina. Il “terrorista”
Kazbek Tedeev è un cittadino dell’Ossezia, da anni trasferitosi in Ucraina. Figlio del primo campione di wrestling freestyle dell’Ossezia del Nord, Elkan Tedeev, ha operato come pubblico ministero a Vladikavkaz fino al 2007. Nel 2008 si è trasferito in Crimea, dove ha assunto la carica di vice procuratore, e dopo l’annessione si è trasferito nella capitale ucraina e ha continuato a lavorare nell’ufficio del procuratore della regione di Kiev.
Nel marzo 2022, Tedeev ha pubblicato un videomessaggio rivolto ai residenti dell’Ossezia del Nord invitandoli a non partecipare all’aggressione russa contro l’Ucraina. Gli esponenti della famiglia Tedeev che vivono nella repubblica di Ossezia hanno reagito negativamente alla sua iniziativa, chiedendogli di “tornare in sé”. Nel dicembre 2023 è stato incluso nell’elenco di estremisti e terroristi del Rosfinmonitoring. Il suo appello del 2022 ha avuto otto milioni di visualizzazioni in pochi giorni. Si dice che abbia indotto a deporre le armi 300 combattenti osseti che erano stati inviati dalla Russia
Nell’intervista alla rete Kavkaz.Realii, che qui pubblichiamo tradotta dal russo, Kazbek Tedeev racconta come le proteste contro la guerra hanno cambiato l’atteggiamento nei suoi confronti tra i suoi compatrioti e perché continua a discutere con i sostenitori della guerra.
Ucraina. Due sorelle
Olga e Sasha Kurovska, due sorelle ucraine, che vivono una a Parigi e l’altra a Kiev, hanno tenuto un diario per un anno su Le Monde. La coppia ha condiviso un resoconto personale di come la loro vita quotidiana è stata sconvolta dalla guerra. Riportiamo qui lo scambio pubblicato il 31 di ottobre 2023.
Colpiscono in particolare, oltre al racconto delle vicende della loro vita in tempo di guerra, le domande che le sorelle si pongono: “Quando gli essere umani hanno iniziato a dividere e conquistare?” “Dove possiamo essere totalmente al sicuro?” [riferito oggi all’umanità intera e non solo agli ucraini]. “La nostra epoca sarà la più disumana di tutte?”
E poi alcune annotazioni come le seguenti: “la guerra [un po’ alla volta] diventa banale, adesso tutti si stanno abituando all’esistenza della guerra in Ucraina”; “Sentirsi così feriti e [nello stesso tempo] pieni di empatia”; recitare commossi lo straordinario testo della poetessa Kateryna Kalytko, un inno per celebrare la lingua madre, in cui le strade dell’Ucraina diventano “fili aggrovigliati d’amore”; scoprire che il mondo sta dimenticando, di più avvertire la stanchezza del mondo, e perciò dover constatare amaramente: “mi piacerebbe vivere nell’illusione che qualcun altro farà la guerra per la mia libertà, ma la realtà è più forte” e dunque la decisione di imparare a tirare col fucile.
Ucraina. Il vescovo
Durante la settimana santa, l’agenzia Sir ha raccolto l’intervista al vescovo della chiesa cattolica romana di Mukachevo, Mykola Petro Luchok, che qui presentiamo. Essa ci invita riflettere, al di là dei facili discorsi, sul rapporto difficile tra desiderio di pace e dolore.
È il terzo anno che la Pasqua viene celebrata in guerra – osserva il vescovo – “e non se ne vede la fine”. Nonostante che lo sguardo sia rivolto al Risorto “spiritualmente ci troviamo ancora nella Via Crucis” così che sorge spontaneo il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Tanto più adesso, che “stiamo scendendo in basso e c’è poca luce”.
Vivere in tempi di guerra vuol dire capire che c’è anche una “guerra spirituale”. Certo, si deve essere “uomini di pace anche in tempi di guerra”, perché si tratta di essere persone di pace “là dove ci troviamo”, ma lo stesso vescovo non può evitare di riconoscere che quella che “domina ovunque è una grande sofferenza” e la difficoltà nasce proprio da questo dolore infinito. “È il dolore che allontana dalla pace, porta le persone verso l’odio”. “Quando tutto attorno c’è violenza è difficile essere uomini di pace” e fino a che si è dentro questo processo è arduo curarsi. Lo si dovrà fare, ma per il momento non ci sono ancora le condizioni.
Sudan. Un anno e un mese
Questo è il breve intervallo di tempo che separa ciò che era – una delle capitali africane più dinamiche, percorsa da mobilitazioni sociali e da tensioni politiche, ma capace di esprimere una vitalità culturale, creativa e associativa sorprendente – da ciò che è: interi quartieri e tutto il centro della città devastati; cumuli di rovine; ospedali, scuole e università chiusi; enormi difficoltà a trovare acqua, cibo e medicinali salvavita; frequenti e prolungati tagli delle comunicazioni telefoniche e internet; milioni di abitanti in fuga, nel tentativo di trovare rifugio da scontri feroci, erratici, imprevedibili; altri milioni asserragliati in casa, potendosi muovere nelle poche vie intorno con un minimo di sicurezza.
La città è Khartoum, il paese è il Sudan. La data di inizio di tutto questo è il 15 aprile 2023, al mattino: tra le forze militari sudanesi e le forze di supporto rapido (una milizia governativa, esito del lungo regime dittatoriale di al-Bashir) esplode un esiziale conflitto per l’accaparramento delle risorse del paese (oro, acqua e terra; la stessa posizione strategica in una regione chiave per l’intero bacino del Nilo). La guerra frammenta la capitale e l’intero territorio in brandelli controllati dall’una o dall’altra parte.
Sono sette milioni gli sfollati interni, oltre un milione e mezzo gli esuli nei paesi vicini. Metà della popolazione (stimata in 41 milioni di persone) è in condizioni di grave insicurezza alimentare, che in alcune regioni già sta divenendo carestia estrema. Si tratta della più grave crisi umanitaria a livello mondiale, rispetto alla quale poco si parla (sporadiche le notizie riportate sulla stampa italiana) e ben poco si fa, con l’assistenza umanitaria internazionale paralizzata dal livello di rischio (magazzini saccheggiati, minacce al personale) e dalla scarsità dei fondi. I tentativi di colloqui di pace fra le parti in conflitto sono miseramente falliti, mentre man mano che passa il tempo si accentuano le ingerenze e i giochi di potere di interessi stranieri. Questo sta accadendo, in una cornice già estremamente problematica, tra le violenze continue nel Corno d’Africa a oriente e l’instabilità estrema del Sahel a occidente.
Sudan. Un padre
Abdel Rahman Sumel, studente universitario di 20 anni, venne ucciso dalle forze di sicurezza sudanesi durante una marcia pacifica a Khartoum. Era il dicembre 2018 e le proteste che alla fine avrebbero rovesciato il regime del presidente Omar al-Bashir avevano preso piede in tutto il Paese. Centinaia di giovani uomini e donne furono uccisi durante la rivolta popolare che invocava un regime civile democratico. Le proteste sono continuate fino all’aprile di quest’anno [2023], quando è scoppiata la guerra in Sudan.
Il padre di Abdel Rahman, Alsadiq, e altre famiglie hanno fondato l’Organizzazione delle Famiglie dei Martiri, per garantire che la causa per cui sono morti i loro figli – libertà, pace e giustizia per il Sudan – sia realizzata.
Alsadiq vuole che la sua lettera al figlio morto venga pubblicata. Scrive: “Chiedo scusa a chiunque possa sentirsi offeso dalle opinioni espresse in questa lettera, ma è stata motivata dalla nostalgia per coloro che abbiamo perso e dalla nostra incapacità di andare avanti con le nostre vite. Siamo stati costretti a convivere con un numero crescente di morti. Chi di noi non ha perso una persona cara? Nessuno.”
La situazione in Sudan è diventata così grave che Alsadiq si rivolge al figlio considerandolo fortunato, perché lui almeno ha avuto una sepoltura; oggi invece i cadaveri si consumano ai bordi delle strade o vengono gettati nelle fosse comuni.
I toni di questa lettera straordinaria hanno alcuni punti in comune con i testi relativi all’Ucraina. La tristezza per non poter parlare di perdono, anche se si vorrebbe, per l’enormità degli attacchi alle vite e ai beni, che finiscono per rendere “naturale volersi vendicare”. L’intero mondo sudanese è diviso in una guerra di tutti contro tutti. A ognuno viene chiesto di dire chi è patriota e chi è traditore, ma naturalmente ciascuno la vede a modo suo. Non c’è modo di provare a parlare, perché “ci scontriamo prima ancora che l’altro inizi a parlare”. Domina la lotta per il potere e null’altro: “la sacralità delle persone sono diventate strumenti” in questa battaglia. Nessuno si preoccupa di chi vuole la vita. Quando le persone decideranno di scegliere la via della vita?
*Tetyana è cantante lirica, direttore di coro, esperta di canto beneventano, ma come molti ucraini oggi si impegna anche in altri modi, in particolare come mediatrice culturale del movimento MEAN (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) di cui è portavoce Marianella Sclavi, che abbiamo apprezzato in uno dei nostri convegni.