Alcuni pensieri a Sinodo terminato

Con una tempestività inattesa, sabato sera 28 ottobre alle 21.30, alla vigilia della
celebrazione conclusiva in Piazza San Pietro, i principali membri della Segreteria davano
una conferenza stampa e pubblicavano la «Relazione di sintesi» dei lavori della Prima
Sessione del Sinodo dei vescovi 2023-2024.
I commenti sui media si sono rapidamente moltiplicati. Il tono generale, per quanti ne ho
potuti vedere, non è stato duramente critico, ma pressoché tutti hanno osservato la
timidezza nelle proposte di soluzione di problemi che esigerebbero audacia nell’affrontarli.

Difficile fare sintesi
Il tema di fondo per il quale il Sinodo è stato convocato che, in fondo, è univoco e assai
semplice, cioè la promozione di forme sinodali per le quali nella Chiesa tutti i fedeli possano
condividere la responsabilità delle decisioni da prendere, lungo il Cammino sinodale di questi
ultimi due anni si è caricato, inevitabilmente, di molte questioni, che oggi pesano sulla
coscienza ecclesiale.
I redattori dell’Instrumentum Laboris, giustamente, si sono preoccupati di non abbandonare
alcuno dei molti interrogativi che vi erano stati avanzati e che sono stati accuratamente
raccolti nelle sei assemblee continentali della primavera scorsa. È così che i sinodali,
all’inizio dei lavori, si sono trovati con in mano un Foglio di Lavoro, 50 pagine in carta
formato 30×20, dotato di una batteria di schede di lavoro fitte di domande. Troppa carne al
fuoco per un’assemblea di 350 persone in un mese, anche se per 46 ore settimanali (roba
da operai dell’Ottocento!).
I gruppi di 10-12 persone (Circuli minores) lavoravano ciascuno, ogni giorno su un sottotema
di un tema e, quindi, si riusciva abbastanza a mettere a fuoco l’argomento, mentre le
Congregazioni generali sono state appesantite da interventi generici e non di rado fuori
tema. I moderatori erano troppo benevoli: solo in un caso è stata tolta la parola di un
intervento che si annunciava non pertinente.
Venuti dalle più diverse parti del mondo, differenti per lingua (ottimo il servizio della
traduzione simultanea), costumi, modi di pensare, situazioni di vita e finanche abbigliamenti i
più vari, dai diversi copricapi dei vescovi orientali e dalle cuffiette delle suore alla raffinata
eleganza delle signore, ciascuno sentiva il bisogno di dire come viveva la sua Chiesa e quali
problemi doveva affrontare.
Ma si stentava a fare il punto sul tema, così come ora si stenta a farlo da parte dei
commentatori: «Per una Chiesa sinodale». A giustificazione degli uni e degli altri sta il
sottotitolo, che intendeva spalmare la riflessione su tre piste: «Comunione, partecipazione,
missione», allargando enormemente gli spazi della riflessione. Se, come molti hanno
osservato, la Relazione di sintesi si distende su troppi argomenti, senza approfondirli in
maniera adeguata, se soffre di un certa genericità, ripropone domande e accumula rinvii a
uno studio ulteriore, più che avanzare proposte di soluzione, lo si deve all’ampiezza delle
questioni emerse nella consultazione del popolo di Dio di questi due ultimi anni e allo scopo
relativamente modesto cui giungere, visto che in questa sessione ci si doveva fermare a
metà strada, consegnando il compito conclusivo ai lavori della Seconda sessione.
A dire il vero, bisogna anche notare che il livello della riflessione teologica e della profondità
di analisi delle situazioni concrete di alcuni interventi non erano molto brillanti. In particolar
modo mi colpiva la difficoltà di molti a guardare in faccia, e tirarne le conseguenze, il
fenomeno dell’abbandono della fede, in Europa e in Nord America, da parte di grandi numeri
di battezzati.

Un evento storico
Il Sinodo dei vescovi, sia chiaro, non è un concilio ecumenico. Non ha potere deliberativo. È
un organo consultivo del papa, cui spetta prendere le ultime decisioni. Non sarebbe stato
realista attendersi decisioni dirompenti, soprattutto da questa prima assemblea sinodale.
Ciò nonostante, confesso che lungo i lavori mi perseguitava il ricordo del Concilio Vaticano II.
Sono ormai uno dei pochi che può dire: «Io c’ero», se pure senza alcun ruolo: facevo
semplicemente da segretario al mio arcivescovo. Mentre l’atmosfera di questo Sinodo è
stata del tutto pacifica, pur nella diversità delle prese di posizione, quella del Concilio era
quasi sempre agitata.
La conflittualità fra le diverse posizioni dei Padri è stata però feconda e ha rivelato nei fatti
che lo Spirito Santo guida la Chiesa: alla fine, infatti, i Padri conciliari sono approdati a
decisioni molto audaci e, dopo molto battagliare, hanno raggiunto il consenso quasi unanime
su tutti i documenti.
Una volta preso atto delle debolezze di questa Prima sessione del Sinodo, sarebbe da ottusi
non misurare la reale dimensione dell’evento, la cui importanza merita, senza temere l’uso
inflazionato del termine, di essere definita storica. È la prima volta nella storia della Chiesa,
salvo un’improbabile smentita ed esclusa l’esperienza delle Chiese della Riforma, che si
sono visti sedere allo stesso tavolo vescovi e cardinali, fedeli laici uomini e donne, suore,
preti, diaconi e frati, con lo stesso diritto di voto a determinare le decisioni da prendere.
Le stesse immagini dei 36 tavoli rotondi nella luminosa e magnifica Sala Nervi del Vaticano
sono destinate ad avere un singolare impatto sull’immaginario collettivo dei fedeli. La stessa
«Relazione di sintesi», pur con i suoi limiti, non manca di darci, qua e là, asserti
sorprendenti, che non potranno in futuro non risultare fecondi.

Alcune questioni rilevanti
Non è sorprendente ma, a mio giudizio, è di fondamentale importanza il ricorrente
riconoscimento che i fedeli laici sono veri soggetti della missione nelle loro attività sociali,
che le loro esperienze e competenze sono l’attuazione, per ciascuno, di una sua vocazione
specifica, per cui non è la frequentazione assidua di spazi ecclesiali a fondare la loro
rilevanza nel partecipare ai processi decisionali della Chiesa, bensì la loro «genuina
testimonianza evangelica nelle realtà più ordinarie della vita».
Altra richiesta rilevante presente nella Relazione di sintesi è l’esigenza, più volte ripetuta, di
por mano ad una revisione del Codice di diritto canonico. Anche fra i teologi e i canonisti
poche voci si erano alzate in passato a domandare la stessa cosa e non credo sia facile
reperire in alcun documento ufficiale una proposta di questo genere. Eppure il Codice del
1983 è decisamente inadeguato a rispondere alle esigenze di una seria promozione della
sinodalità.
La Relazione suggerisce anche alcuni ambiti su cui operare: rendere obbligatori ai diversi
livelli i consigli pastorali, dotarli e, a certe condizioni, della capacità di dare un voto
deliberativo, il conferimento anche alle donne di «ruoli di responsabilità nella pastorale e nel
ministero» e del ruolo di «giudici in tutti i processi canonici», favorire «un esercizio più
collegiale del ministero papale», liberare il vescovo dal ruolo di giudice, da affidare ad altri, in
modo da permettergli di esercitare la sua paternità.
Nell’ambito poi dell’ordinamento canonico delle Chiese orientali, si chiede un aggiornamento
degli attuali loro rapporti con la Santa Sede in ordine alla nomina dei vescovi.
È anche la prima volta, salvo la eventuale smentita di una verifica da fare, che in un
documento ufficiale si avanza un interrogativo a proposito dell’obbligo di celibato dei preti:
«Se la sua convenienza teologica con il ministero presbiterale debba necessariamente
tradursi nella Chiesa latina in un obbligo disciplinare».
La denuncia, proveniente soprattutto da parte delle donne, del maschilismo e del
clericalismo è ricorrente e robusta. Tanto che alla fine l’assemblea ha sentito il dovere di
esprimere tutta la gratitudine della Chiesa ai preti per il loro quotidiano prodigarsi nel
ministero pastorale, per evitare anche la parvenza di voler dare su di loro un giudizio
negativo generalizzato.
Nell’atteso affrontamento da parte del Sinodo del tema dell’accesso delle donne al
diaconato, la Relazione di sintesi resta nel guado, segnalando l’esistenza di chi lo rifiuta
perché non c’è nella Tradizione, di chi vi scorge il recupero di una Tradizione delle origini e di
chi lo considera una «risposta appropriata e necessaria ai segni dei tempi».
Dopo aver ascoltato une bella e convincente lezione di un teologo australiano, Ormond
Rush, sulla «Tradizione vivente», mi sarei aspettato un concreto passo in avanti, che non c’è
stato. Se c’è un ambito della dottrina cattolica dei sacramenti in cui la tradizione si rivela
estremamente mobile è proprio quello del sacramento dell’Ordine. Fra i mille particolari che
si potrebbero ricordare basterebbe dire che per il Concilio di Trento il suddiaconato era un
grado dell’Ordine, mentre non lo era l’episcopato, mentre per il Concilio Vaticano II lo è
l’episcopato mentre il suddiaconato scompare dalla scena.

Cristiani LGBT
Le attese dell’opinione pubblica, a dire il vero artificiosamente alimentate dai media, che
produrranno maggiori delusioni riguardano la possibile inclusione delle persone LGBTQ nei
ruoli attivi delle comunità cristiane.
Non che l’assemblea sinodale fosse indifferente al problema: grande è stata l’emozione al
sentire una giovane polacca raccontare di una sua sorella che si era uccisa, dopo che il
confessore le aveva negato l’assoluzione.
È stato riaffermato l’imperativo del cristiano di non mancare di rispetto per la dignità di
nessuna persona e il dovere della Chiesa di corrispondere alle «persone che sono o si
sentono ferite o trascurate dalla Chiesa, che desiderano un luogo in cui tornare “a casa” e in
cui sentirsi al sicuro, essere ascoltate e rispettate, senza temere di sentirsi giudicate».
Ma nel venire alla questione del come reintegrarle nei ruoli della comunità l’assemblea ha
realisticamente riconosciuto che le questioni relative all’identità di genere e all’orientamento
sessuale risultano controverse anche nella Chiesa, perché pongono domande nuove.
È sentito il dovere di promuovere il discernimento sugli aspetti dottrinali, pastorali e morali
della questione «alla luce della Parola di Dio, dell’insegnamento della Chiesa, della
riflessione teologica». Si aggiunge l’intenzione di coinvolgere nella comune riflessione
«esperti di diverse competenze e provenienze» e di «dare spazio anche alla voce delle
persone direttamente toccate dalle controversie menzionate», assicurando loro «un contesto
istituzionale che tuteli la riservatezza del dibattito e promuova la schiettezza del confronto».