Il cammino sinodale è una buona occasione per affrontare con spirito rinnovato alcuni nodi, che da tempo segnano la vita delle nostre comunità. Uno di questi riguarda la manifesta difficoltà di intervenire, da cristiani, sulle questioni sociali e politiche. In più di un’occasione si è parlato di “afasia” del cosiddetto mondo cattolico, tanto da far dubitare se quest’ultimo ancora esista. Tale silenzio su quanto avviene nel mondo, prossimo o remoto, sembra mortificare la valenza sociale e politica dell’esperienza cristiana. Tutto ciò che riguarda la fede evangelica non è un’astrazione, un’esperienza solitaria, ma un fatto che decide della vita delle persone nei loro legami sociali. Negare o sospendere questa valenza storica porta inevitabilmente a svuotare la fede stessa, a renderla un puro ornamento interiore o, peggio, una bandierina esposta alla strumentalizzazione. E questo non vale solo da un punto di vista personale, ma assume un valore anche per la qualità del vissuto sacramentale e pastorale di una comunità cristiana. L’esperienza del Sinodo può essere il luogo dove avviare e sperimentare metodi e strumenti per il discernimento? Una via possibile, da percorrere, può essere, a mio avviso, il creativo recupero e approfondimento delle categorie bibliche di profezia e regalità, doni della nostra dignità battesimale. Il primo invito rivolto alla comunità cristiana è quello di divenire lievito in questo mondo, nel tempo in cui siamo. In obbedienza al comune battesimo, qui si tratta di accogliere e coltivare il dono della profezia. Il profeta è colui che, in obbedienza alla Parola di Dio, pone il segno del “mondo altro” nella realtà storica. A volte è un segno di rottura, di radicale denuncia del “disordine costituito” presente. Il cristiano non può accettare passivamente la presenza e il funzionamento di “strutture di peccato”; tanto meno può esserne sostenitore o responsabile a qualsiasi livello. Non solo: le “strutture di peccato” esigono non un silenzio acquiescente, ma una denuncia franca e una opposizione netta. Il segno a cui siamo chiamati deve tentare di smuovere le coscienze, anche a prezzo di incomprensione e sacrificio. Altre volte il profeta deve consolare: intercedere tra le vite travagliate dei fratelli e delle sorelle, aiutandole ad aprirsi alla speranza e al perdono, manifestando la Misericordia del Padre. La profezia è quindi il dono di schiudere qui ed ora una feritoia sull’eternità, nel “già” anticipa il “non ancora”, atteso e desiderato da tutti gli uomini. Il segno profetico ispira ad intraprendere un cammino rinnovato. Ma al cristiano non spetta semplicemente di collocarsi “dall’altra parte” del problema, quasi saltandolo a piè pari o sottovalutandone la “durezza”, bensì di realizzare in ogni situazione storica concreta il massimo del bene realisticamente possibile. Altrimenti rischia di chiudersi in una sterile testimonianza: un cartello che indica una meta bella ma impossibile. In altre parole, c’è la necessità di passare dal segno significativo al progetto graduale e fattibile, teso a edificare il bene comune. Qui entriamo nel secondo dei doni battesimali, ossia la regalità: la possibilità di dominare il negativo, nella vita e nella storia, lasciando fiorire il progetto buono di Dio. Sarebbe un bel dono del Sinodo se in diocesi si avviasse la creazione di luoghi e strumenti dove esercitare, secondo un metodo orientato al dialogo e al rispetto, il discernimento comunitario. Lasciandosi ispirare/provocare da quanto anticipato nella profezia, immaginare e mettere in atto qui ed ora dei percorsi, che si pongano nella storia quali passi concreti verso la realizzazione di una società più giusta e fraterna, pur nella consapevolezza che resterà sempre uno scarto tra l’ideale e la sua realizzazione. I lavori sinodali provino a immaginare luoghi nella comunità dove si condivide e sostiene questo processo, un aiuto alle persone e gruppi per maturare, sui tempi che stiamo vivendo, idee fondate e a collocarvisi tenendo presenti le ragioni etiche e culturali ispirate dal Vangelo. Luoghi dove si suscita e sostiene il dibattito, finalizzato alla comprensione e al discernimento delle situazioni e delle diverse posizioni, prestando particolare attenzione all’ascolto e alle relazioni; e al contempo esercitando un compito di osservazione e attenzione su quanto accade, le sue origini, i suoi rimedi, i rischi e le possibilità. La finalità prima dovrebbe essere rompere il silenzio calato su tutto ciò che riguarda l’impegno civile del cristiano, esorcizzare la paura della divisione e al contrario sollecitare il confronto. Nella ritrovata fiducia che parole non gridate possano ancora essere dette e ascoltate, favorire relazioni positive, ridare spazio alla speranza che il futuro sia ancora nelle nostre mani. È l’urgenza delle sfide poste dal tempo presente che ci chiede di dar vita a un percorso di credenti, anche solo un frammento se non è possibile di più, che si interrogano sulla loro chiesa e sul tempo in cui vivono attraverso un modo di procedere che non saprei definire se non “sinodale”. Un movimento in uscita, che invita a guardare “fuori” e nel contempo sollecita le nostre comunità a interrogarsi lealmente anche sulla loro vita interna. Avendo il coraggio di non coprire, ma vivere le differenze. Le organizzazioni vitali non hanno paura delle differenze, le considerano anzi una ricchezza, pur nella consapevolezza che non tutte le differenze inducono gli stessi effetti di crescita. Alcune, soprattutto quando il confronto viene rifiutato, possono arrivare ad essere un freno, ma in ogni caso vanno capite e discusse, con rispetto e serietà, sempre. Il percorso sinodale stesso se avrà il coraggio di discutere della vita della chiesa e dello stare dei cristiani nella società, farà emergere quelle differenze teologiche, culturali e socio-politiche, che sono andate silenziosamente sedimentandosi nelle comunità cristiane, ma che, nonostante la loro evidente rilevanza, sono rimaste finora sottaciute approfondendosi e aggravandosi. È tempo che su queste differenze si apra una franca riflessione sulle loro radici culturali e su come agire perché il conflitto in qualche modo inevitabile non trascenda, pregiudicando lo stare insieme.
dicembre 2022
Testo pubblicato nel sito della Diocesi di Padova