«La Chiesa italiana attraversa diversi e non semplici problemi ma credo anche che vanti una prerogativa importante: è una Chiesa ricca di spiritualità e di carità per i poveri. E penso che è da qui che dobbiamo ripartire». In questo esordio di una lunga chiacchierata, che in un pomeriggio di fine estate ci ha concesso il neo presidente della Conferenza episcopale italiana, c’è non solo la sintesi estrema del suo programma di lavoro ma anche i tratti principali della personalità del cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi: una decisa positività che è figlia della sua curiosità intellettuale e della speranza cristiana.
Cominciamo dal Sinodo: si può dire che la partecipazione e i risultati della fase dell’ascolto diocesano siano stati inferiori alle aspettative? In un Sinodo chiamato a discutere di sinodalità, cioè dell’essere Chiesa, spesso è prevalso tra i laici un atteggiamento ancora delegante e tra i preti una qualche diffusa diffidenza.
Sì, è vero. Ma penso anche che proprio questa fatica del cammino sinodale sia paradossalmente segno della necessità e urgenza della prassi sinodale. Perché ci si mette in cammino quando se ne avverte l’esigenza, quella di Cristo che non aspetta, chiama e invia. Questo appuntamento avviene in un momento particolare nella vita della Chiesa e del mondo, cioè nello scorcio finale (si spera) di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, ha cambiato le nostre abitudini, anche religiose, ha svuotato le chiese, ha inciso profondamente sul nostro sentimento religioso, sul nostro essere comunità, e financo sul nostro modo di pregare. Non scordiamoci che nelle nostre intenzioni iniziali questo cammino prevedeva anche dei compagni di viaggio esterni al nostro mondo abituale; non il solito 5 per cento ma quel 95 per cento che ci guarda ma non cammina con noi, e il tempo recente che abbiamo vissuto non c’è stato certo d’aiuto nel progetto. Dobbiamo ripartire da due domande: perché camminare e perché camminare insieme ad altri compagni di viaggio. E questo richiede una grande passione. L’immagine biblica di riferimento è Matteo, 9, 35: «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il Vangelo del Regno, […] e vedendo le folle ne ebbe compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore», e manda due a due i suoi; e Dio sa quanta stanchezza e sfinitezza c’è ora nel mondo. Anche oggi Dio ci chiama e ci manda. Non giudica, non rimprovera: manda noi! E se aspettiamo, quella sofferenza non incontra la gioia e la luce del Vangelo! Perché “camminare insieme” non è un dibattere insieme, ma aderire alla chiamata, cioè alla vocazione missionaria della Chiesa. La missione però non è un evento dimostrativo per poi accontentarci di rintanarci nelle trincee di sempre. È costitutiva dell’essere discepoli di Gesù. Capire le domande che ci vengono incessantemente dal mondo ci aiuta a vivere la compassione di Gesù, che è partecipazione interiore, condivisione. La pandemia (e con la pandemia della guerra) ci ha investito di tanta sofferenza: la scoperta della vulnerabilità e finitudine umana, le domande sull’Oltre da noi hanno incontrato quella che viene chiamata la “depressione escatologica”, l’incapacità del mondo di pensare e di parlare del futuro. Dobbiamo sì camminare insieme, ma guardando con lo sguardo di Gesù alle stanchezze e fragilità. Saper guardare e interpretare le doglie della creazione, che sono non solo la pandemia, ma anche la guerra, la rovina dell’ambiente, il degradare delle relazioni interpersonali e sociali. Non per lamentarci ma per cogliere quanto c’è comunque di generativo nelle sofferenze dell’oggi.
La passività delegante dei laici è comunque figlia di un’educazione religiosa lacunosa da parte del clero in tema di sinodalità. E spesso i preti hanno interpretato la sinodalità come una cessione di loro prerogative. Viene da pensare che la crisi della Chiesa, più che da imputare alla “secolarizzazione montante” abbia un’origine endemica.
Sono molto d’accordo sulla necessità di non continuare ad agitare la secolarizzazione come causa di tutti i nostri mali. Non è un giorno che viviamo ormai in un ambiente secolarizzato; il tema è semmai quello di saper accogliere le domande che oggi ci pone l’uomo secolarizzato, l’uomo “psicologizzato”, l’uomo che ha subito profonde e rapide mutazioni antropologiche. Molti di noi continuano a coltivare qualche nostalgia della “cristianità”, anche perché sono cresciuti e formati – religiosamente e civilmente – nell’idea di cristianità. Così rischiamo sempre di tornare a una logica di controllo, di numeri, di presenze, di rapporti di forza. Benedetto xvi parlava profeticamente di una “minoranza creativa” e Papa Francesco sviluppa ulteriormente parlando con tutti, facendoci capire che tutti ci appartengono. Sicuramente parte della Chiesa fa fatica a seguire questa prospettiva, perché resiste un’autocoscienza ideologizzata ed esclusiva. Basti pensare all’autocoscienza di una comunità parrocchiale, che spesso appare confusa, fragilizzata, se non – per usare un termine oggi un po’ abusato – autoreferenziale. Per questo penso che il Sinodo sia una straordinaria opportunità affinché la Chiesa recuperi una forte passione, come Papa Francesco, a parlare a tutti. In realtà non si tratta di innovare radicalmente lo stile ecclesiale, ma semplicemente mettere in pratica e declinare le intuizioni che sessant’anni fa già propose il Concilio Vaticano ii. Malgrado le turbolenze post conciliari da un lato e le chiusure preconcette di quegli anni, oggi possiamo trarre efficacemente dai testi dei padri conciliari il giusto percorso da camminare insieme.
Rimaniamo sul tema dell’ascolto che lei ha giustamente posto come questione centrale del camminare insieme. Le domande da ascoltare sono tuttavia molto diverse dal passato. Dai tempi del Concilio a oggi è intervenuto un cambiamento epocale, che non è solo culturale, non è solo la globalizzazione, la digitalizzazione o la psicologizzazione delle relazioni. Ma è il cambiamento antropologico. L’essere umano non si sottrae all’evoluzione. L’uomo e la donna di oggi sono molto diversi da quelli su cui abbiamo costruito buona parte del pensiero teologico. Ontologicamente, se si può dire, diversi.
Questa è una questione importantissima che dobbiamo urgentemente affrontare. Senza rimpianti per il passato e senza fughe in avanti. Dobbiamo allora con coraggio comprendere l’antropologia, i cambiamenti già intervenuti e quelli che una rapidità vanno prospettandosi. E poi, con altrettanto coraggio, porci la domanda sul perché la bellezza umana dell’essere cristiani non attrae e quella sul “che fare?”. Tanti si sentono giudicati e non amati, così non facciamo né l’uno né l’altro. L’interferenza di questi cambiamenti con la sfera della morale fin qui proposta è evidente. Si pensi per esempio a come le scoperte delle neuroscienze incidono sulla nostra tradizionale idea di volere, e di libero arbitrio. O pensate alle questioni riguardanti i generi e la loro fluidità. Temi sui quali fatichiamo perché ci troviamo innanzi non più un’alterità di pensiero, una contrapposizione, ma un comune sentire, e una conseguente pratica. È saltata completamente l’idea del limite, l’idea che non ti evolvi se non moltiplicando le esperienze, sperimentando tutto e cambiando a piacimento le interpretazioni del reale. Lo stesso vale per le modifiche antropologiche derivate all’uomo digitale. Ma non possiamo certo limitarci a una sfilza di “no”. Dobbiamo piuttosto impegnarci a costruire il profilo attuale del cristiano, cioè dell’uomo evangelico, che è quello di sempre ma che deve parlare all’uomo di oggi. E poi non dimentichiamo che Dio è sempre più intimo a noi stessi. E non solo ci conosce ma ci insegna a conoscerci. Meglio di così!
Il nostro sistema di pensiero, filosofico e teologico, difetta spesso di una certa “fissità” del concetto di uomo. E di donna. Che invece sono esseri sempre dinamici, in continua evoluzione.
Assolutamente sì. Non c’è dubbio. Pensate per esempio a quanta porzione delle nostre capacità intellettive – a cominciare dalla memoria – sono state già trasferite nei devices elettronici, che ormai sono delle protesi dell’umano. È certo che anche questo cambia, e cambierà profondamente l’essere umano per come lo conosciamo. Il tema, sicuramente non facile, è di chiederci cosa può ancora oggi suggerire l’antropologia cristiana al mutato e mutante uomo di oggi. Per esempio: prevale oggi un concetto di benessere che alla resa dei conti non sembra fornire una felicità duratura, piuttosto un effetto narcotizzante. E lo stesso può dirsi per la costante sospinta all’esaltazione dell’“io”, che è funzionale ai consumi e non alla buona vita. O alla medicalizzazione costante che è esorcizzazione della fragilità dell’umano. Il cristiano è un uomo felice. Papa Francesco ce lo ricorda con insistenza, proprio perché è il primo modo di parlare del Vangelo. Ed è un uomo comunitario, fa parte di una famiglia e non un’isola o una monade che sperimenta tutto e non resta con nessuno.
In effetti, come osservava il cardinale Martini, abbiamo medicalizzato i due momenti più importanti della vita, inizio e fine. Si nasce e si muore in ospedale.
Sicuramente c’è una rimozione della vulnerabilità. Questo potrebbe voler dire che per l’uomo di oggi la vita bella è così com’è, hic et nunc: è questa, punto e basta, a volte con amaro fatalismo, a volte con arroganza prometeica e un po’ incosciente. Il cristiano, differentemente, vede e si rende conto della sofferenza che agita tutta l’esperienza umana, dall’inizio alla fine, la sua e quella degli altri e la interpreta, la elabora in compassione e fraternità. Il cristiano è colui che, accogliendola, trasforma quella realtà, quella sofferenza, in una richiesta. Papa Benedetto aveva dato un nome alle conseguenze di questo compiacimento dell’esistente: desertificazione spirituale. Ai tempi del Concilio si era espressa una convinzione, che era anche una speranza, che l’uomo si fosse finalmente reso consapevole dei propri limiti, che rifiutava la sopraffazione, l’odio, la guerra, e quindi preparava a un futuro migliore. Pensate al discorso di Giovanni xxiii sui profeti di sventura dell’11 ottobre 1962 all’apertura del Concilio, in cui li tacciava di non comprendere l’anelito irrevocabile di pace che saliva dagli uomini. Oggi dopo sessant’anni ci ritroviamo di nuovo tutti molto sofferenti, circondati da dinamiche che Papa Francesco non esita a chiamare da “terza guerra mondiale”; stiamo sperimentando di nuovo i veleni della violenza, della sopraffazione, dell’odio. Anche tra fratelli. Anche nella Chiesa. Prevalgono disillusione e disincanto. Il mondo digitalizzato e individualizzato alimentano le polarizzazioni. Manca invece l’unica risposta possibile: la compassione, cioè una lettura esistenziale ed esperienziale che aiuti, ci aiuti a ritrovarci.
Il cambio al vertice della Cei è stato anche un’occasione di verifica dello stato di salute della Chiesa italiana.
Devo dirvi che sono contento che questo passaggio tra il cardinale Bassetti e me coincida con il cammino sinodale. In qualche modo la verifica che richiamate è il Sinodo. Perché è un guardarsi, un capirsi non come un circolo chiuso ma come popolo. Che vuol dire essere cristiano oggi? Cosa mi chiede la Chiesa di essere? Non sono domande a cui possiamo rispondere in privato, garantiti da un facile spiritualismo alla moda. Perché ha ragione Papa Francesco: i due pericoli sempre incombenti sono gnosticismo e pelagianesimo, che relegano la religione nella dimensione individuale. Il cammino insieme invece può creare molta autocoscienza delle difficoltà, degli errori, dei limiti, aiutarci a capire che sono delle opportunità, delle potenzialità per la comunicazione del Vangelo. Ecco, per questo dobbiamo individuare quali sono oggi le vere priorità della Chiesa italiana, per non correre dietro a falsi problemi o a temi che oscillano sul confine dell’autoreferenzialità. Il documento di sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo va preso come un punto di partenza, che richiede ancora molto lavoro nel senso della specificazione, di comporre la pluralità delle idee per superare quel disincanto che dicevamo prima. Non basta solo esortare alla conversione ma cambiare camminando.
Ancora sulla Chiesa italiana: alcuni dati statistici, circa i matrimoni civili o la frequenza sacramentaria, sembrerebbero dire che si allarga anche in campo ecclesiale una forbice tra Nord e Sud.
Mah, la forbice c’è sempre stata, e la forza della secolarizzazione della società italiana mi sembra pervasiva in ogni dove, anche se le forme in cui si manifesta sono poi abbastanza diverse nelle diverse regioni del Paese. Però, lasciatemi dire, se è vera l’immagine della desertificazione spirituale, ci deve essere anche l’acqua. Il deserto in quanto tale esprime la sete, il bisogno – e la ricerca – dell’acqua. Se c’è il deserto significa anche che c’è una nuova ricerca di acqua. Dobbiamo guardare alla sete, non lamentarci del deserto. Soddisfare questa sete significa spiegare, e ancor più mostrare, com’è vivere da cristiani oggi. Perché ne vale la pena, e dona più soddisfazioni del protagonismo digitalizzato imperante o dell’essere meri spettatori di un mondo nel quale è sempre più difficile relazionarsi. C’è un’agiografia francescana che racconta della prima predicazione di san Francesco nella mia diocesi, esattamente ottocento anni fa, e dice come san Francesco non sembrava che predicasse perché in realtà conversava in un dialogo aperto coi bolognesi. Questo è il modello della nostra presenza nel mondo; esserci, parlare al cuore, tessere relazioni e fare sentire la presenza di Cristo.
Eppure la Chiesa italiana, per dirla con Giuseppe De Rita, ha un problema di “postura”. Come anche voi scrivete nel documento di sintesi del percorso sinodale, di fronte ai tanti temi su cui è chiamata a dire la sua – povertà, cultura dello scarto, pace, giustizia sociale, lavoro, giovani ed educazione – appare come afona, balbettante. Come si fa allora a conversare?
Abbiamo fatto la nostra scelta di conversare e quindi innanzitutto abbiamo deciso di ascoltare. Abbiamo impegnato questi due anni all’ascolto. Gli esiti certamente sono controversi, probabilmente perché noi preti siamo più abituati a rispondere che a domandare, più propensi a definire, circoscrivere, dare certezze, spiegare chi siamo, a parlare sopra che ascoltare. Il tema invece è quello di saper raccogliere quanto la realtà intorno a noi ci propone, come dice Papa Francesco “farci schiaffeggiare dalla realtà”. Mi viene in mente, per fare un esempio tra i tanti, il giudizio che don Giussani dette di Pierpaolo Pasolini. Due mondi di provenienza che più lontani non si può immaginare. Eppure Giussani non ebbe esitazioni ad accogliere e ad appassionarsi del pensiero di Pasolini, fino ad attribuirgli il ruolo di maestro. Occorre avere sempre un atteggiamento accogliente e non giudicante, mentre veniamo spesso identificati come aprioristicamente giudicanti, anche quando magari non lo siamo. Ma perché veniamo considerati giudicanti? Intanto perché, diciamolo, troppo spesso abbiamo un’ossessione a giudicare, perché sentiamo che se non lo facessimo non adempiremmo al nostro ruolo. C’è dentro di noi uno zelo che ci porta a difendere la trincea della verità. Pensiamo che questo sia il nostro essenziale compito e che questo significhi seguire il Vangelo. Ma non è così. Perché certo il Vangelo è la verità ma è ben diverso dall’atteggiamento farisaico, il quale comunica la Legge, mentre a noi il Vangelo chiede di comunicare l’Amore. Dirti la legge è condannarti. Non possiamo usare il Vangelo come una clava. La misericordia, l’ascolto non giudicante, l’attenzione pastorale non sono cedevolezze. Poi certo sono consapevole che c’è anche il rischio di inseguire le filosofie del mondo. Ma con queste il discrimine è molto netto: loro esaltano l’Io, noi ragioniamo solo in termini di Noi. La Chiesa non corre dietro all’Io.
Il Noi si sostanzia innanzitutto nell’impegno politico. La Chiesa italiana nei primi quarant’anni della storia repubblicana ha fatto politica. Politica con la p maiuscola ovviamente, non la politique politicienne. E l’efficacia è stata notevole, soprattutto per la funzione di collante tra spinte diverse, di mediazione culturale. Poi con la fine della prima Repubblica e la scomparsa del partito dei cattolici si disse che il ruolo dei cattolici sarebbe stato quello, in entrambi i poli, di influenzare la politica sui valori cristiani. Oggi sembrerebbe essere accaduto il contrario: è la politica che influenza i cattolici. La divisione politica precede ogni altra distinzione tra cattolici.
Intanto c’è da dire che la polarizzazione è oggi la cifra di tutta la società. E i cristiani non sono estranei alla società. La polarizzazione regna sovrana su tutti i temi, grandi e piccoli. Credo che questa sia la risposta istintiva e semplificante alla complessità del mondo in cui viviamo. Aderisci, ma non pensi. Schierandoti non hai bisogno di farti molte domande. Noi dobbiamo invece affrontare la complessità senza timore, porci domande, soprattutto quelle che riguardano il “chi” , cioè ponendo al centro la persona. Questa è la via della semplicità e non della semplificazione. L’altra cosa, che giustamente rilevate, è guai ad avvelenare con la logica politica le relazioni ecclesiali! Non è un fenomeno solo italiano; penso per esempio alla forte polarizzazione politica rappresentata nella Chiesa americana. Ma laddove la politica ha usato categorie pseudo-teologiche o spirituali per inquinare la vita ecclesiale alla fine hanno perso tutti. Dobbiamo fare molta attenzione su questo aspetto. E non solo per le strumentalizzazioni esterne quanto per le divisioni interne. Guai a cadere nelle trappole a esempio delle finte contrapposizioni tra sociale e spirituale, o alle divisioni, spesso artificiose, sui temi etici. Sui temi etici non possiamo limitarci a ripetere le lezioncine del passato, ma dobbiamo trovare nuove parole per nuove domande. Con molta franchezza: se sui temi etici il mondo va da un’altra parte vuol dire certo che non dobbiamo omologarci o dire quello che il mondo vuole sentirsi dire ma sapere dire le verità di sempre nella cultura o nelle categorie di oggi. Questa è la sfida ed è tutt’altro che cedevolezza ma responsabilità, altrimenti ripetiamo una verità diventata dura da accettare. Pensiamo al discorso sulla famiglia: non abbiamo ancora saputo fare qualcosa di meglio di quanto proposto dalla secolarizzazione. Paolo vi e Mazzolari lo dicevano già ai loro tempi: tanti sono lontani e il problema non sono loro, siamo noi! C’è in loro una domanda, implicita, di una Chiesa più evangelica, più madre e per questo esigente e coinvolgente, che non fa la matrigna e dice: «Te lo avevo detto io».
Su questo aspetto il debito di ascolto maggiore è forse nei confronti delle donne. Le donne che sono sempre state il pilastro fondante della Chiesa. E oggi invece registriamo che la categoria sociale che più tende ad allontanarsi sono le giovani donne. Anzi, registriamo frequentemente che le giovani donne sono proprio “arrabbiate” con la Chiesa.
Sì, lo confermo. E posso aggiungere che questo nasce essenzialmente dal non sentirsi ascoltate. E qui il tema da approfondire è come si ascolta. Noi preti, troppo spesso, coltivando tanti rapporti, ascoltiamo solo con le orecchie. Ricordo, quando ero parroco a Santa Maria in Trastevere, una volta una giovane donna trasteverina mi apostrofò: “A’ don Matte’, ma me stai a senti’?”. “Ma io te sento!”. “No, tu stai a pensa’ a li fatti tua”. Ascoltare non significa fare rilevazioni sociologiche a campione, ma esercitare l’empatia che è generata dalla vera passione per l’altro.
Rilevava di recente il sociologo Mauro Magatti che, a dispetto di chi celebra ogni giorno la fine della religione, le religioni sono quanto mai al centro delle vicende del mondo, soprattutto in senso negativo, nelle contrapposizioni. Il fondamentalismo islamico continua a ispirare violenza in molti paesi, risorge in Europa un sentimento antisemita, in America, come dicevamo, la religione è tra i principali strumenti di scontro politico, o perché strumentalizzata o perché ostracizzata, e anche qui da noi il sovranismo agita impropriamente simboli e temi religiosi. La religione dunque sembra avere un suo spazio ma solo come strumento di divisione.
Beh, è quello che dicevamo anche prima. La polarizzazione come risposta (falsa) alla complessità. E sicuramente la polarizzazione usa le religioni perché ancora oggi possono smuovere grandi passioni. Ma la risposta ce la dà ancora una volta Papa Francesco con Fratelli tutti che non è solo una profonda e innovatrice esplicitazione teologica della fratellanza evangelica, ma è anche il manifesto di un nuovo umanesimo civile. Direi anche l’unico nell’attuale contesto mondiale. Dobbiamo essere capaci di diffondere una parola di “fratellanza necessaria” all’uomo di oggi, una parola che si dimostri migliore e più attraente dell’individualismo consumistico. Una parola che non teme di proporre la porta stretta anziché la porta larga. Perché la porta stretta? Perché quella larga conduce a una felicità effimera e ingannevole. Non dà soddisfazione definitiva, e infatti l’infelicità è oggi quanto mai diffusa. La porta stretta è quella del “noi”, è quella della consapevolezza -per citare ancora Papa Francesco – che, credenti o meno, “non ci si salva da soli”. Dobbiamo far crescere ovunque la comunione. Comunione significa lo stare insieme, l’amicizia. Dobbiamo dire con più forza che la Chiesa è una famiglia. Quelli accanto a noi a messa non sono dei soci, sono dei fratelli, parenti di una stessa famiglia. E non basta dirlo, bisogna viverlo. Il senso dei ministeri a cui siamo chiamati, laici e preti, lo trovi solo nella comunione. I nuovi ministeri istituiti, aperti anche alle donne, saranno un passaggio decisivo nella costruzione di un’architettura di comunione. Ma attenzione che siano risposte “sostenibili”, cioè dalla valenza spirituale e non solo strutturale, funzionale. Pensando all’interesse suscitato da queste nuove ministerialità, vorrei tornare su quanto dicevo all’inizio: la Chiesa italiana è viva, e ha voglia di vivere. Perché è dotata di spiritualità. E perché è immersa nel sociale.
In questa nostra chiacchierata ha citato spesso il termine conversazione spirituale. Cosa intende precisamente?
Direi semplicemente che è un parlare cominciando da se stessi (non dall’altro) presentandosi non in chiave materiale, funzionale, ma appunto spirituale. Cioè di come la mia vita è improntata da un senso. E questo vale tanto per i laici che per i preti. Conversare non è un mestiere, è un mettersi in gioco.
Un’ultima domanda su una questione che ci sta a cuore, perché viene da un’esperienza che anni fa abbiamo fatto insieme: siamo stati insegnanti di religione nei licei, tutti e tre.
Ah già, e ho un ricordo molto bello del tempo in cui ho insegnato religione. Era ancora obbligatorio ed era una sfida ogni volta, ma appassionante.
Malgrado le chiese sempre più vuote, e le pratiche sacramentali in disarmo, l’ora di religione continua a essere scelta da una grande maggioranza di studenti. Per un solo giovane che frequenta una parrocchia ci sono cinquanta giovani che fanno religione a scuola. È la vera “Chiesa in uscita”. Eppure, le diciamo con franchezza, abbiamo la percezione che la sensibilità dei vescovi italiani su questo fronte sia un po’ bassa.
Sì, è un tema che merita una riflessione seria e approfondita. Perché l’ora di religione può essere molto importante per il futuro della Chiesa in Italia. C’è bisogno dell’insegnamento della religione per capire il mondo dove siamo, le nostre radici. Ci serve un’alleanza con i laici – anche atei – che ben comprendono l’importanza della conoscenza religiosa in un sistema culturale, come quello italiano, profondamente permeato dal fatto religioso. Farlo penso sia la migliore difesa dagli estremismi. Continuo spesso a dire: come si può capire veramente Manzoni, o Dante, o la storia dell’arte, o buona parte della filosofia, senza avere una formazione culturale (non catechetica) religiosa di base? In questo discorso aggiungerei un ulteriore argomento: a scuola si fanno due ore a settimana di educazione fisica, ma non c’è neanche un’ora di educazione spirituale. Una contraddizione della più elementare antropologia. Sarebbe bello se i giovani potessero imparare a conoscere se stessi come soggetti spirituali.