Che significa oggi vincere o perdere una guerra?

Il presidente degli Stati Uniti Biden ha accompagnato la richiesta al Congresso di uno stanziamento eccezionale e cospicuo per aiuti militari all’Ucraina con un infuocato discorso in cui ha scandito: “Putin non deve vincere la guerra”. Il segretario alla Difesa Austin ha rincarato la dose a Ramstein, affermando che “l’Ucraina può vincere la guerra”. Nei talk show italiani autorevoli intellettuali democratici sostengono che non è progressista pensare che gli ucraini non possano vincere la guerra. Insomma, il tema della vittoria (e della sconfitta) è sempre più al centro delle retoriche pubbliche attorno alla guerra. Ma ascoltare questi slogan o questi ragionamenti lascia un poco perplessi. Cosa significa infatti precisamente “vincere” o “perdere” una guerra come quella russo-ucraina in corso?

Ho l’impressione che si possa rispondere a questa domanda solo se si prova a decodificare una cultura ambientale non del tutto ovvia rispetto a queste tematiche. Esiste ai miei occhi un’ombra lunga in materia: una visione degli esiti dei conflitti condizionata dal fantasma della “guerra totale” della prima parte del Novecento. Ricordiamoci infatti che l’esperienza della guerra prese un carattere del tutto inedito e particolare proprio a partire dallo scontro totale tra Stati-nazione sviluppatosi nella Prima guerra mondiale, all’ombra dell’inedito conflitto di logoramento nazionalistico tra grandi potenze industriali. Da quella tragica vicenda, si continuò linearmente a muoversi nella stessa direzione fino allo scontro globale di sistemi ideologici che maturò nel secondo conflitto mondiale, particolarmente dopo l’Operazione Barbarossa e Pearl Harbor. La guerra divenne in questo lasso di tempo sempre più “totale”, cioè scontro militare senza possibili mediazioni, senza limiti politici: uno scontro con caratteri sempre più estesi e profondi (coinvolgendo non a caso per la prima volta ampiamente le popolazioni civili). La guerra totale aveva un corrispettivo chiaro: la vittoria non poteva che essere parallelamente totale. Distruzione di un sistema, di un governo, punizione di un popolo “colpevole della guerra” (si ricordi l’antistorica definizione contenuta nel trattato di Versailles del 1919 sulla Germania). Fino all’apocalittica immagine della primavera del 1945, con le truppe russe a Berlino e gli angloamericani sull’Elba a spazzar via ogni parvenza di statualità tedesca, oltre che il regime nazista.

In fondo, anche la Guerra fredda sviluppatasi dalla rottura della grande coalizione internazionale antifascista è stata una guerra totale simbolica del tutto analoga a quel modello: non poteva infatti immaginarsi un compromesso o una mediazione duratura tra i grandi rivali, benché questi nuovi avversari non combattessero militarmente tra loro una terza guerra mondiale (almeno a livello globale e soprattutto in Europa, dove lo scontro aveva avuto inizio). Ogni sistema pensava se stesso come assoluto, con una carica ideologica in cui giustamente qualcuno ha notato afflati sostanzialmente religiosi. E quindi la stessa distensione raggiunta tra gli anni Sessanta e Settanta non fu mai qualcosa di simile a una vera pace, ma solo una tregua istituzionale. E la guerra finì effettivamente solo per implosione di uno dei due contendenti, nel 1989-1991. Un esito peraltro imprevisto e impreparato, ma tant’è. La fine del comunismo sovietico – pressoché incruenta che fosse – non faceva che confermare la logica della guerra e della vittoria totale. Tanto che la conseguenza fu una mera estensione ad Oriente delle regole del sistema occidentale-globale costruitosi nei quarant’anni precedenti e ora tranquillamente autodefinitosi come strutturalmente globale.

Non era sempre stato così. Non c’è bisogno che di accennare al fatto che prima del 1914 in Europa si era conosciuto un lungo periodo storico di guerre limitate, circoscritte, controllate, regolate anche dal punto di vista del diritto. Pensate soprattutto al “lungo Ottocento” e alle guerre di unificazione nazionale italiana e tedesca, alle guerre bismarckiane o anche a quelle balcaniche. Tipicamente fedeli alla riflessione famosissima (ma spesso impropriamente considerata) di Carl von Clausewitz: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. La guerra totale novecentesca ebbe invece propriamente il significato di divaricare politica e guerra. Qui risiedeva uno degli aspetti dirompenti della Prima guerra mondiale nella coscienza europea: avviare una totalizzante “guerra civile” nel cuore di una civiltà comune, che aveva precedentemente tentato di normalizzare e limitare la guerra, con qualche successo. La politica avrebbe propriamente ripreso solo quando la guerra avesse finito il suo corso.

In sostanza, possiamo ancora oggi ragionare così? Credo proprio di no. Già la gran parte delle guerre locali extraeuropee connesse alla Guerra fredda, proprio perché nessuno dei Grandi voleva che costituissero l’innesco di una sempre possibile Terza guerra mondiale, si conclusero con una condizione di provvisoria definizione, di interruzione (e magari di ripresa successiva), o di mediazione, in una soluzione compromissoria. Pensate alla Corea nel 1953, al conflitto arabo-israeliano, al conflitto indo-pakistano. Fece eccezione in questo senso il Vietnam, dove la disfatta americana si prolungò due anni dopo il ritiro negoziato da Kissinger, con l’arrivo a Saigon delle truppe del Nord comunista e il crollo totale del regime di Van Thieu.

Dopo il 1991 le cose non sono molto cambiate, nonostante la fine del bipolarismo. Ancora una volta sono riprese situazioni di guerre inconcluse, provvisoriamente bloccate da armistizi, congelate in situazioni de facto, non riconosciute universalmente ma in fondo durature sul campo. Pensate al conflitto armeno-azero sul Nagorno Karabakh, alla secessione non riconosciuta della Transnistria dalla Moldova, alla stessa vicenda della Georgia, con le due regioni dell’Abhasia e dell’Ossezia del Sud, abitate significativamente da russi, che si sottrassero al controllo del governo georgiano. E non dimentichiamo che il primo intervento militare russo fuori dai propri confini, nell’era di Putin, avvenne proprio nella Georgia del 2008, e si concluse con la riaffermazione di questa situazione de facto, che il governo di Tbilisi aveva provato a sovvertire. Cioè senza vittorie o sconfitte “totali”.

Certo, qualcuno può ricordare che quando nelle guerre locali si verificò l’intervento della superpotenza americana, ci furono condizioni di vittoria totale sul campo. Regimi che crollarono, reimpostazioni della politica del paese sconfitto (Afghanistan del 2002, Iraq del 2003) e tentativo non particolarmente felice di impiantarvi la democrazia, secondo la logica neoconservatrice. Anche in questo caso, però, non dobbiamo esagerare a leggere il modello dell’eversione totale del nemico come unificante. Anzi, i conflitti della Global war on terrorism di Bush jr. sembrano quasi costituire un’eccezione. Nel 1991 la guerra del Golfo aveva visto Bush sr. scegliere di lasciare Saddam Hussein al suo posto, dopo aver liberato il Kuwait, ritirando le truppe di occupazione. Se leggiamo su questa lunghezza d’onda altre situazioni, non possiamo sorprenderci di trovare impostazioni simili. Il caso della Bosnia mi pare del tutto istruttivo: l’intervento militare breve e selettivo degli Stati Uniti clintoniani nel 1995 portò a bloccare l’aggressione serba nella guerra civile, ma l’esito della successiva imposta pace di Dayton fu una divisione di fatto (quanto duratura e permanente) del Paese tra le due parti in conflitto, che accettava sostanzialmente le conseguenze della precedente “pulizia etnica”, pagando questo indubbio costo morale e politico, per ottenere la fine delle ostilità e della lunga catena di violenze. La vittoria non fu quindi totale, ma portò a una pace di sostanziale compromesso.

Il caso russo-ucraino può essere catalogato sotto una situazione tipica da “guerra totale”, che chiederebbe quindi una vittoria coerente? Mi pare impossibile sostenerlo. La Russia ha lanciato un’offensiva sconsiderata e ambiziosissima, che sembrava quasi preludere alla volontà di occupare ampiamente il territorio della repubblica confinante, per “denazificarlo” (cambiare il governo e forse il regime istituzionale) e assieme “proteggere la popolazione russofona” (che voleva dire potenzialmente correggere i confini oltre la situazione de facto, creatasi nel 2014, della secessione delle due Repubbliche del Donbass). Ha ottenuto risultati militari coerenti? Direi proprio di no, tanto che ha dovuto correggere la prospettiva della guerra, concentrandola a quanto pare nelle ultime settimane nella regione sudorientale del Paese.

L’Ucraina ha saputo resistere alla prima offensiva, cosa non scontata, grazie anche all’aiuto internazionale. Ma per Kyiv cosa significa “vincere”? Ha una possibilità remota di scacciare tutte le truppe straniere dal proprio territorio e invertire l’offensiva fino a provocare un crollo militare e anche politico del regime di Putin? Difficile ipotizzarlo, allo stato delle conoscenze.

Se allora la vittoria non sembra poter essere per nessuno dei due antagonisti una vittoria totale, non dovrebbe essere logico che la “comunità internazionale” nel suo insieme – e primi entro di essa i paesi occidentali, sostenitori dei valori del diritto, della convivenza pacifica, della cooperazione multilaterale – premesse sui protagonisti per trovare un modo di fermare la guerra? Il presidente Mattarella ha parlato di ritorno allo “spirito di Helsinki”, che mi pare un ottimo riferimento. La Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea approvò nel 1975 un atto finale, accettato dalle due parti contrapposte del continente, pur divise profondamente da ideologie rivali. Dove si affermava l’inviolabilità (non l’immodificabilità) dei confini e si accettava il principio comune dei diritti umani almeno formalmente come comune sfondo dei due sistemi. L’idea di molti protagonisti di quelle trattative, forse non di tutti, era che questi elementi (la cooperazione, il negoziato, il mutuo riconoscimento) potessero ammorbidire col tempo anche la rigidità della “cortina di ferro”. E il 1989 avrebbe dimostrato qualche effetto positivo di quell’approccio. Oggi siamo meno impacciati di allora da orizzonti ideologici rigidi. Non dovrebbe essere impossibile immaginare un’azione convergente per premere sui contendenti (necessariamente soprattutto sull’aggressore russo) per costruire un processo di conclusione delle ostilità e recuperare un livello di convivenza minimale per tutti gli attori in gioco. In questo compromesso, magari criticabile e senz’altro contingente, ci potranno essere forme diverse di soddisfazione di ciascuno. Senza sconfitte né vittorie totali. Occorre uscire definitivamente dall’ombra lunga dell’età primo-novecentesca della catastrofe.