Pace e pacifismo nell’Europa di oggi

Per comprendere bene quali esigenze comporti attualmente la difesa della pace e della libertà in Europa, è importante assicurarsi anzitutto un punto di partenza; in mezzo a tante minacce così per i popoli come per le persone, fra tanti desideri forse incompatibili tra loro, come fare per cogliere l’essenziale? Quando si parla di pace e di libertà, in definitiva si parla di tutto, della vita stessa e delle ragioni di vivere. Non si tratta quindi di accumulare gli argomenti secondari (come ad esempio quelli che riguardano il costo degli armamenti o la difesa del livello di vita), bensì di chiedersi qual è per noi la causa essenziale, quella che può fornire un punto di riferimento. Cercherò di avvicinarmi a questo nucleo, a questo convincimento centrale riflettendo un poco sulla nozione di «diritti dell’uomo». Dopo di che, tenterò di fare rapidamente il punto sulla presente situazione europea e di indicare gli elementi di un possibile atteggiamento.

I diritti dell’uomo

Mi sembra legittimo prendere come punto di partenza la nozione di diritti dell’uomo perché dopo la guerra è proprio questa nozione che fonda l’ordine internazionale, perché specialmente l’Onu si riferisce a essa, e perché per quanto riguarda particolarmente l’Europa, i diritti dell’uomo hanno largamente ispirato gli accordi di Helsinki. Questi due esempi mostrano come, formalmente, il riferimento ai diritti del l’uomo non sia riservato agli occidentali. Coloro che criticavano l’uso sistematico di questo riferimento da parte della diplomazia americana sotto Jimmy Carter, dimenticavano il fatto che non si trattava della manifestazione di un «imperialismo culturale», ma si trattava di prendere come base ciò che l’insieme degli Stati contemporanei con la sola eccezione, credo, dell’Iran di Khomeiny, riconoscono in linea di principio.

Le dichiarazioni dei diritti si presentano come degli elenchi (diritti di proprietà, libertà di coscienza…) di ciò che certi Stati s’impegnano a rispettare. Possono essere delle semplici dichiarazioni di intenzione o avere forza giuridica, e dei due casi il primo è il più frequente. Quanto al contenuto, esso varia secondo i paesi e le epoche, ed esprime ciò che una società in un dato momento storico considera come essenziale alla cittadinanza. Uno studio sistematico del contenuto delle dichiarazioni in quello che hanno di comune e in ciò che le distingue le une dalle altre, non è necessario per scorgervi una comune ispirazione. Le dichiarazioni non enumerano le prerogative intangibili di una natura umana ma indicano di quali mezzi un individuo deve disporre per poter adempiere il suo compito, che è quello di partecipare alla storia. Initium ut esset bomo creatus est: questa formula di sant’Agostino è citata da Hannah Arendt alla fine del suo saggio sul totalitarismo. L’uomo non è propriamente naturale (la natura dell’uomo è l’artificio, diceva Mounier) nella misura in cui crea del nuovo. Le dichiarazioni di diritto non sono delle descrizioni dell’uomo, sono panoplie di mezzi indispensabili per compiere qualcosa che non può essere definito a priori. Le dichiarazioni rientrano perciò in una visione aperta dell’uomo, dell’uomo in quanto costruisce se stesso mentre trasforma il modo, e che secondo tale visione è a se stesso uno sconosciuto e un avvenire.

Partecipare alla storia

Tutte le disposizioni particolari contenute nelle dichiarazioni si ricollegano alla libertà di imprimere un segno alla storia sia fondando una famiglia, sia col lavoro del pensiero, sia attraverso l’attività civica… Il contrario di questa facoltà è la schiavitù, che può essere totale o parziale, individuale o collettiva, ma si risolve sempre con il precludere a certuni questa o quella forma dell’azione storica. A tale titolo, la colonizzazione, escludendo intere popolazioni dalla piena cittadinanza ha perpetuato fino ai nostri tempi una forma di schiavitù parziale. I diritti di ogni genere (individuali, sociali, politici) hanno un senso solo se li ricolleghiamo a questa nozione centrale. Il che esclude una concezione umanitaria dei diritti dell’uomo, che li consideri cioè come una sorta di vantaggi rivendicati, dei benefici di cui l’uomo moderno sarebbe l’insaziabile postulante: diritto alla sicurezza, alla salute, all’istruzione, all’ambiente, alla felicità… Concezione tutta passiva e consumistica dei diritti dell’uomo. Ed esclude altresì una concezione più o meno deterministica dei diritti dell’uomo, talvolta legata alla precedente, che presenta i diritti materiali (salute, educazione…) come delle condizioni preliminari alla realizzazione della libertà. Le «libertà reali» diventano così il solo contenuto della libertà tout court, la condizionano, la producono. Errore di prospettiva: se non sono ricollegati al diritto di partecipare alla storia, i diritti sociali cessano di essere diritti dell’uomo, non sono niente più che il diritto dell’animale a essere ben trattato e ben nutrito. Il che non significa che possano esserci dei diritti del l’uomo senza la realizzazione di certe condizioni materiali, ma queste non sono che dei mezzi necessari all’attuazione di una libertà umana di cui in nessun modo esse forniscono il senso.

Altri corollari:

1) I diritti dell’uomo non sono soltanto dei diritti dell’individuo. La partecipazione alla storia implica che l’individuo disponga di una zona di autonomia, e che egli possa partecipare a una vita collettiva. La libertà che essi mirano a rendere possibile non è solo quello di starsene in disparte, ma anche quella di partecipare a un’opera comune.

2) I diritti dell’uomo legano necessariamente libertà e uguaglianza. Tutti gli uomini infatti hanno un egual titolo a questa libertà. E illegittimo che tra essi le opportunità siano diseguali (non tutti sono Einstein, ma tutti possono tentare di partecipare alla ricerca scientifica).

Questo breve esame delle implicazioni dell’idea di diritti dell’uomo mi permette così di cogliere un criterio politico fondamentale. Permette anche di definire un atteggiamento in ordine a un dibattito circa la guerra e la pace. Se, infatti, i diritti dell’uomo derivano da un’esigenza di presenza alla storia, coloro che li difendono non possono sottrarsi essi stessi a tale esigenza: non si danno diritti dell’uomo senza un’etica implicita, che è quella di far fronte alla situazione in tutte le sue dimensioni e in tutta la sua complessità. Non si possono difendere i diritti dell’uomo (non sarebbe che umanitarismo) ponendosi ai margini della storia, in un isolamento mistico, escatologico o utopico. La nozione di diritti dell’uomo implica di per se stessa un’umanità che si cerca e si definisce nelle incertezze del presente. Ciò contraddice sia l’etica collettiva delle società tradizionali (l’uomo definito dal suo gruppo, definito a sua volta dalla legge trasmessa dai padri), sia quella fissata dalle filosofie della storia (l’uomo votato a realizzare un futuro predeterminato), sia i pensieri utopici che separano la conoscenza dei valori dall’esperienza etica concreta.

La libertà vietata

Se ora, dopo aver indicato il nostro punto di vista, consideriamo lo stato dell’Europa, vediamo subito che una parte del nostro continente soffre non solo di una privazione di libertà, ma anche della proibizione di essere libera. Vi sono regioni del mondo dove l’oppressione è peggiore, o in ogni caso molto più sanguinosa che nell’Europa dell’est, ma non ne esistono altre in cui l’assenza del diritto dei popoli a disporre di se stessi sia consacrata da un consenso internazionale, in cui tale assenza non solo sia considerata come una situazione legata a problemi interni, ma costituisca l’oggetto, dopo la guerra, di un quasi-accordo, e non possa comunque essere posta in discussione. Se il diniego statutario, ufficialmente consacrato, del diritto di partecipare alla storia è ciò che caratterizza la situazione di schiavitù, possiamo dire che l’Europa dell’est subisce una schiavitù politica. Non si tratta soltanto di una situazione di oppressione, si tratta di uno statuto internazionale diminuito. Il 13 dicembre 1981 abbiamo visto così il generale Jaruzelski invocare la situazione geografica, geopolitica del suo paese per fondare la sua azione e l’irreversibilità del suo «socialismo». Lo stesso Pinochet si giustifica in teoria dicendosi intenzionato a rendere un giorno la parola al popolo, non appena il Cile sarà (finalmente!) nelle condizioni richieste per l’esercizio della democrazia. Che questi discorsi siano pura ipocrisia è evidente: ciò non toglie che denuncino la precarietà della situazione del dittatore cileno nell’attuale contesto internazionale, mentre il modo di parlare del generale Jaruzelski mostra, al contrario, che egli si riferisce a un ordine in cui è legittimo che i polacchi non possano autodeterminarsi.

Celebreremo quest’anno l’insurrezione di Varsavia del 1° agosto 1944. Sarà, giova saperlo, l’occasione per riflettere sugli scandalosi paradossi del nostro continente. L’Armata rossa lasciò infatti che la resistenza polacca fosse schiacciata (300.000 morti) perché si appellava al governo di Londra e non al «Comitato di Lublino» creato da Stalin. I governi occidentali tollerarono ciò nella misura in cui avevano ammesso (Roosevelt, Churchill) che nell’Europa dell’est i governi dovessero avere verso l’Urss un «atteggiamento amichevole». In quell’epoca, essi speravano vagamente che tale esigenza fosse compatibile con il pluralismo politico; il seguito degli avvenimenti ha dimostrato che così non era. Ogni volta che in quella regione i diritti dei popoli e il sistema internazionale sono apparsi in contraddizione, è il sistema internazionale che si è voluto preservare. Il ricordo dell’agosto ’44 a Varsavia mostra come per fino nel mezzo di una guerra il cui obiettivo proclamato era la liberazione dell’Europa, si siano fatte, a danno di certi popoli, delle eccezioni che persistono a tutt’oggi. Certo, il 1945 ha lasciato ben altre zone di non-libertà che non l’Europa dell’est, ma poi la contraddizione massiccia tra i principi invocati dagli alleati e lo stato del mondo rappresentato dalla colonizzazione, è stata eliminata. E se si può dire che in Grecia gli anglo-americani si sono comportati nel 1944 un po’ come i russi in Polonia, la normalità democratica è stata ristabilita ad Atene (così come a Madrid e a Lisbona), mentre lo statuto dell’Europa dell’est non è mutato.

Questa stabilità dell’impero sovietico riflette in particolare la situazione strategica: l’Urss ha saputo imporre l’idea che il cambiamento di campo di una democrazia popolare sarebbe un casus belli. Lo statu quo europeo non è neppure stato minacciato dalla guerra fredda. Foster Dulles è rimasto senza reazione davanti all’intervento sovietico a Budapest, contro un governo indipendente e legalmente costituito, come lo era stato nel ’53 a Berlino di fronte a una repressione condotta in una città di statuto internazionale, e così pure Kennedy nell’agosto ’61 nel momento in cui la Rdt costruiva il muro di Berlino.

L’ambiguità della distensione

La distensione subentrata d’altra parte dopo la normalizzazione della Cecoslovacchia (Brandt e Kissinger sono in funzione il primo tra il 1969 e il 1974, il secondo dal 1969 al 1976) fu il secondo metodo per modificare la situazione: il cambiamento attraverso l’avvicinamento culturale, diplomatico, commerciale. In un certo modo questa politica culminò nel 1975 con la firma degli accordi di Helsinki. In tali accordi, infatti, il riconoscimento delle frontiere uscite dalla guerra si accompagna alla proclamazione di alcuni principi il cui rispetto, si dice, assicurerà la pace in Europa; tra tali principi, in particolare, il diritto dei popoli a disporre di se stessi. L’equilibrio che gli accordi di Helsinki presentano è teoricamente soddisfacente: essi pongono fine ai timori che l’Urss, la Polonia o la Cecoslovacchia potrebbero nutrire nei con fronti di un irredentismo tedesco; affermano che i principi di libertà valgono per tutta l’Europa; offrono infine alle società dell’Europa dell’est un quadro entro cui esprimere la loro autonomia di fronte agli Stati totalitari. Nello stesso momento alcuni Stati dell’est (Ungheria, Polonia, Romania, Rdt) si indebitano considerevolmente presso banche e Stati occidentali, e questo fatto nei periodi in cui si negoziano dei prestiti – diminuisce l’intensità della repressione: il Kor (fondato nel 1976), la Carta 77, il Comitato Sacharov beneficeranno incontestabilmente di tale congiuntura. Possiamo dire tuttavia che, globalmente, la distensione – idea comune a tanti uomini di Stato (Mac Millan, de Gaulle, Kissinger, Brandt, Schmidt…) – ha mancato lo scopo, almeno per quanto riguarda la difesa delle libertà all’est. L’esito della crisi polacca ha dimostrato la capacità dei regimi d’impianto totalitario di resistere a una sia pur enorme pressione sociale. L’assenza di prospettiva politica, la repressione non sempre brutale ma tenace, hanno ridotto in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Urss l’influenza della «dissidenza» intellettuale. Gli accordi di Helsinki non hanno dato in definitiva quanto ci si poteva attendere; i governi comunisti (lo si è visto in occasione delle conferenze di Belgrado e di Madrid) sono riusciti a ridurre alla stregua di voti inefficaci, e perciò ridicoli, gli appelli ai principi liberali, opponendo a ogni protesta la sacrosanta regola del non-intervento. E lo hanno fatto tanto più efficacemente in quanto i governi occidentali non hanno mai avuto alcuna strategia di applicazione degli accordi di Helsinki.

È palese dunque l’ambiguità della distensione. In partenza c’è la ragionevole intenzione 1) di ridurre i pericoli di guerra, 2) di esercitare un’influenza moderatrice e riformatrice sui regimi dell’est. Praticamente, il desiderio di cambiare le cose rischia fortemente di smussarsi sul l’imperturbabile resistenza dei regimi e si continuerà a parlare di distensione per designare una codarda accettazione delle cose come stanno.

La Ostpolitik tedesca ha seguito incontestabilmente un’evoluzione in questo senso. Si è passati da una distensione-speranza a una distensione-rassegnazione.

Gli immobilismi e a volte le perversioni della distensione dopo le impasses della guerra fredda stanno a indicare la difficoltà di articolare nei confronti del blocco sovietico una politica abbastanza aperta da permettere di esercitare un’influenza, e abbastanza ferma per esercitare una pressione. Il non aver trovato un tale equilibrio, ha avuto gravi conseguenze sull’opinione pubblica occidentale. La posizione di guerra fredda (provocante ma inefficace) che l’America è tornata ad assumere, spinge infatti molte persone (soprattutto in Europa) a praticare un simmetrismo artificiale tra le due oppressioni; l’esame delle situazioni dovrebbe sconsigliare un tale atteggiamento, ma linguaggi tipo quelli di Reagan o di Kirkpatrick gli danno consistenza. In Europa, per contro, la distensione-rassegnazione abitua molto semplicemente l’opinione pubblica a non porsi il problema della libertà all’est, ad appagarsi di speranze non ragionate, e a indignarsi pertanto di ogni richiamo alla realtà, come di una minaccia contro la pace. È così che una buona parte dell’opinione pubblica tedesca drogata da una distensione senza prospettive è arrivata al punto di considerare Solidarnosc come un movimento avventurista e di nascondere la testa nella sabbia quando si è voluto mostrarle gli SS20.

Dispute strategiche e impasse politica

È dunque evidente che riflettere sulle possibilità della libertà in Europa vuol dire riflettere in particolare sui mezzi di pressione di cui disponiamo per promuoverla, specialmente sui mezzi militari, sul loro volume, la loro natura, il loro possibile impiego. Vuol dire insomma riflettere sulla crisi strategica che l’alleanza atlantica sta attraversando, soprattutto nelle sue componenti europee. Infatti la crisi della distensione, consacrata dalle vicende polacche, si accompagna a una crisi della dissuasione. Da un lato gli occidentali si accorgono che il loro schema di azione nei riguardi dell’Europa dell’est è inoperante, e che di fronte al richiudersi di un immenso movimento sindacale e nazionale essi non hanno alcun efficace mezzo di intervento. D’altro lato, l’evoluzione delle tecniche militari provoca tra i popoli e i governi occidentali divergenze di posizioni difficili da superare. Di qui un senso d’impotenza e il diffondersi di atteggiamenti di rinuncia testimoniati a mio avviso dai movimenti pacifisti: si preferisce saltar fuori (o immaginarsi di saltar fuori) da una realtà troppo difficile da controllare, l’attivismo si dispiega in una cornice apocalittica e utopica, i riferimenti non sono più il presente e l’impegno di modificarlo, ma sono da un canto la catastrofe irrimediabile inscritta nel presente e dall’altro l’utopia di un mondo riconciliato. In un quadro siffatto, non si cerca più di progredire da una situazione brutta a una meno brutta con un’azione paziente, consapevole e rischiosa, ma ci s’immagina di fare un salto dal mondo del peccato al mondo della salvezza grazie a un mutamento radicale di atteggiamento. L’insufficienza dei sistemi di azione predicati dai governi provoca, si può dire, un ritorno del magico nell’ordine del politico.

Prima di parlare della possibilità di una linea d’azione rispondente alle esigenze attuali, è dunque necessario che parliamo della crisi strategica occidentale e dei suoi effetti.

La difesa dell’Europa e il ruolo degli americani

La strategia di difesa dell’Europa poggia da trent’anni a questa parte sulla dissuasione atomica americana, ritenuta in grado di garantire la protezione contro eventuali attacchi sovietici. Secondo lo schema tradizionale, risposte massicce contro il territorio (le città) dell’Urss sarebbero possibili in caso di attacco serio contro l’Europa, e quindi in primo luogo contro la Germania. Ma a partire dal momento in cui le stesse città americane possono essere distrutte dall’Unione sovietica, questa garanzia americana perde molto del suo valore. Fin dagli anni cinquanta (Nuclear Weapons and Foreign Policy, 1957), Henry Kissinger ha messo in dubbio che si possa mai trovare un presidente degli Stati uniti disposto ad accettare che sia distrutta Chicago per proteggere Parigi. È noto che a Bruxelles nel 1979 Kissinger ha ripetuto questo avverti mento agli europei: non chiedete agli americani garanzie che non possono darvi. La teoria strategica francese a partire dalla fine degli anni cinquanta ha preso come punto di partenza la medesima consapevolezza: la dissuasione, in quanto implica che i paesi che la esercitano debbano affrontare dei rischi vitali, determina una tendenza al ciascuno per sé, e i paesi dell’Europa non possono continuare a far finta di credersi uno degli Stati della Repubblica americana. La dottrina strategica della Nato ha cercato di fronteggiare tali obiezioni, di mantenere la «dissuasione allargata», mediante la «risposta graduata», indicando una scala delle sanzioni contro l’aggressore. Diventando meno massiccia, la risposta diventa più credibile. Il moltiplicarsi delle armi atomiche tattiche (6 o 7.000) sul suolo della Rft materializza questa dissuasione locale (e non più globale) che ha anche il vantaggio, di fronte alla superiorità del Patto di Varsavia in armi classiche, di permettere una difesa del l’Europa a minor costo (decisione della Nato a Lisbona nel 1953). Ma questa dissuasione, per così dire, «al dettaglio», fa scoppiare una divergenza euro-americana insormontabile. Schematicamente possiamo dire che gli europei hanno interesse à sostenere, per incredibile che sia diventata, la teoria della dissuasione globale poiché questa garantisce la pace in Europa a prezzo di una minaccia di guerra tra i due grandi. In questo schema, gli europei non sono minacciati più degli americani, e il fatto che ogni guerra per l’Europa metterebbe in causa i «santuari» russi e americani rappresenta una garanzia che rende più debole l’eventualità di una guerra. Il pericolo evidentemente è che, implicati al di là del ragionevole, venuto il momento gli americani non mantengano i loro impegni. Ma non si arriverà probabilmente mai a questo punto e nel frattempo, per coloro che vogliono credere alla dedizione illimitata, sovrumana, che essi esigono dagli Stati uniti, la situazione è delle più confortevoli. La «risposta graduata», al contrario, se è più credibile perché meno apocalittica, appare necessariamente più pericolosa, meno rassicurante per quelli che essa deve proteggere. E questa infatti la contraddizione insanabile della dissuasione: diminuire il livello della minaccia vuol dire aumentare le probabilità della sua eventuale esecuzione, e quindi aumentare l’effetto dissuasivo contro l’avversario, ma nello stesso tempo vuol dire, necessariamente, accrescere le inquietudini di quelli che si vogliono difendere e che vedono con spavento avvicinarsi la possibilità di una guerra nucleare limitata. Tra un’apocalisse improbabile e inconcepibile e un pericolo minore ma più prossimo, l’opinione della gente tende a preferire, o perlomeno a sopportare meglio, la prima eventualità.

L’atteggiamento dell’Urss e la risposta europea

Il «malinteso transatlantico» insomma la contraddizione stessa della dissuasione, ma aggravata da elementi geografici, resa più visibile dalla differenza di situazione tra europei e americani. Questo «malinteso», sfruttato dall’Urss, è sboccato nella crisi degli SS20 e dei Pershing II. E infatti, dal momento che la teoria della risposta graduata consacrava un «disaccopiamento», una soluzione di continuità tra la difesa del l’Europa e quella degli Usa, dal momento che essa distingueva uno spazio strategico europeo, perché l’Urss non avrebbe dovuto cercare di imporre la propria superiorità militare in tale spazio? Senza entrare nel dettaglio del dibattito sugli euromissili, è evidente che con gli SS20 l’Urss «copre» un territorio di un’importanza cruciale in cui non si trova alcun ordigno (tranne gli assai vulnerabili 18 missili francesi del Plateau d’Albion) in grado di raggiungere il territorio russo. La presenza di sottomarini della Nato equipaggiati di missili non compensa questa disparità, dato che questi armamenti non si trovano sul suolo dell’Europa e dato che il loro impiego farebbe passare il confronto a un livello superiore. In realtà, la crisi dei missili ha giocato un ruolo rivelatore della situazione strategica dell’Europa rendendo evidenti:

1) Le intenzioni egemoniche dell’Urss, intenzioni ben più politiche che militari. In effetti il modo di procedere dell’Urss, dall’est all’ovest, è sempre lo stesso: creare una situazione di forza e poi farla accettare, farla interiorizzare dagli uomini politici e dalle popolazioni – in nome della «pace», di una nozione immorale della pace fondata sullo sfruttamento della paura. Questo «realismo», sola base di «legittimità» di Jaruzelski, Husak e co., è ciò di cui si vuol fare la regola implicita dell’ordine europeo, contrariamente al diritto che hanno i popoli di disporre di se stessi. È significativo che Gromiko proponga la firma di un trattato di non-aggressione tra Stati europei. Questo trattato non porterebbe niente di nuovo, ma in definitiva cancellerebbe quello di Helsinki e i principi, in esso contenuti, che costituiscono una minaccia per l’ordine est-europeo. Ciò non significa che l’Urss progetti di mettere le mani sull’Europa dell’ovest: il suo intento è piuttosto quello di consolidare un dominio non molto solido all’est. Interiorizzare la superiorità strategica continentale dell’Urss significherebbe per noi ammettere «l’irreversibilità» del «socialismo» di stampo sovietico; se i regimi dell’est ottenessero questo tipo di riconoscimento, le dissidenze interne ovviamente verrebbero a essere ben più difficili.

2) La disarmonia euro-americana sul piano strategico, disarmonia a cui si sottrae la sola Francia, nella misura in cui a partire dal generale de Gaulle i suoi governi hanno affrontato le contraddizioni e, soddisfacenti o meno, hanno cercato delle risposte, mentre le reazioni tedesche, ad esempio, sembrano in buona parte dettate da una fiducia attualmente delusa per essere stata un tempo troppo completa. Questa dicotomia ha delle cause tecniche: una cattiva ripartizione delle responsabilità che suscita accondiscendenza o disprezzo da parte americana, rancore da parte degli europei. Solo se gli europei si assumono maggiori responsabilità e concertano tra loro un’intesa, si potrà portare a ciò un rimedio. Ma essa ha anche delle cause politiche e morali: la mancanza di un progetto comune degli occidentali nei riguardi dell’Europa dell’est.

3) Quest’assenza di una strategia credibile (non soltanto militare ma anche politica, economica, culturale) dell’Europa dell’ovest in direzione dell’Europa dell’est (mentre non è vero l’inverso) ci mette in una situazione di inferiorità. Dal momento che non sembra credere veramente alla possibilità di estendere i suoi principi, neppure sul continente, l’Europa dell’ovest si trova a essere sulla difensiva e potenzialmente in posizione di perdente.

Mi sembra che nel loro insieme questi tre fattori spieghino lo svilupparsi, in Europa come negli Stati uniti, di correnti pacifiste che, fondamentalmente, esprimono un isolazionismo, un nazionalismo che si ripiega su se stesso. In assenza di una causa sufficientemente chiara, e in mancanza di un’equa ripartizione delle responsabilità, ciascuno si chiude in se stesso e cerca una «nicchia» onde sottrarsi alla storia.

La falsa alternativa del nucleare

Di fronte a tale situazione, vorremmo indicare brevemente i principi di un atteggiamento che non sia né abdicazione della ragione, né abdicazione della morale, e men che meno abdicazione di entrambe. Possiamo cominciare a caratterizzarla descrivendo, a titolo di contrasto, due posizioni che hanno in comune la proprietà di evitare la complessità del problema riducendolo a un dilemma tecnico, a sua volta ipersemplificato: pro o contro il nucleare.

1) La prima possiamo chiamarla paradossalmente pacifismo nucleare. L’arma atomica è vista in questo caso come una sorta di talismano: portandola su di sé, si sarebbe automaticamente preservati dalla guerra. La dissuasione sarebbe un effetto garantito da questo oggetto-miracolo. Perciò, più nessun bisogno di riflettere sulle sue possibilità e condizioni d’impiego. Si danno diverse forme di questo atteggiamento: prima la dissuasione degli anni cinquanta e sessanta, poi un certo modo ingenuo di giustificare la dissuasione francese con la teoria della «santuarizzazione», la quale evita di chiedersi che cosa ne sarebbe della libertà e dell’indipendenza della Francia se i suoi vicini perdessero le loro. Alla stessa categoria appartengono anche certe opinioni a cui conduce la recente dichiarazione dei vescovi americani. Questa dichiara zione che esclude tanto la dissuasione che l’impiego, sia pur limitato, delle armi nucleari, non ne condanna tuttavia il possesso. Si potrebbe possedere l’arma nucleare e dire che non la si impiegherà, così i russi saranno ugualmente dissuasi: con la loro ben nota diffidenza non ci crederanno e si terranno tranquilli. Un tale gesuitismo avrebbe ispirato Pascal! Come essere protetti dalla bomba conservando la coscienza pulita? Risposta: averla e non pensarci.

2) L’aberrazione simmetrica mi sembra essere il pacifismo antinucleare. Per questo come per il precedente, è la tecnica che determina tutto. Ma questa volta anziché essere garanzia di salvezza, essa appare diabolica, chiunque vi mette mano è condannato, quali che siano le circostanze in cui si trova e le condizioni nelle quali potrebbe considerare di farne uso (o di minacciare di farne uso). L’atomo non più come talismano ma come capro espiatorio.

In entrambi i casi, l’ossessione atomica fa sì che ci si ponga come fuori dalla storia, che si dimentichino le poste in gioco politiche, culturali, morali, per non vedere null’altro all’infuori della protezione o della maledizione che l’arma atomica porterebbe con sé. Due forme di abdicazione della ragione.

Contro l’abdicazione della ragione

Un atteggiamento sensato ma non rassegnato non può che essere più complesso, e combinare ostinatamente principi complementari.

1) Accettare l’esigenza della difesa. Non vediamo nulla che possa dispensarcene. Il consiglio evangelico di rinunciare ai propri diritti, di porgere la guancia sinistra non toglie che si debbano proteggere la vita e la libertà altrui laddove siano ingiustamente aggredite. Quanto alla non-violenza, è una tecnica valida solo nel caso in cui l’avversario sia obbligato da certi principi o a causa delle sue proprie convinzioni, o a causa delle pressioni che l’ambiente esercita su di lui. Si è spesso fatta confusione tra la disobbedienza civica con la quale, a partire da Thoreau, il cittadino di uno Stato si appella a delle leggi più alte di quelle di qualsiasi Stato, e la non-violenza che pensa di sostituire i mezzi militari nei rapporti tra nazioni. Vuol dire dimenticare che la prima si richiama a una comunanza di valori (che a volte s’incarnano nell’opinione pubblica) tra l’autorità e il cittadino, mentre nelle relazioni internazionali né la possibile violenza, né il livello dei conflitti di valori sono a priori limitati.

Questo non vuol dire che la guerra non conosca leggi e non debba essere quanto più possibile limitata nella sua violenza. Ma vuol dire che non è possibile rinunciare unilateralmente a un’arma decisiva. Sarebbe infatti come rinunciare a qualsiasi efficace difesa di fronte a un avversario che da parte sua invece non abbia rinunciato ai mezzi estremi. Così stanno evidentemente le cose allorché si tratta dell’arma atomica e come avversario si ha di fronte un regime totalitario.

Si pretende che il dovere dell’autodifesa abbia perso il suo valore da che esistono le armi nucleari, il cui impiego equivarrebbe a distruggere la nazione per difenderla. In effetti, è possibile che in questa o quella circostanza sia meglio capitolare piuttosto che lanciare la bomba. Bisogna però almeno conservare la facoltà di scegliere, tra l’oppressione e la morte, per esempio. Una cosa è scegliere in ciascun momento il minore dei mali, altro è rinunciare in anticipo a determinati mezzi anche se è doveroso fare tutto il possibile perché l’eventualità di lanciare la bomba non si verifichi. Si può trovare questo ragionamento spaventoso, e lo è infatti, ma fino a tanto che l’atomo militare fa parte del nostro mondo, non si scappa a questa scelta: o rinunciare a difendersi, o accettare la possibilità di servirsene. Coloro che vogliono sottrarsi al dilemma, in ultima analisi sono indotti a contare sulla forza atomica di un altro paese per impedire che li si minacci, loro che sono disarmati, con quel tipo di armi, a meno che non facciano ricorso alle abilità casistiche del Padre Wisters.

D’altra parte non va dimenticato che parallelamente all’incremento della capacità distruttiva delle armi, aumentano con lo stesso ritmo i rischi a cui si va incontro a non disporne. Con l’atomo, la partita è la stessa di prima ma le sue proporzioni sono maggiori di prima. Aumenta il rischio, aumenta la posta in gioco. Una guerra nucleare è molto peggio di una guerra classica, ma un’oppressione che fa leva sul nucleare è meno facile da rovesciare di un’oppressione che si affidi a un fucile; soprattutto, ricordiamolo, quando in mancanza di un’opinione pubblica attiva la libertà d’azione dell’oppressore è totale.

2) Così stando le cose, è tanto più urgente organizzarsi per evitare di dover giungere alle decisioni estreme, che tuttavia devono pur essere prese in considerazione. L’evoluzione delle tecniche militari su questo punto non è necessariamente sfavorevole. La precisione dei missili, in particolare, comporta la diminuzione della potenza esplosiva delle cariche e quella degli «effetti collaterali». Conseguenza acquisita: dal 1960 la potenza globale delle cariche atomiche militari (ossia di «megatoni») è diminuita del 50% nel mondo, nonostante l’aumento di numero delle testate nucleari. Conseguenza prevedibile: la sostituzione per certi impieghi militari di esplosivi classici in luogo degli esplosivi atomici. È certo che la differenza tra le armi classiche e le armi nucleari tenderà a scomparire, che da una parte l’arma nucleare diventerà sempre più un’arma «antiforze» e che dall’altra le armi classiche potranno sostituire molte delle armi atomiche tattiche attualmente dislocate in Germania, paese che si ritiene esse possano difendere a prezzo della sua rovina (diverso è il caso dei Pershing II puntati sull’Urss). In tali condizioni, anziché mettere globalmente sotto accusa l’atomo, occorre imparare a distinguere tra i sistemi di armi secondo i loro effetti, e anche secondo le loro condizioni di impiego. La lettera dei vescovi americani offre un esempio di queste necessarie discriminazioni quando condanna particolarmente le armi vulnerabili a un attacco del nemico, armi che, conseguentemente, si avrà la tendenza a lanciare preventivamente; queste armi (si tratta dei missili al suolo) costituiscono un pericolo di escalation per il fatto stesso di esistere. Il meno che si possa dire è che l’opinione pubblica deve interrogare i governi e gli stati-maggiori sulle regole d’impiego di tali armamenti, e più in generale sulle teorie di difesa elaborate. Da questo punto di vista i «movimenti per la pace» potrebbero giocare un ruolo utile, a condizione di non lasciarsi trascinare dalla logica sentimentale secondo cui sono le armi a causare la guerra; a condizione, al contrario, di mantenersi nel quadro ispirato all’obbligo di difendersi e di osservare un modo di procedere rigoroso.

Contro l’abdicazione della morale

3) Avere una strategia di promozione della libertà in Europa. Le democrazie non possono essere pensate negativamente come un «campo» trincerato da difendere, ma vanno viste come un’esigenza universale. Il loro orizzonte dev’essere la fine del totalitarismo. Siccome però non possono raggiungere tale obiettivo con la forza, e non essendo ciò neppure auspicabile nella misura in cui danni sarebbero immensi, esse devono avere una strategia d’influenza. Ciò suppone innanzitutto che esse resistano alla neutralizzazione politica che l’Urss cerca evidentemente di imporre loro, in particolare facendo leva sulla propria superiorità militare. Ma ciò non basta. Il metodo che è stato delineato a Helsinki dev’essere portato avanti e approfondito: apertura alle società e anche agli Stati dell’est ma nel quadro di una difesa dei princìpi di libertà che ci appartengono. I rapporti con l’est non possono essere che ambigui. L’Urss è evidentemente disposta a favorire gli interessi particolari o l’amor proprio dei governanti, degli uomini d’affari, studiosi e scrittori dell’occidente per ottenere che essi dimentichino la solidarietà coi popoli dell’est. Il nostro dovere è invece quello di agire, di sacrificare un po’ di denaro o di vanagloria affinché come contropartita di prestiti o di collaborazione tecnica o culturale con l’est si possa ottenere una maggior protezione di coloro che quei regimi tendono a emarginare o a reprimere. Talune istituzioni, specialmente intellettuali, hanno saputo fare questo gioco. Il quale potrà essere generalizzato e reso più efficace solo a patto che gli occidentali definiscano una deontologia comune dei rapporti con l’est. Sarebbe un elemento essenziale di una distensione attiva, in opposizione a quella distensione-rassegnazione che è la nostra sola carta. Gli accordi di Helsinki hanno fissato un quadro valido: si tratta ora per l’occidente di procurarsi i mezzi per farli applicare. La strategia dell’Urss è di costringere gli occidentali a scegliere tra due ordini di valori di cui non ci è possibile rinnegare né l’uno né l’altro: l’ordine della pace e del rispetto della vita da un lato, l’ordine della libertà dall’altro. Si tratta in ultima analisi di metterci in contraddizione con noi stessi. Ecco qual è la nostra risposta a tale manovra:

1) rifiutare di mettere la libertà al di sotto della vita: non si dà vita umana senza libertà;

2) articolare questi due ordini di valori in un progetto coerente. Il che suppone che per quanto ci riguarda, rifiutando l’illusione e il panico, si sappia praticare al tempo stesso lo stoicismo e la speranza.

In questa faccenda, dimissioni della ragione e dimissioni della morale vanno di pari passo. La prima immoralità è quella di fuggirsene fuori dalla realtà, di immaginarsi per idealismo che il mondo non aspetti altro che l’espressione dei nostri desideri per conformarvisi. Contro questa hybris così diffusa citerò, per finire, le parole di. Péguy: «Noi non siamo degli déi che creino dei mondi, è più che sufficiente volerne essere i medici».