Fermare la guerra oggi per abolirla domani

Davanti alla tragedia impensata della guerra infraeuropea tra Russia e Ucraina vengono in mente, con un impotente sentimento di sgomento, i versi di Quasimodo: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo».

Nello svolgersi degli eventi, un repentino e travolgente universo di pensiero si è imposto tra di noi ed ha progressivamente sovrapposto sul senso morale di doveroso soccorso per il colpito e di aiuto umanitario all’aggredito, ha sovrapposto, dicevo, un impulso politico di schieramento dalla parte dell’aggredito per fermare l’aggressore. Il risultato di fatto è che la situazione si è evoluta e alla guerra infraeuropea cruenta e calda (e sempre più imbarbaritasi) si è collegata una guerra fredda attiva di molti paesi di area Nato, Italia inclusa. Non una guerra fredda passiva, ma una guerra fredda attiva, che vuole colpire l’aggressore e vincere la guerra che l’aggressore, aggredendo, ha dichiarato.

Siamo quindi in un momento storico di guerra pluridimensionale, in cui da Italiani ci troviamo coinvolti come belligeranti. Non propriamente o non soltanto una terza guerra mondiale “a pezzetti”, ma una terza guerra mondiale a più piani. In questo contesto la riflessione, le valutazioni e i giudizi sono, da una parte, intellettualmente obbligati (cioè non ci si può sottrarre a questo compito) e, dall’altra, anche riuscendo a far tacere l’emotività e l’indignazione verso una tale aggressione, comunque difficili, perché non si è sempre sicuri delle informazioni disponibili sui fatti reali (nonostante l’eroismo di tanti giornalisti). Siamo pertanto consapevoli che si tratta di riflessioni che si fondano su un terreno insicuro, accidentato e forse incerto: ma non ne abbiamo un altro.

1. In prima approssimazione, un modo adeguato per avviare la riflessione – come hanno fatto gli intellettuali più seri – può essere quello di prendere le mosse dalla stessa impostazione utilizzata da Max Weber per porre il problema del rapporto tra etica e politica (in un momento peraltro non facile per il suo paese, dopo la sconfitta bellica). Egli aveva allora distinto tra etica dei principi ed etica della responsabilità.

L’etica dei principi ci richiama, appunto, ai principi etici di fondo, che definiscono la nostra stessa identità – personale, collettiva, di civiltà – e ai quali non possiamo rinunciare, pena perdere l’anima, minare e distruggere noi stessi, appunto nella nostra identità essenziale. Questa etica si confronta con il male metafisico o – se si vuole – mira al bene ideale. Forma la nostra coscienza e ci orienta nel dovere di agire nel modo giusto, di fuggire il male e fare il bene. Secondo questa etica, la guerra è sempre un crimine. E allora, quando il male ci aggredisce con la violenza bellica, come dobbiamo reagire? A mio avviso – sia che siamo cristiani, e questa è anche la mia posizione, sia che abbiamo un’etica di cristianesimo laicizzato e secolarizzato – le possibilità sono tre: la prima è quella della non resistenza al male (se uno ti percuote su una guancia, porgi anche l’altra), potremmo dire è la “forma russa” (perché ha avuto la sua formulazione contemporanea in Tolstoj); la seconda è quella della resistenza al male, ma senza violenza, non in modo armato e cruento, è la forma della resistenza popolare nonviolenta, è la “forma indiana” (perché fu quella di Gandhi); la terza è quella della resistenza armata al male, ma per raggiungere il bene anche di chi ti fa il male, è quella di chi combatte non per sopraffare ma per eliminare la guerra stessa, e perciò si pone il problema della “proporzionalità”, di evitare aggressioni che possano produrre reazioni gravi sulle popolazioni civili, di agire non sempre e comunque, ma nella misura in cui può prevedere un risultato positivo, è la “forma italiana” (dei partigiani cattolici, i ribelli per amore: Teresio Olivelli, Giuseppe Dossetti, Enrico Mattei). Fra le tre, quella indiana appare un giusto mezzo: la giustizia risponde al male con il bene, non con il male minore. Come diceva Mazzolari: «Se mi oppongo con la violenza alla violenza, alla forza con la forza, all’odio con l’odio: se uccido chi tenta d’uccidermi, se faccio guerra alla guerra con la guerra, pur conservandone il nome, la resistenza perde molto del suo vero ed alto significato umano». E, per questo, tale forma è quella che personalmente mi appare preferibile, ma nel rispetto di chi si orienta invece verso le altre. Naturalmente questa scelta è esigente sul piano personale: assume come possibile la necessità della testimonianza estrema (o, in termini cristiani, del martirio): come Girolamo Savonarola o Tommaso Moro o i giovani della Rosa Bianca.

A fronte dell’etica dei principi, l’etica della responsabilità ci richiama alla doverosità del contenimento del male radicale (il male cioè che ha la sua radice nella stessa natura umana), in vista quindi non del bene ideale ma del maggior bene reale possibile, considerando l’insieme delle conseguenze dei comportamenti, per quanto siano prevedibili. La guerra appare come una catastrofe, nel senso di una sventura naturale (come un terremoto o un’inondazione: perché naturale è il male radicale). E allora in quest’ambito non si tratta di assumere la logica amico/nemico, ma di comportarsi immaginando che l’aggressore assuma la logica amico/nemico. Sarebbe bello che l’aggressore fosse sensibile all’ingiustizia; sarebbe bello se il suo cuore fosse ferito dalle sofferenze inferte e se la sua coscienza fosse smossa dalla resistenza nonviolenta: ma saremmo irresponsabili se programmassimo i nostri comportamenti assumendo la probabilità di orizzonti così ottimistici. No, ci vuole un pessimismo postulatorio. È quello che si chiama “realismo”. E dunque, realisticamente, se il fine è il contenimento del male, il fine giustifica i mezzi. È l’etica di Machiavelli. Si tratta, ripeto, non di mancanza di etica, ma di relativizzazione dell’etica dei principi (in qualsiasi forma si ponga) per un’etica della responsabilità: resistenza al male, come guerra al malvagio; risposta all’aggressione bellica, con la guerra. Perché chi vuole affermare le sue ragioni con la forza, può esser fatto ragionare solo con la forza: è l’unico linguaggio che capisce. Dunque, rispondere alla guerra aggressiva con la guerra è giusto: la difesa giustifica la guerra, si tratta di guerra giusta. È una risposta etica della quale l’aggredito ha diritto e della quale gli altri, che assistono all’aggressione, hanno il dovere, se non vogliono sottrarsi alle loro responsabilità.

2. Gli eventi in corso sono andati in questo senso dell’etica della responsabilità. E siamo alla guerra pluridimensionale. Possiamo chiederci come mai – pur non in presenza di leadership e di maggioranze sovraniste nei principali Paesi della Nato – si sia andati quasi automaticamente in tale direzione, nei vertici e nelle opinioni pubbliche. Probabilmente ha avuto un ruolo forte il pervasivo neo-liberalismo che ha egemonizzato l’orizzonte ideologico dopo la guerra fredda e che, portando a sagomare i rapporti internazionali su paradigmi di origine individualistica, fa scattare il sentimento della legittima difesa: se qualcuno entra armato a casa mia, mi devo difendere. Altre realtà, peraltro, hanno fatto da freno, sia pure minoritario. C’è stato il liberismo (incluso nel neo-liberalismo) che, avendo incentivato una generale globalizzazione economica, resiste al suo smantellamento totale o, più precisamente, spinge verso una gradualità in tale eventuale smantellamento. Soprattutto, sul piano religioso e morale, c’è stata la voce autorevole del pontefice della Chiesa cattolica Francesco. Vedendo la deriva del patriarca di tutte le Russie Kirill (lo stesso che ha fatto fallire il Concilio panortodosso: un’occasione storica, lungamente preparata), si capisce quanto sia stato importante che – già con Ratzinger ed ora, in modo limpido, con Bergoglio – i pontefici romani abbiano resistito alle sirene laiche o ateo-devote di chi li voleva cappellani delle armate dell’Occidente. Ovviamente queste posizioni laiche, ancora presenti, o cercano di neutralizzare e marginalizzare il magistero papale rubricandolo come ovvia voce dell’etica dei principi (cos’altro potrebbe dire un papa?) o, perfino, lo accusano di irresponsabilità (appunto secondo la sopracitata etica della responsabilità) e gli fanno la lezione.

Senonché lo stesso Weber affermava che l’etica dei principi e l’etica della responsabilità non costituiscono due poli opposti in modo assoluto, ma sono due elementi che si devono completare a vicenda. Ma come? Non c’è una risposta convincente: l’impostazione binaria di Weber ci porta al dilemma insuperabile. A meno, ovviamente, di postulare che l’etica della responsabilità deve sempre prevalere sull’etica dei principi: ma da quale punto di vista si può affermare questo? Solo se già si assume come prioritaria l’etica della responsabilità (dunque con una petizione di principio).

È forse vero che l’etica dei principi senza etica della responsabilità conduce all’impotenza assoluta, inerme, imbelle, che non fa nulla per chi intanto subisce violenze, crimini efferati, uccisioni e stragi. È sicuramente vero che l’etica della responsabilità senza l’etica dei principi, cioè il realismo machiavellico puro e la pura logica amico/nemico conducono al volto demoniaco del potere.

3. Intanto, per portare avanti la riflessione, è necessario considerare le caratteristiche di fondo del contesto storico in cui ci troviamo. Non mi riferisco alle valutazioni complessive e globali dello scenario mondiale, con la considerazione di tutte le forze in campo e delle loro relative risorse (militari, economiche, energetiche, demografiche, culturali, comunicative, diplomatiche, politiche). Mi riferisco agli aspetti fondamentali di quello che possiamo chiamare “ordine mondiale”. E in questo senso allora due mi sembrano le riflessioni fondamentali.

A) La prima riflessione riguarda le caratteristiche dell’ordine mondiale nella sua “costituzione formale”, determinate dalla Seconda guerra mondiale e che permangono ancora. Ciò che era in gioco in tale conflitto non era un qualche ingrandimento territoriale: era in gioco il tipo di “ordine mondiale” che doveva prevalere.

Da una parte le potenze dell’Asse puntavano ad un ordine gerarchico fondato sugli «spazi vitali». Il Patto d’acciaio tra regime nazista e fascista diceva che i due totalitarismi erano «decisi a procedere, anche in avvenire, l’uno a fianco dell’altro e con le forze unite per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace. Su questa via indicata dalla storia, l’Italia e la Germania intendono, in mezzo ad un mondo inquieto ed in dissoluzione, adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea». Quindi la guerra era per dare alla Germania lo spazio vitale euroasiatico e all’Italia quello mediterraneo (riconoscendo agli Anglosassoni il loro spazio atlantico): fondamenti della pace. Gli spazi vitali indicavano aree Imperiali, con Stati vassalli, che comunque riconoscevano una potenza egemone. Ogni area doveva poi avere – come area non come singolo Stato – un’indipendenza autarchica in termini di risorse (energetiche e di beni essenziali). Teorici nazionalsocialisti (come Schmitt, Hoehn, Steding) e fascisti (come Costamagna) approfondirono la struttura giuridica – secondo alcuni «etnarchica» e razziale – di questi spazi vitali imperiali.

Dall’altra parte, gli Alleati volevano un ordine mondiale egualitario. La Carta Atlantica (del 14 agosto 1941) impegnava Stati Uniti e Regno Unito: «1. I loro Paesi non aspirano a ingrandimenti territoriali o d’altro genere; 2. essi non desiderano mutamenti territoriali che non siano conformi al desiderio, liberamente espresso, dei popoli interessati; 3. essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale intendono vivere; e desiderano vedere restituiti i diritti sovrani di autogoverno a coloro che ne sono stati privati con la forza; 4. fermo restando il principio dovuto ai loro attuali impegni, essi cercheranno di far sì che tutti i paesi, grandi e piccoli, vincitori e vinti, abbiano accesso, in condizioni di parità, ai commerci e alle materie prime mondiali necessarie alla loro prosperità economica; 5. essi desiderano attuare fra tutti i popoli la più piena collaborazione nel campo economico, al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso economico e sicurezza sociale». Questi principi, dopo la vittoria degli Alleati, trovarono attuazione nello statuto dell’ONU (S. Francisco 26 giugno 1945). Certo, con gli accordi di Yalta furono definite delle sfere di influenza tra le Potenze vincitrici e da qui si giunse – con la guerra fredda – a due blocchi contrapposti, separati da cortine e da muri, ciascuno chiuso nella sua alleanza. Ma quest’ordine, se si vuole “imperiale”, era comunque “secondo”, subordinato (attraverso il “raccordo” dato dallo status di membri permanenti del Consiglio di sicurezza per le Potenze vincitrici) all’ordine principale realizzato con l’ONU.

Tale sistema è finito con il crollo dell’URSS e del suo impero. Si è avuto così un rovesciamento. Da allora, infatti, la logica “imperiale” nei rapporti tra Potenze (con nuovi protagonisti assoluti come la Cina) è diventata di fatto (per una sorta di “costituzione materiale” mondiale) superiore e l’ordine dell’ONU è stato reso subalterno.

B) La seconda riflessione riguarda la massa totale mondiale che hanno raggiunto le armi di distruzione di massa, batteriologiche e chimiche, ma soprattutto nucleari, insieme ai vettori missilistici abilitati a veicolarle. La gigantesca grandezza che ha assunto tale massa di armi annientatrici e il fatto che esse siano detenute non da uno solo ma da più Stati, ci porta alla ovvia conclusione che l’umanità ha la possibilità del proprio suicidio. Com’è noto, questa consapevolezza è venuta già da tempo, dalla seconda metà del Novecento. Allora, peraltro, vi erano discussioni sul “primo uso” (di tali armi) o sul “primo colpo”: poiché si può ipotizzare che chi prima usi, in modo generalizzato, armi nucleari abbia un vantaggio definitivo, si sono sviluppate dottrine militari che ipotizzavano come obbligato l’inizio stesso di un’eventuale guerra proprio con il “colpo” nucleare. Ma è pure chiaro che da allora si è attraversato un punto di non ritorno. È infatti evidente che la guerra mondiale che distrugge tutti gli esseri umani non ha senso e, pertanto, non può avere luogo. Si è determinato così – a livello di pensiero utilitaristico immediato (prima ancora che etico) – un limite intrascendibile. Non si può più pensare possibile una guerra mondiale. Ci si deve fermare prima: è una soglia ferrea, al di sotto della quale solamente è possibile ragionare e riflettere.

4. Riprendiamo il filo del discorso. Dove ci sta conducendo il pensiero binario (etica dei principi/etica della responsabilità)? Lo stiamo vedendo in questi giorni in cui – al netto della propaganda – tanto la Russia quanto i Paesi della Nato stanno esplicitando scelte sul futuro, chiaramente orientate da un’idea di ordine mondiale. È da notare che in nessun caso di tale ordine, come tale, si è discusso nei Parlamenti. Paradossalmente l’ordine che si intravede non è semplicemente quello dell’equilibrio tra grandi Potenze, senza (o anche con) l’ombrello ONU. Sembrerebbe, invece, quasi che si stia realizzando una vittoria postuma del nazifascismo, con una generale accettazione del suo modello di ordine mondiale (quello del Patto d’acciaio). La Russia si muove per difendere il suo spazio vitale (e satellizzare l’Ucraina o parte di essa), con una ideologia da nazionalismo slavo (e incontrando, forse sorprendentemente, una strenua resistenza degli ucraini, pure loro con un’ideologia da nazionalismo slavo). Putin dice di voler denazificare l’Ucraina, ma l’ordine mondiale che intravede è esso stesso nazificato. E tuttavia anche i Paesi della Nato stanno facendo evolvere i rapporti di alleanza difensiva in uno spazio vitale etnarchico, indipendente ed autarchico rispetto alla Russia. Si demonizzano gli accordi economici ed energetici fatti dai precedenti governi (in particolare di Germania e Italia) con la Russia: a me pare che quei governi avessero fatto benissimo a stringere rapporti. Se non ci fossero stati, la velocità dell’escalation bellica sarebbe stata molto maggiore. In ogni caso, cosa prefigurano oggi i governi di tanti Paesi Nato (compreso il governo Draghi)? Ergere muri, abbattere ponti. Costituire uno spazio vitale autarchico. Ovviamente si vuole la pace. Ma che vuol dire? Chi non vuole la pace? Anche il Patto d’Acciaio, come si è visto, voleva mantenere la pace. Ma un mondo strutturato per grandi aggregati tra loro isolati e, ovviamente, in un clima di costante sospetto e sfiducia sistematica reciproca significherebbe, con ogni evidenza, una pace pre-bellica e pro-bellica, che facilmente scivolerebbe, per sua logica intrinseca inarrestabile, verso il conflitto generale.

E tra l’altro oggi non manca neppure chi supera lo stesso tabù della guerra mondiale, ne ipotizza la possibilità e si riprende a ragionare di “primo uso” e di “primo colpo”. Si è trasceso l’intrascendibile.

A questo punto la situazione appare preoccupante sia per il conflitto infraeuropeo in corso (e che sempre più si imbarbarisce) sia e soprattutto per le prospettive post-belliche che si stanno costruendo e predeterminando. Ciò significa presumere quanto meno la possibilità che le riflessioni che ora si fanno possano essere le ultime dell’umanità. Purtroppo non ci può essere possibilità di controprova: quello che si può fare va fatto prima. Non possiamo dire: vediamo come va a finire e chi aveva ragione. Dopo il suicidio/omicidio dell’umanità c’è il silenzio della fine della specie umana. E nessuno potrà rivendicare di aver avuto ragione (o riconoscere di aver avuto torto).

In questo contesto, dunque, e nei suoi sviluppi in corso, è stupefacente e drammaticamente inadeguato – anche al netto di possibili grandi manovre riservate e segrete delle diplomazie – il vuoto di disegni democratici di alto profilo da parte dei governi dei Paesi Nato o almeno di quelli dell’Unione Europea. E sono stupefacenti e drammaticamente inadeguate le politiche che i leader dei grandi partiti democratici stanno proponendo (almeno in Italia).

5. Dobbiamo al più presto uscire dalla logica binaria (etica dei principi/etica della responsabilità) che ci riduce e appiattisce su dilemmi specifici: mandare le armi all’Ucraina o non mandarle? Rimandare in patria i diplomatici russi o non rimandarli? Interrompere subito l’acquisto di gas russo o non interromperlo? Una volta si sarebbe detto: l’asino di Buridano.

Ci vuole una logica ternaria, che provo a indicare sinteticamente. Intanto tutte tre le dimensioni (e non solo una) sono etiche di principio, ma i principi cambiano.

C’è l’essere ideale che guarda alla guerra come crimine assoluto (male metafisico) e vuole la nonviolenza, secondo un Principio-Speranza, ottimistico e massimalista. C’è l’essere reale che guarda alla guerra come catastrofe naturale (male radicale) e vuole un’azione realistica, tendenzialmente pessimistica e graduale, secondo un Principio-Responsabilità. Ma ci vuole anche – e questo è il punto – una terza dimensione, quella dell’essere morale, che guarda alla guerra come follia e che, di conseguenza, si impegna a portare l’essere reale sempre più verso l’essere ideale, secondo un Principio-Fraternità (che accoglie in sé sia il Principio-Speranza sia il Principio-Responsabilità).

Se adottiamo questa logica ternaria, con il suo primato del Principio-Fraternità, allora è chiaro l’impegno morale di tutti gli esseri umani raziocinanti di andare verso un ordine mondiale diverso da quello che si sta prefigurando.

Considerare realisticamente la debolezza dell’ONU, ma rilanciare l’idea di ordine mondiale democratico che sta all’origine dell’ONU (idea ben diversa dal solo protagonismo delle Grandi Potenze) e che è certo l’ordine preferibile. Costruire grande politica di conseguenza. Con un obiettivo ormai chiaro (e che ci è stato reso chiarissimo proprio da questa guerra pluridimensionale in corso, in cui siamo coinvolti): non la pace. Lo abbiamo detto: tutti, da sempre, vogliono la pace. Ma l’eliminazione totale della guerra. Abbiamo fissato dei Millennial Goals, abbiamo posto dei traguardi da raggiungere per salvare la biosfera bloccando il surriscaldamento globale (che, tra l’altro, tra ripresa di carbone e petrolio e nuove trivellazioni appare sempre più lontano). Ma il traguardo dei traguardi, l’obiettivo degli obiettivi, il più grande e più necessario è l’interdizione, l’eliminazione, la cancellazione definitiva e totale della guerra, come già aveva visto Luigi Sturzo, quasi un secolo fa.

E questo obiettivo primo deve innervare politiche internazionali e sovranazionali di tipo giuridico e istituzionale, costruendo progressivamente le proprie travature. Questo significa sostenere solo le scelte coerenti con quell’obiettivo: non aumento delle spese per le armi ma loro riduzione e progressivo disarmo e smilitarizzazione (a cominciare dal disarmo nucleare), crescita delle iniziative che favoriscono l’international understanding, aumento delle interdipendenze economiche e anche energetiche, degli scambi culturali, della libera circolazione delle persone, graduale ma costante rafforzamento dei poteri dell’ONU fino a devolvere all’ONU stessa l’unico monopolio mondiale della forza, affiancamento di un’ONU dei popoli all’ONU degli Stati, progressiva costruzione con articolazioni democratiche di un’unica autorità mondiale.

Capisco che, in una logica binaria, tutto questo appaia come utopia alla quale contrapporre il realismo. Ma la logica binaria ci sta portando alla catastrofe: utopistico è proprio pensare che una monodimensionale etica della responsabilità ci porti alla pace; utopistico, assolutamente utopistico è pensare che le massimamente realistiche misure che si stanno prendendo ottengano un ordine di pace con spazi vitali autarchici in competizione; ultra-utopistico è immaginare che la guerra si prevenga armandosi sempre di più e preparandosi alla guerra.

Certo la prospettiva ideale dell’eliminazione totale della guerra può essere, per ora, solo un fine (come già argomentava Sturzo), ma se l’azione morale, etico-politica, partendo con realismo dalla realtà-così-come-essa-è muove univocamente e il più coralmente possibile verso quell’ideale, allora si recupera il meglio dell’esperienza passata dell’ONU e si realizza nel contempo un grande salto qualitativo nuovo.

La stessa Unione Europea, se non vuole essere un sotto-insieme subordinato della Nato, deve crescere in unità interna (e non far crescere le spese militari dei suoi membri) con la visione prospettica di un’unica Europa dall’Atlantico agli Urali. Come disse Aldo Moro, parlando alla XXVI sessione dell’Assemblea generale dell’ONU: «I grandi problemi che si pongono al mondo non sono suscettibili di soluzione attraverso il solo impegno, anche congiunto, delle grandi potenze. […] Né si può certo più ammettere che esistano ancora popoli che facciano la storia e altri che la subiscano […] Proprio cominciando a porre in essere un clima di fiducia e di cooperazione tra Stati vicini si può sperare di instaurare, progressivamente, un ordine migliore. La regola aurea della politica estera di altri tempi voleva che i nemici dei nostri vicini fossero i nostri amici. Tale regola è oggi sostituita in misura crescente dal principio: i nostri vicini devono essere nostri amici. […] Una simile opera potrà dare ai popoli d’Europa la possibilità di fare sentire più efficacemente la propria voce. È possibile che l’influenza così ritrovata possa riuscire dannosa a qualcuno? La risposta è: no. Essa non è diretta – e non sarà diretta – contro alcun popolo, bensì contro la guerra, il peso degli armamenti, la fame e il sottosviluppo, contro l’iniquità, contro tutto ciò che è suscettibile di impedire i contatti liberi e fecondi tra tutti gli uomini».

È mai possibile che pressoché tutti i leader europei, che pressoché tutti i politici democratici italiani, siano attestati sul realismo e sul solo principio di responsabilità? Certo è necessario. Ma insieme all’essere ideale evocato da Sturzo e all’essere morale, all’agire etico-politico indicato da Moro. Dove sono gli eredi di Sturzo e di Moro?

6. Postilla. Infine non più di due spunti sull’operatività che ci si attenderebbe per far cessare la guerra pluridimensionale in corso e impedire che degeneri sempre di più.

Innanzi tutto, dopo aver realizzato un’escalation sanzionatoria, punitiva ed ostile, si dovrebbe, senza necessariamente smentirla e cancellarla, affiancarla con una politica della mano tesa. Il crudo realismo non prevede il bastone e la carota? Non solo il bastone. Parlare a Putin e alla Russia con un grande discorso di possibile amicizia, associazione e pace: facendogli balenare i grandi benefici di una realizzabile vicinanza e collaborazione. Lavorare sulla comune natura di Europei e porre fine perciò ad una guerra civile europea.

In secondo luogo, non porsi (come finora hanno fatto la Turchia, Israele e altri) come soggetti che mediano per portare le parti a trattare, ma avviare un vero e serio arbitrato, indipendentemente dall’impegno diretto delle parti. L’Unione Europea senta l’Ucraina, la Cina senta la Russia. E poi Unione Europea e Cina insieme elaborino una proposta stringente di arbitrato.

Fulvio De Giorgi