Se la scelta è tra sostenere un quarto di verità o una bugia, scelgo il quarto di verità
Albert Camus, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956)
Senza scordare i tre quarti di bugia
A.C. 2022
Cari amici e care amiche,
confesso che dopo il nostro incontro dei promotori del Forum (2 aprile 2022) ho passato alcune giornate confuse, con la percezione di capirci poco o nulla. L’idea che fosse possibile un qualche tipo di compromesso da chiamare pace, che prima mi pareva non impossibile, si è ben presto eclissata. Sto dedicando perciò il tempo di cui dispongo a leggere e ad ascoltare (non la tv, e molto poco i giornali italiani, sempre meno utili) per cercare di capire incontro a cosa stiamo andando. Provo adesso a scrivere quanto mi è venuto da pensare, anche parlando con altri, sempre con l’avvertenza che si tratta di riflessioni inesperte, personali e precarie, dettate dal bisogno cui non posso sottrarmi di farmi un’idea. Come in occasione del 2 aprile corro il rischio di renderlo esplicito in questa forma narrativa e dimessa allo scopo di stimolare le vostre reazioni e continuare lo scambio che abbiamo iniziato.
La dissociazione tra realismo politico e speranze di un mondo diverso
Dico subito che la conclusione è più o meno questa. Temo – e penso lo temiate anche voi – che dato lo scenario attuale, se non ci saranno cioè sovvertimenti ancora più ampi (e rischiosi) del quadro globale, la guerra non durerà poco come speravamo; che gli accordi, quando ci saranno e se ci saranno, lasceranno le parti coinvolte profondamente insoddisfatte; che probabilmente non si firmerà la pace, ma un provvisorio armistizio destinato a non sedare il conflitto, in Ucraina e nei rapporti Est-Ovest. Aggiungo oggi (27 aprile), dopo aver terminato di scrivere questo testo, che nemmeno l’allargamento del conflitto, pur apparendo a tutt’oggi improbabile, non è del tutto scongiurato.
Purtroppo la prospettiva positivamente utopica alla Fulvio De Giorgi (cfr. il testo diffuso con la nostra Newsletter di aprile), che non chiude con ciò che con altro linguaggio chiamiamo la visione del Regno, e quella che avanza oggi, del realismo e del risiko geopolitico, si stanno dissociando come mai in tempi recenti era avvenuto, nella realtà ma anche nella mia mente.
La decisione avventata e probabilmente autolesionista di Putin e i suoi ci ha messo di fronte una situazione estrema che, come già si diceva, “sfida i principi”. Ad essere onesti, comunque la si giri non si riesce a intravedere una via d’uscita che sia accettabile per i soggetti coinvolti e sufficientemente equa da fondare una pace durevole. Essa perciò lascia libere tutte le potenze del mondo di procedere, nella sfiducia e nell’incertezza (strategica) reciproca, a sperimentare “fin dove si può arrivare” con la guerra, come se non vi fosse altra via che quella determinata dai rapporti di forza “sul campo” per far tacere un giorno i cannoni. E forse è proprio così…
Temo che, ammesso pure che la situazione non precipiti, ricucire questa frattura sarà compito di lungo periodo. E per noi si tratta di capire se esiste uno spazio ancora per porre in relazione il realismo di chi non teme di guardare in faccia le Erinni scatenate, sapendo che esse non ci concederanno di adagiarci in ruoli ingenui da anime semplici (come quando si diceva: “andrà tutto bene”) e la speranza che sia possibile un giorno immaginare un ordine mondiale più orientato alla cooperazione e alla fraternità e, se non pacificato, capace almeno di ridurre le occasioni di destabilizzanti ricorsi alle armi.
Dove vengono prese le decisioni che contano
Nei tentativi di ricerca condotti in questi giorni ho cercato di dare il minimo spazio possibile alle discussioni “italiane”, francamente sempre meno interessanti e sempre più polarizzate e salottiere, oltre che sostanzialmente irrilevanti. Mi sono affidato invece all’idea, già suggerita a Limena, che alla fine sarà soprattutto a Washington (oltre che a Mosca e a Kiev, e per certi aspetti a Pechino) che si prenderanno le decisioni importanti, e che perciò tutte le nostre discussioni tra “pacifisti” e “guerrafondai” siano del tutto marginali. Penso che sarà Washington lo snodo decisivo per una ragione molto semplice, perché sono gli americani che hanno il principale rubinetto delle armi da fornire a Kiev. Se loro decidono di chiuderlo anche solo parzialmente all’Ucraina non resterà spazio per resistere.
In ogni caso, continuo a pensare che il muro innalzato dalla decisione di Putin non preveda scorciatoie per venire aggirato e che perciò tutte le invocate strategie “pacifiche” naufraghino purtroppo nei fatti quando si vedono costrette a dire come estrema ratio più o meno così: “Bisogna esercitare tutta la pressione diplomatica possibile” (cfr. tra i tanti Marco Revelli: “L’Europa dovrebbe mettere in campo la più ampia piattaforma negoziale possibile e imporla ai contendenti”). E immagino quanto Putin possa essere inquietato da questa “pressione” e da questa “imposizione”.
Mi ha colpito un paio di sere fa il giovane (non siamo in Italia…) rettore dell’Università di Mariupol dire più o meno così: “Io sono un pacifista, ho fatto la mia tesi di laurea sull’azione non violenta, ma quando ci si trova – come è successo a me – a fuggire in mezzo ai cadaveri, dicendo ai miei due bambini di chiudere gli occhi, e a dover poi attraversare campi minati per portarli in salvo, non posso fare altro che dire: dateci i mezzi per proteggere i miei bambini”. A rischio di semplificare, mi sembrano parole conclusive.
Penso si possa essere aiutati moralmente in questo difficile frangente da quanto scrisse Bonhoeffer dal carcere di Tegel (me lo ha ricordato in questi giorni Maurizio Carbognin): “Per chi è responsabile, la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde (…). In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi che in atteggiamento di concreta responsabilità. La generazione nuova possederà sempre l’istinto sicuro per riconoscere se si agisce solo in base a un principio o in base ad una responsabilità vitale; perché in questo si gioca il suo stesso futuro”.
Sinistra americana e sinistra europea
Se le decisioni che contano nel delineare la risposta all’invasione dell’Ucraina e al procedere della guerra si prendono a Washington allora bisogna farsi una idea di come ragionano gli americani – mi sono detto -, essendo abbastanza chiaro come, perora almeno, e prima di sviluppi futuri, si ragiona a Kiev.
A questo riguardo confesso di essere rimasto abbastanza colpito da come quei liberal e intellettuali di sinistra americani che di solito seguo siano molto decisi nel sostenere la necessità di una reazione determinata (sanzioni più armi) contro l’invasione dell’Ucraina, fino a spingersi a ottenere una “vittoria”. Come se in America ci si ricordasse più chiaramente della lezione degli accordi di Monaco del 1938, che non impedirono lo scoppio della seconda guerra mondiale. Alcuni esempi.
Un liberal come Paul Krugman (economista e premio Nobel) sul New York Times del 7 aprile dice: “Putin non sarà fermato fino a quando l’Europa non porrà fine alla sua dipendenza energetica”. Se la prende perciò frontalmente con la Germania che, oltre che aver mandato – fino ad allora – solamente “5.000 elmetti” (dal successivo articolo dell’11 aprile), si rifiuta di prendere in considerazione l’ipotesi di chiudere i rubinetti del gas russo. Secondo stime che egli cita ciò comporterebbe una flessione limitata del PIL tedesco, pari a meno 2,1%. Krugman critica perciò il contrasto tra la riluttanza tedesca ad accettare restrizioni moderate e “gli immensi sacrifici che la Germania ha chiesto – con molto moralismo – ad altri paesi durante la crisi del debito europeo di dieci anni fa”. Per fare un esempio, in conseguenza di quelle politiche tra il 2009 e il 2013 il PIL Greco si ridusse di ben il 21%. Egli dice di sperare che i tedeschi diventino consapevoli del fatto che “il rifiuto di chiudere il flusso di gas russo rende la Germania de facto complice di omicidi di massa”. Si tratta dunque di fare quanto necessario (sanzioni più armi), non solo per tenere Putin alla larga da quel Paese, “ma per ottenere una vittoria lampante”.
Un intellettuale di sinistra come Michael Walzer in una intervista del 15 aprile sottolinea la “differenza lampante” tra la durezza con cui i liberal americani condannano i crimini di Putin e “la prudenza dei liberal europei”. “Voi sperate ancora di negoziare con Putin (…). Noi riteniamo [invece] che il suo rifiuto di trattare in buona fede precluda la soluzione diplomatica, perciò siamo rassegnati al fatto che ogni via d’uscita passi ormai dalla vittoria militare”.
Lo stesso Noam Chomsky, sempre ipercritico nei confronti degli USA, non ha difficoltà ad affermare che: “L’invasione russa dell’Ucraina è un esempio da manuale di ciò che il tribunale di Norimberga definisce il crimine internazionale supremo”; riconosce che “Zelensky ha mostrato grande coraggio e integrità nel guidare l’Ucraina in difesa dell’aggressione omicida”, non è contrario all’invio di armi, anche se ritiene che dovrebbe “essere deciso in base al fatto che possa aiutare o danneggiare le vittime ucraine”.
Nel frattempo in Italia un sito della sinistra radicale pensante, “Sinistra in rete”, titola la sua homepage come segue: “Notizie sull’operazione speciale condotta dall’esercito russo in Ucraina…” E su “Il Riformista” una filosofa televisiva di sinistra, che non voglio citare, se la prende con il Pd di Letta per aver sostenuto una politica militarista; cosa che le consente di dichiarare con senso liberatorio: “il Pd non è un partito di sinistra”, ma “un tappo mistificatorio che impedisce alla sinistra di coordinarsi, di avere voce, di incidere nella vita politica”. E naturalmente conclude gioiosamente dicendo che “il popolo della sinistra dovrà farsene carico”.
Lasciatemi fare un inciso che sarà opportuno riprendere altrove. Se di fronte a due eventi globali come la pandemia e la guerra in Europa le componenti intellettuali della sinistra si spaccano così platealmente, dando letture agli antipodi del quadro storico, allora vuol dire che siamo definitivamente usciti dal ‘900 e che quei quadri interpretativi con cui da sinistra si è guardato al mondo sono irrimediabilmente deteriorati. Ciò non significa che tutte le categorie elaborate da quel pensiero siano da buttare; semplicemente non dovrebbero ricevere alcuna preferenza preliminare, rispetto ad altre connotate diversamente.
Un esercizio di realismo politico
“I forti fanno ciò che vogliono, mentre i deboli soffrono come possono” (Tucidide)
Torniamo perciò a quello che possiamo cercare di immaginare si stia pensando a Washington. A suo tempo (vedi l’introduzione ai lavori del 2 aprile) avevo criticato, come molti qui da noi, le affermazioni di Biden su Putin, perché mi sembravano contrastare con la possibilità di arrivare a un accordo e sostanzialmente motivate da ragioni interne (le elezioni di Midterm). Ma se anche pensatori quali Krugman e Walzer, come abbiamo appena visto, dicono che l’obiettivo è “la vittoria” forse Biden non fa solo propaganda, forse negli Usa sta maturando effettivamente l’idea che si tratti di regolare una volta per tutte i rapporti con la Russia di Putin. Provo perciò a capire mettendomi nei panni dello zio Sam, adottando quindi di necessità la logica di quel “realismo politico” che mi sembra caratterizzare in modo specifico una grande potenza. Questo è il motivo della citazione introduttiva di Tucidide, considerato il capostipite del realismo politico.
Riassumo lo schema di pensiero che emerge da questa (incerta) operazione come di seguito (le parti in corsivo esprimono quello che potrebbe essere a mio avviso il punto di vista americano):
1) Non sappiamo esattamente cosa abbiano in mente Putin e i suoi, fin dove vogliono arrivare, ma potrebbero anche non fermarsi, prima o dopo (vedi la Crimea, il Caucaso, ecc.), proprio come pensano in molti dalle parti dell’Europa dell’Est e del Baltico. In ogni caso si tratterebbe anche in futuro di un fattore di instabilità al confine dell’Alleanza atlantica.
Qui naturalmente esco dal presupposto, in cui non credo ma da molti ritenuto plausibile, che quanto avvenuto sia il prodotto di una deliberata provocazione premeditata da tempo dagli americani, in cui Putin è stupidamente caduto. Al contrario assumo l’incertezza strategica come un fattore fondamentale nelle relazioni internazionali.
Vista da Mosca la faccenda non è molto diversa: Non sappiamo esattamente cosa faranno gli americani (e gli europei) per resistere alle nostre strategie espansive finalizzate alla ricostruzione del “mondo russo”; l’unico modo per capirlo è provare a “vedere tutti insieme l’effetto che fa”, come direbbe Jannacci.
Insomma le grandi potenze hanno diverse alternative davanti, immaginano scenari e strategie differenti, li proiettano sul futuro e poi ci provano. Loro possono permetterselo, mentre “i deboli soffrono come possono”. Ancora oggi, come ha raccontato Dmitrij Suslov (considerato uno dei pensatori del Cremlino) in una intervista pubblicata il 24 aprile, a Mosca ci sono idee diverse su come concludere la faccenda Ucraina e su cosa è accettabile per Mosca.
2) Data questa incertezza di fondo fare accordi con Putin, consigliando agli ucraini di dargli almeno in parte quello che chiede per evitare costi maggiori, non garantisce la pace, anzi prepara conflitti futuri. Perché verrà dimostrato che l’espansionismo militare paga (il Donbass come i Sudeti).
Noi tendiamo a pensare che essere arrendevoli favorisca la pace, e che esserlo abbia un senso perché risparmia guai maggiori, ma purtroppo non è detto che sia così.
Lo storico della Russia e dell’Unione Sovietica Andrea Graziosi ritiene che a incentivare la decisione di invadere non sia stata la paura della Nato (questa è la scusa agitata da Putin, essendo il vittimismo tradizione antica in Russia), ma semmai i segnali di debolezza che gli occidentali “corrotti e degenerati”, come direbbe Kirill, hanno dato negli ultimi anni. A suo avviso ha pesato in particolare la mancanza di risolutezza dimostrata dal presidente Obama in Siria. Come ricorderete Obama aveva parlato con toni ultimativi rivolti a Bashar al-Assad di una “linea rossa” – l’impiego di armi chimiche – oltrepassata la quale gli americani sarebbero intervenuti, ma poi non lo fece, anche se quella linea venne superata, finendo per lasciare i russi “a far pratica”. In tempi più recenti c’è stata poi la sgangherata ritirata dall’Afghanistan… Si trattò di segnali che Putin potrebbe aver colto come indicatori di debolezza.
Mi ha colpito in questo senso un dibattito ascoltato da Youtube, nel quale a Vittorio Emanuele Parsi, docente di relazioni internazionali e in passato editorialista dell’Avvenire, è stata posta la domanda: “era evitabile il conflitto in Ucraina?”. Mi aspettavo una risposta che spaziasse dalla caduta del muro di Berlino alle strategie americane nei confronti della federazione Russa, che criticasse la mancanza di una idea su un ordine mondiale ragionevole e più equilibrato, ma molto probabilmente Parsi avrebbe considerato questo piano di discorso piuttosto ingenuo; forse perché le nazioni raramente manifestano la lungimiranza che sarebbe richiesta e finiscono per agire in modo “più affrettato”. Egli si è concentrato invece su tempi più recenti, quelli successivi all’invasione della Crimea. Come già aveva sostenuto a suo tempo (nel 2014), dimostrando una certa capacità di previsione, Parsi sostiene che quell’azione non avrebbe dovuto essere lasciata senza risposta. L’Occidente avrebbe dovuto inviare un messaggio chiaro, in due modi: rafforzando la presenza di truppe al confine Est della Nato e iniziando a ridurre la dipendenza dagli idrocarburi russi. A suo avviso infatti quando Putin prese il potere (1999) la frittata era già fatta. Nei venti anni successivi Putin portò avanti una politica da un lato di annientamento delle opposizioni interne, dall’altro di costruzione di una idea della Russia a cui indirizzare la cultura popolare e costruire il consenso, il cd. Russkiy Mir. Insomma, sembra dire Parsi, molte volte ci si trova a dover decidere quando è troppo tardi per invertire i processi di fondo e non rimane molto altro che far intendere all’avversario i costi di azioni poco avvedute. “Del senno di poi…”
3) L’Ucraina, il cui esercito siamo stati previdenti ad addestrare (complimenti a noi e agli inglesi), dimostra di avere una capacità di resistenza assai maggiore di quella che tutti prevedevano e dà segnali di essere disposta al sacrificio. Lo fa perché non ha alternative: quello che si è capito degli intendimenti di Putin e i suoi infatti è che il loro obiettivo non consiste semplicemente nell’accaparramento di alcuni territori, ma nell’annullare l’identità ucraina (“denazificare” in realtà vuol dire de-ucrainizzare, “ridurre a materiale etnico” dice Graziosi). Visto che Putin ha commesso il gesto avventato di ordinare l’invasione, sperando in reazioni deboli, si apre allora per noi la possibilità di provare a vedere fin dove si può arrivare. Se approntiamo sanzioni economiche adeguate e inondiamo l’Ucraina di armi – e non solo di elmetti… – forse l’Ucraina può vincere e noi con essa. Abbiamo cioè un’occasione storica per provare a ridimensionare l’oligarchia che comanda nella Federazione Russa e per spiegare ai russi, ma non solo a loro, che certe cose non si fanno.
4) A questo fine è essenziale l’unità di europei e americani sulle sanzioni economiche alla Russia e si tratta di far capire ai nostri alleati che sarà necessario, se occorre, ridurre drasticamente l’importazione di petrolio e di gas russi (cfr. le critiche ai tedeschi non abbastanza disponibili in questo senso). Noi americani in fondo ci rimettiamo poco e, rifornendo gli europei del gas che gli viene a mancare, ci ripaghiamo in parte delle spese in eccesso.
5) Dato che nemmeno l’atteggiamento della Cina è chiaro e noi non capiamo bene dove quel Paese intende andare, se le cose vanno come speriamo diamo un messaggio buono per il futuro anche ad essa (Taiwan), facendole vedere quale potrebbe essere la reazione Occidentale e quanto è costoso invadere un Paese il cui popolo intende resistere e può contare su appoggi esterni (Afghanistan docet…).
Si tratta di una incertezza vera, anche in questo caso. Michael Walzer a questo proposito dice in una intervista del 23 febbraio, giorno precedente all’invasione: “La repressione dei mussulmani e quanto accaduto a Hong Kong sembrano indicare che la Cina potrebbe attraversare una fase analoga a quella attuale di Putin e della Russia in cui si sentirà abbastanza forte da diventare più aggressiva di quanto non sia stata finora. Non saprei. Certo presteranno molta attenzione a quanto accadrà in Ucraina”.
Paul Krugman sul New York Times dell’11 aprile dice dal canto suo: “E poi c’è la questione realmente grande: la Cina. Xi Jinping considera la stretta integrazione dell’economia mondiale come una ragione per evitare politiche avventurose – come una invasione di Taiwan – oppure per aspettarsi una debole risposta occidentale? Nessuno lo sa.”
Questa imprevedibilità della Cina ripropone anche nei suoi confronti quella dimensione di incertezza nelle relazioni internazionali cui ho già fatto cenno. Un paese irrilevante come il nostro può semplicemente prenderne atto, mentre una potenza come quella americana può provare a saggiarne le reazioni, se non altro per ridurre l’incertezza strategica in cui operare.
6) E perciò: non ci interessa discutere con la Cina del conflitto europeo, facendo leva sul suo interesse alla stabilità economica globale, per arrivare magari a una mediazione USA – Cina, mettendoci d’accordo un po’ alle spalle di Putin. Ora come ora, non siamo interessati ad assegnarle questo ruolo, che richiederebbe contropartite su altri piani. Vista l’occasione offertaci da Putin quello che ci interessa è chiarire prima chi comanda e quali reazioni ci sarebbero a un comportamento cinese aggressivo.
Per quello che ne capisco cioè l’atteggiamento americano nei confronti della Cina è stato finora teso a non darle troppo spazio diplomatico. Essa viene considerata più un antagonista che un partner strategico. La speranza più volte indicata da Prodi che americani e cinesi si parlino, che gli uni parlino con Zelenski e gli altri con Putin, mi pare piuttosto fragile e resa ancor più fragile dall’occasione che Putin ha offerto agli americani, di “vedere l’effetto che fa”.
7) In questa prospettiva gli alti costi umani in Ucraina e i rischi di escalation sono certo da tenere in considerazione, ma ci interessano fino a un certo punto, perché una eventuale vittoria, o anche una semplice non sconfitta di Putin destabilizzerebbe gli attuali rapporti di forza mondiali (ringalluzzendo la Cina, ecc.) e ciò aprirebbe la strada a conflitti ancora più ampi e rischiosi in futuro.
8) Inoltre, aiutando gli ucraini in modo più deciso di quanto non facciano gli europei, avremo poi nella UE di domani un altro Paese fortemente nazionalista, più legato agli interessi americani che a quelli europei. Affiancato dai paesi dell’ex-Visegrad ciò renderebbe l’Europa assai poco unita. Probabilmente tutta l’area di confine che va dal Baltico al mar Nero guarderebbe più a Washington che a Bruxelles, mentre le spinte nazionalistiche interne alla UE renderebbero più difficile progredire seriamente nel processo di integrazione.
9) Per concludere: non si tratta di cercare compromessi e di derubricare il conflitto in Ucraina a un conflitto locale, risolvibile con soluzioni ad hoc, discutendo di linee di confine, ecc. ma enfatizzare la posta in gioco, trasformare il conflitto in una sorta di scontro di civiltà quanto basta per costruire il consenso interno ai paesi occidentali: democrazie sane e forti, contro oligarchie corrotte e tigri di carta. Che siano tigri di carta è appunto ciò che si deve dimostrare vincendo in Ucraina. Non si potrebbe dirlo meglio che con le parole di Lloyd Austin, Segretario alla difesa USA, il 25 aprile, proprio mentre stavo scrivendo queste note: “Vogliamo vedere una Russia indebolita al punto che non potrà più fare il genere di cose che ha fatto invadendo l’Ucraina. Pensiamo che l’Ucraina possa vincere, se avrà l’armamento giusto”. Poi naturalmente, come con Biden, ci sono le smentite, ma anche queste fanno parte del “gioco”.
E se avessero ragione?
È implicita nella ricostruzione appena fatta l’idea che questa possa essere solo una delle opzioni strategiche e che ve ne siano anche altre, più “delimitate”, da riprendere qualora si valutasse troppo costosa questa via, almeno perora praticabile.
Si deve riconoscere che un incentivo ad orientarsi nella direzione delineata proviene dalla Russia stessa, non solo per l’ovvia ragione che è stata essa a iniziare lo scontro, innescando una reazione occidentale unitaria e aprendo, contro le sue aspettative, la possibilità di una resa dei conti, ma anche perché finora non sembra interessata a proporre soluzioni per gli Ucraini (e gli americani, per gli stessi europei) accettabili. Non solo essi dovrebbero rinunciare alla Crimea e al Donbass, ma si richiederebbe loro un indebolimento così radicale in termini di autonomia politica e di forza militare da metterli alla mercé delle future mire espansionistiche di Putin. Si noti quella “demilitarizzazione, inclusi limiti alla cooperazione strategica con l’Occidente e al tipo e quantità degli armamenti in possesso dell’esercito ucraino”, di cui parla Suslov nell’intervista del 23 aprile (e costui si ritiene un moderato…). E in più si tratterebbe di una chiara vittoria riconosciuta al protagonista di un’azione ingiustificabile dal punto di vista del diritto internazionale, che si sta macchiando di crimini di guerra inaccettabili, sempre più difficili da dimenticare.
Devo confessare a questo punto che, anche se lo schema delineato mi fa una qualche ripugnanza per tante ragioni, la prima delle quali – lo ammetto – è la distanza dalla mia formazione culturale, proprio gli elementi di incertezza su cui ho insistito più volte fanno ritenere che gli americani potrebbero anche non avere tutti i torti a ragionare in quel modo. La domanda chiave rimane: siamo sicuri che essere arrendevoli non favorisca nuove aggressioni? Per ritornare a Bonhoeffer, non sarà anche dall’esito derivante dalle risposte offerte a questa domanda che le future generazioni giudicheranno le nostre scelte?
Osservo che questo purtroppo è pressoché impossibile saperlo ex ante; lo si saprà solamente ex post, al termine del conflitto, non subito tra l’altro, e con ciò vorrei sottolineare nuovamente quell’aspetto di radicale indeterminatezza che situazioni di questo genere prevedono, ma che di solito viene sottovalutato dal dibattito corrente, vittima dell’idea che vi sia sempre da qualche parte un potere onniveggente che pensa come gabbare il mondo riuscendoci.
Una spirale inquietante
Gli americani naturalmente faranno quello che vogliono e decideranno gli adattamenti strategici che preferiscono. Nei limiti in cui procederanno lungo la strada delineata la guerra in Ucraina andrà assumendo sempre più chiaramente i termini di uno scontro che non riguarda solo l’Ucraina e chi comanda a Mosca, ma la Nato (l’Occidente) e la Russia. Già oggi Suslov può dire: “L’esercito russo non sta combattendo contro l’Ucraina, ma contro la Nato, che non solo consegna armi e munizioni, ma fornisce informazioni preziose di intelligence. (…) Oggi sappiamo che gran parte del fuoco ucraino viene organizzato e puntato dagli occidentali. Detto altrimenti, è la Nato che spara sulle truppe russe, attraverso le sue armi usate dagli ucraini”.
I rischi derivanti dalla strategia delineata e da una situazione che in qualche modo la rende razionale sono evidenti. Oggi, in mancanza di una qualsiasi leadership mondiale in grado di sollecitare i protagonisti alla ragionevolezza e alla consapevolezza delle conseguenze di lungo periodo, ci ritroviamo nelle mani di strateghi che procedono “per prove ed errori”. Putin ne ha fatto uno capitale, “di apertura dei giochi”, per dir così. In questo modo si è cacciato su di una strada forse senza vie d’uscita, che non siano la vittoria o la sconfitta. Coloro che dicono “bisogna lasciare a Putin una via di uscita” hanno del buon senso, ma non è facile capire quale possa essere. Questo è uno dei problemi. Non sappiamo peraltro ancora quali saranno gli errori dei “nostri”. Lo sapremo solo “dopo”. Esattamente come nel caso delle politiche anti-Covid.
Certo è che quanto più i russi si irrigidiranno nel proporre condizioni di accordo che coincidono con una loro “vittoria” e quanto più gli occidentali riterranno necessario rispondere con un maggiore impegno militare, con sanzioni più forti e facendo capire che quello cui si mira è un secco ridimensionamento strategico della Russia, tanto più i russi riterranno che ad essere messa in questione sia la sopravvivenza stessa della Russia “come grande potenza e il suo status negli affari internazionali”. “Ma [già] ora è una guerra per la Russia” ed è per questo che “non possiamo perdere”. È ancora Suslov che parla.
Se in sostanza non si riesce, né da una parte né dall’altra, a pensare in termini di una delimitazione del conflitto, derubricandolo per esempio a una questione di confini, eventualmente lasciando che siano le popolazioni residenti a decidere del loro futuro (come ha proposto lo storico Guido Formigoni, non so con quanta praticabilità dopo quello che è successo nel Donbass, le deportazioni, la pulizia etnica, ecc.) il rischio di un allargamento del conflitto cresce.
Oggi come oggi non mi è per nulla chiaro chi e come potrebbe interrompere questa spirale “infernale”. Potrebbe succedere che gli scontri “sul terreno” conducano a una fase di stallo in cui non è possibile individuare chiaramente vincitori e vinti, qualcosa in sostanza che per gli ucraini equivarrebbe a una mezza vittoria, mentre per Putin corrisponderebbe a una mezza sconfitta. Un punto di arrivo di questo tipo, oltre che prolungare la guerra nel tempo, coinciderebbe molto probabilmente con una pace fittizia.
L’altra prospettiva, quella di una “vittoria” secca dell’Ucraina-Occidente, può sembrare desiderabile, ma non è detto che non provochi imprevedibili e rischiosi effetti di disfacimento della Federazione Russa da cui potrebbero derivare altri conflitti territoriali e/o l’irrobustirsi della collaborazione Russia-Cina, con la prima in condizione di ancora più netta subordinazione di quanto già non sia.
Verso un mondo pericoloso?
Per quello che può valere la mia opinione, quello che meno mi convince della logica che sembra informare gli orientamenti degli Stati Uniti è l’atteggiamento nei confronti della Cina.
Qualche settimana fa Prodi diceva in Tv che, mentre a i tempi della guerra fredda tra Est e Ovest c’erano sempre contatti dietro le quinte, oggi “non ci si parla”. Anche per questo, mi viene da pensare, la conoscenza reciproca tra le potenze, nella delegittimazione delle assemblee cooperative (ONU, ecc.), viene lasciata rischiosamente alle azioni e reazioni reciproche – come ho cercato di descrivere – senza che sia possibile pensare a “dove va il mondo”.
Prodi è convinto invece che un accordo sull’Ucraina potrebbe scaturire dalla relazione tra USA e Cina. Quest’ultima, al di là della proclamata collaborazione con la Russia di Putin, il quale peraltro non si è nemmeno degnato di informare i dirigenti cinesi della sua decisione, non può non essere preoccupata della crescente instabilità generata dal conflitto in corso, se non altro per gli effetti che avrà sul (suo) commercio internazionale. In questo momento l’atteggiamento cinese è quello di chi sta a vedere, ma potrebbe anche cambiare.
Il problema è che gli americani – per quanto ne capisco – non sembrano intenzionati a prendere atto che il loro peso non è più quello di un tempo e paiono ancora convinti di poter governare il mondo senza coinvolgere la Cina. Essi, oggi come oggi, la considerano una minaccia e non un partner strategico. Ricercare una partnership cooperativa con la Cina sul conflitto in Ucraina comporterebbe un cambiamento di fondo nell’atteggiamento americano verso di essa e probabilmente comporterebbe discutere di questioni su cui gli americani attualmente sono poco disponibili (da Taiwan alla gestione del commercio mondiale).
Naturalmente non sono in grado di escludere che proprio l’aggravarsi e l’estendersi del conflitto in Ucraina possa condurre a riconsiderare l’orientamento americano verso la Cina. Come non sono in grado di capire se l’opzione che intende indurre un ridimensionamento della Russia non possa alla lunga produrre un più esplicito sostegno della Cina a quest’ultima. In ogni caso credo che abbia ragione uno storico esperto di guerra fredda come Federico Romero, quando dice che la scelta per il mondo atlantico è se “spingere la Cina verso un abbraccio con Mosca o agire per separarle”.
Molti danno per scontato che quello verso cui si sta andando sia un mondo bipolare – democrazie da una parte oligarchie dall’altra – con il prevalere delle relazioni interne ai due sistemi rispetto a quelle tra sistemi e dicono che si tratta già di pensare a come tenere sotto controllo questa polarizzazione per impedire che trascenda. Ma non sarà molto facile perché quello cui si pensa è un ordine fondato sul protagonismo delle grandi potenze, in un certo senso come lo è stato nel periodo della guerra fredda, ma con confini meno chiari e con vari problemi da chiarire (controllo delle materie prime, ecc.), e nell’assenza di luoghi di confronto cooperativo (relativamente) legittimati come l’ONU.
In ogni caso il non ignobile sogno liberale (e Europeo) che lo sviluppo dei traffici e dei mercati portasse di per sé a un mondo più pacifico, perché più interconnesso, segna una netta battuta d’arresto. Stiamo già assistendo al ritorno della grande (e pericolosa) politica
Un cenno alla debolezza Europea
Alcuni in Europa mi sembrano più consapevoli dei rischi impliciti in questa situazione. Il neoeletto (per fortuna) presidente dei francesi, Emmanuel Macron, è stato chiaro con la sua recente intervista del 22 aprile, nel tentativo di esprimere una logica non schiacciata su quella americana. “Dobbiamo fare di tutto per fermare la guerra. (…) Ecco perché (…) dobbiamo continuare a parlare ai nostri partner, nel Golfo, in India, in Cina, per evitare una disgregazione del mondo. Una frattura tale che, di fronte alla Russia, esisterebbe un solo campo, formato dagli Stati Uniti e dall’Europa, mentre altri potrebbero sfilarsi. La responsabilità dell’Europa – e a questo riguardo i nostri paesi, la Francia, l’Italia, la Germania, hanno un ruolo di potenze mediatrici – è di continuare a parlare agli altri per evitare una frattura del mondo. Perché porterebbe a un’Europa vassalla, e alla rottura completa della nostra Europa, alla fine. (…) Dovremo continuare a parlare a Putin. (…) Se per stanchezza scegliamo di non parlargli, allora lasciamo la responsabilità di parlare con Wladimir Putin al presidente turco, al primo ministro indiano, al presidente cinese e decidiamo che siano i non europei a costruire la pace in Europa, il giorno dopo (…) Resto convinto che storicamente questo è il nostro ruolo”. Discorso in cui appaiono chiaramente: la preoccupazione per un ruolo europeo subalterno, per le divisioni esistenti tra paesi confinanti con la Russia e i rimanenti, per il disordine globale che potrebbe scaturire dal procedere non controllato del conflitto.
Purtroppo l’Europa arriva a questo snodo della storia troppo debole, troppo dipendente sia in termini energetici che strategici, troppo divisa sul suo futuro e, in un certo senso, messa con le spalle al muro dall’aggressività di Putin e da ciò costretta a riscoprire la sua anima atlantica. Sì, certo, l’Europa nelle crisi procede, è successo ancora, ma i nodi da risolvere sono davvero tanti e molti hanno radici storiche profonde.
L’Europa è andata avanti in questi anni in base a processi che hanno dato il primato alla regolazione intergovernativa rispetto alla creazione di un potere terzo, di una vera e propria sovranità europea cioè. Lo stesso Macron, da un lato parla di sovranità europea, ma dall’altro la pensa in termini intergovernativi (a trazione francese) e i risultati del voto in Francia probabilmente lo indurranno ancor più a procedere nel tentativo di un europeismo di questo genere. Gli stati dell’Est europeo sono entrati in questo processo a caccia di risorse per rafforzare le loro identità nazionali-statuali, non certo per vedersele ridimensionate dal progredire dell’integrazione. Tutto ciò ha fatto sì che gli stati nazionali, lungi dal venire ridimensionati nel loro ruolo, ne sono piuttosto usciti rafforzati (cosa che i vari regionalismi presenti in Europa non hanno ancora capito… preferendo continuare a perdere tempo in chiacchiere).
Anche l’idea di costruire una forza militare europea integrata, oggi data spesso per scontata, è meno facile di quanto si pensi, perché implica una discussione sulla sovranità sulle armi (comprese le atomiche francesi), la quale coinvolge tra l’altro direttamente nazioni come la Francia e la Germania che si sono fatte guerra per secoli. Nel dubbio, perora ognuno pensa di aumentare le proprie spese belliche in modo indipendente e sovrano, per l’appunto, “così diamo da lavorare alle nostre industrie…” In sostanza la questione su come si costruisce una sovranità europea componendo stati sovrani (come avrebbe detto James Madison, quarto presidente degli USA all’inizio dell’800) rimane ancora da risolvere. E perciò staremo a vedere.
La divaricazione tra bene ideale e bene possibile
Quello che mi colpisce nelle idee descritte su come affrontare la crisi attuale, un po’ ingenuamente forse perché è così che vanno le cose nelle relazioni internazionali, è la scarsa considerazione per le conseguenze di lungo periodo di uno scontro condotto senza esclusione di colpi, con l’obiettivo giusto di consentire all’Ucraina di continuare a esistere, ma anche con la voglia di ridefinire decisamente i rapporti di forza globali, “già che ci siamo…”
Da quelle più delimitate, che vanno dalla stazione spaziale orbitante finora gestita congiuntamente, all’arresto delle collaborazioni in campo scientifico e culturale (qui la stupidità sta raggiungendo il massimo), al probabile blocco del tentativo di accordo sul nucleare iraniano che si immaginava potesse prevedere Russia e Stati Uniti come garanti, alla paralisi – del resto già patente – nel funzionamento dell’organismo che dovrebbe governare gli scambi commerciali (il WTO), ecc.
A quelle più ampie. Le vittime della guerra e le distruzioni in Ucraina prima di tutto. La crisi della politica ambientale, l’aumento della povertà e della mancanza di cibo derivanti da una guerra condotta nei granai del mondo (“chi non semina…”), dall’inflazione e dalla riduzione dei tassi di crescita, che rischiano di destabilizzare certi stati del Sud (anche Mediterraneo), aspetti su cui si è recentemente soffermato Prodi (il 10 e il 17 aprile).
La rincorsa agli armamenti tradizionali, che oggi sembrano essere ridiventati importanti perché il paradossale ombrello della deterrenza nucleare consente alle potenze più spregiudicate di ricorrere allo schema della guerra novecentesca, facendola ridiventare risolutiva. “La nuclearizzazione pone dei limiti e però rende anche possibile un’aggressione” ha detto Walzer nei giorni scorsi. Tutto ciò avviene non senza riservarsi la possibilità di minacciare il ricorso al nucleare “tattico”, quando non l’Armageddon finale (ipotesi agitata forse più che altro come spauracchio).
Ma anche la spinta di tutte le potenze di media grandezza a dotarsi del nucleare: “Questa guerra è la tomba della non proliferazione nucleare” ha detto, con qualche ragione, lo storico Graziosi.
E, per finire, le grandi questioni che minacciano il futuro dell’umanità, che ho già ricordato nell’introduzione all’incontro del 2 aprile: come farà un mondo così “disgregato”, per usare l’espressione di Macron, ad affrontare in modo cooperativo le sfide derivanti dalle future pandemie e dal riscaldamento globale?
Ecco, quello che sembra mancare completamente nelle ipotesi strategiche con cui oggi si intende affrontare la crisi attuale, e perfino nei commenti degli analisti esperti, tutti concentrati sul breve periodo, è la considerazione delle conseguenze di tutto questo sull’ordine globale. La questione sembra essere ridotta al come vincere questa guerra, non a quale dis-ordine essa aprirà le porte e se esiste lo spazio per pensare a un nuovo ordine. Le conseguenze e i rimedi, nella migliore delle ipotesi, vengono rinviate al “dopo”.
Considerazioni come quelle su cui si è cimentato con una buona dose di ottimismo e forse con troppa fiducia posta sul ruolo dell’Europa, ma anche con sincera preoccupazione per il futuro dell’umanità e molta speranza cristiana, lo storico Fulvio De Giorgi nel testo in cui egli prova ad immaginare, in radicale controtendenza, ciò che davvero potrebbe aprire a un mondo migliore, sembrano essere del tutto assenti da quelle che agitano le notti di chi governa le potenze del mondo.
È in tal senso che all’inizio di queste pagine alludevo alla frattura tra realismo politico e speranze che un nuovo ordine mondiale sia possibile. Ciò che mi inquieta è la difficoltà, evidente anche in quanto qui ho cercato di dire, nel far interagire le due logiche, senza cadere nel velleitarismo di chi si rifugia nel sogno di un mondo pacificato da raggiungere con perorazioni verbali come “no alla guerra, mai più la guerra”, e chi pensa solamente a una resa dei conti di breve periodo. Ciò che mi tormenta è la percezione di quanto si sia allargato lo spazio tra il bene ideale da perseguire e il maggior bene reale possibile, tanto da far dubitare che il primo possa esistere e influenzare la storia umana e che il secondo possa corrispondere davvero a “un bene”.
Non so fare di meglio, per contenere il pesante “realismo” verso il quale ci vediamo (forse) costretti ad approdare che invitarvi a leggere la poesia di una poetessa Ucraina morta nel 1913, che la nostra amica Gabriella Burba mi ha fatto avere con gli auguri di Pasqua.
Un saluto a tutti e a tutte
Alessandro Castegnaro
27 aprile 2022
CONTRA SPEM SPERO!
Via, pensieri, voi, nubi autunnali!
Ora è la primavera dorata!
Forse nell’amarezza, nel pianto
Passeranno gli anni giovanili?
No, voglio ridere attraverso le lacrime,
In mezzo al dolore cantare canzoni,
Senza speranze comunque sperare,
Voglio vivere! Via, pensieri tristi!
In un triste campo desolato
Seminerò fiori variopinti,
Seminerò fiori nel gelo,
Verserò su di essi lacrime amare.
E per queste lacrime cocenti si dissolverà
Quella scorza dura di ghiaccio,
Forse i fiori cresceranno – e verrà
Anche per me l’allegra primavera.
In cima a un erto monte sassoso
Trasporterò la pesante pietra
E, portando questo terribile fardello,
Canterò un ‘allegra canzone.
In una lunga notte nera, impenetrabile
Non chiuderò gli occhi per un attimo,
Cercherò la stella polare,
Luminosa sovrana delle notti buie.
Sì! Riderò attraverso le lacrime,
In mezzo al dolore canterò canzoni,
Senza speranze comunque spererò,
Vivrò! Via pensieri tristi!
Lesja Ukraïnka (pseudonimo di Larysa Petrivna Kosac), 2 maggio 1890.