Contributo di Andrea Pase

La questione della guerra è insieme così depressiva ed angosciante (di cosa è fatta l’umanità? Perché torniamo sempre a queste terribili pagine?) e così difficile da interpretare che onestamente non ho molta voglia di parlarne e non mi pare di avere nulla da dire, se non condividere il grande stordimento che provo. Il succedersi di emergenze “assolute” sembra la cifra del nostro tempo: già il tema dell’anti-vaccinismo ha perso di interesse e di presa sulle coscienze, non appena avevamo iniziato a ragionarci con calma insieme. E ora eccoci qui. Provo comunque a dire poche cose.

Cartine e carte

Usciti i virologi, nei talk show sono entrati in massa i geopolitici. E dal dilagare dei grafici sulla diffusione del Coronavirus (le diverse “ondate”, “appiattire la curva”…) si è passati al trionfo delle “cartine”. “Vediamo sulla cartina…”, “in rosso sulla cartina…”, “se la regia ci mostra la cartina…”

Una delle prime cose che insegno ai miei studenti all’università è che “cartina” non è un termine corretto: si parla di “carte geografiche” e non di “cartine”. Al di là della questione terminologica e del diminutivo inappropriato, c’è un punto di grande rilievo in questa inflazione di infografiche di zone occupate, assi di penetrazione, target militari, linee di scontro. La “geopolitica”, almeno quella ad uso dell’informazione massmediale, è una semplificazione estrema di una materia, la geografia politica ed economica, che ha ben altro spessore: la “cartina”, che è la sintesi più efficace della geopolitica, semplifica drasticamente questioni complesse, schiacciandole in una geometria di relazioni di potere e di scontri di forza, che finiscono con l’ignorare o, quando va bene, nel dare per scontato tutto ciò che è la “vita” del territorio e delle genti che lo abitano. Le “cartine” sono strumenti persuasivi più che interpretativi: il consiglio che mi sento di dare è di guardarle sempre con un certo sospetto. Altra cosa è il tessuto di relazioni, di storie, di vite che si muovono in quegli spazi, o meglio si muovevano, perché oggi quel tessuto in Ucraina, come in Siria, in Yemen e in tanti troppi altri luoghi, è lacerato, dilaniato e chissà quando e come potrà iniziare ad essere rammendato.

Eventi e processi

Il sinologo François Jullien ha descritto come il pensiero cinese sia orientato al processo, alla trasformazione silenziosa, piuttosto che all’evento, all’accadere subitaneo e fragoroso. Forse anche per questo ci risulta così difficile capire la strategia cinese, pure in quest’ultimo frangente. C’è senz’altro un’antica saggezza nel volgere lo sguardo ai processi silenziosi piuttosto che agli eventi puntuali e assordanti.

Vorrei allora provare ad uscire dalla prospettiva dell’evento, per quanto terribile esso sia e nonostante la forza con cui esso invade la nostra coscienza, per provare a ragionare in termini di processo. In particolare mi vengono in mente due processi, silenziosi ma possenti: il primo è relativo al ruolo dei combustibili fossili nelle “necropolitiche” contemporanee; il secondo invece ha a che fare con la circolazione di derive psicotiche e paranoiche nel “buco nero” della globalizzazione. Tutti e due questi processi sono evidenti nella crisi attuale: da una parte, per il peso del petrolio e soprattutto del gas come arma di ricatto nei confronti dell’Europa da parte di Putin, dall’altra nell’ampio e disturbante utilizzo di materiali complottisti e di mistiche politiche in gruppi quali i “rossobruni” o la Brigata d’Azov, o nell’ideologia della “Russia eterna” (Gori).

Necropolitiche

Secondo Reza Negarestani, filosofo iraniano, dalla scrittura densa seppur alle volte indecifrabile, c’è una tossicità dei combustibili fossili in quanto “sole terrestre sepolto ed esumato”, “cadavere nero del sole”, che genera devastazione tanto in terra come in aria. “Tutto ciò che ha a che fare con il petrolio è stato fabbricato con la morte e in funzione della morte”: i combustibili fossili (siano essi solidi, liquidi o gassosi) derivano infatti dalla trasformazione di sostanze organiche sepolte nel corso delle ere geologiche. Sono vita morta che diventa energia attraverso la combustione: è l’energia che ha consentito di attivare l’industrializzazione e che alimenta la nostra civiltà digitale. “Idrocarburi Succo di Cadavere”, “cadaveri organici appiattiti, impilati e resi liquidi in bacini sedimentari (meganecropoli)”, nel linguaggio di Negarestani. Due i fenomeni negativi innescati dal disseppellimento del “cadavere nero del sole”: da un lato vi è l’immissione dei gas serra e quindi il cambiamento climatico; dall’altro, abbiamo “il petrolio [che] avvelena il Capitale con una follia assoluta, una piaga planetaria che sanguina in economie mobilitate dalle singolarità tecnologiche di civiltà avanzate”. All’inizio e al termine degli oleodotti e dei gasdotti vi è guerra, distruzione, devastazione. Per certi versi, questa guerra, come tante altre (Iraq, Libia…), ha a che fare con gli idrocarburi e con la tossicità che essi diffondono nel corpo sociale e politico, anche nelle forme della corruzione oltre che in quelle della violenza (si pensi a Petrolio di Pasolini). La transizione energetica assume quindi il significato di una liberazione dalla tossicità ecologica, ma anche politica, economica e sociale degli idrocarburi.

GlObal

Un volume curato da un professore della York University, Ilan Kapoor, si intitola “Psychoanalysis and the GlObal”: la O di global è scritta in maiuscolo e in corsivo. Intende simboleggiare un grande vuoto, una voragine, buia e inesplorata. Questo vuoto è posto proprio al centro della globalizzazione, che vive nella presunzione di ridurre lo spazio ad una superficie assolutamente liscia, perfettamente calcolabile, ma che conserva nel suo profondo contenuti inconsci, nascosti, misconosciuti, anche perché inquietanti e quindi rapidamente rimossi. La dimensione inconscia attraversa, per vie inattese e invisibili, le dinamiche della globalizzazione, le crepa, ne fa emergere aspetti disturbanti, genera processi irrazionali, provoca spaccature, apre lacune, determina eccezioni e contraddizioni. La circolazione inconscia delle paure e delle ansie, dei desideri e dei sogni è un potente attivatore di effetti nel mondo reale, anche perché “le geografie della terra sono inseparabili da quelle della mente” (Lingiardi, 2017). Così si formano stereotipi e pregiudizi, si sedimentano traumi e conflitti emotivi. Per interpretare questa “eruzione dell’inconscio”, che fessura dimensioni simboliche e immaginative, Kapoor fa riferimento, oltre che alla riflessione freudiana, soprattutto al pensiero di Jacques Lacan e di Slavoj Žižek. Appoggiandosi a questi autori, egli afferma che l’inconscio non ha solo una dimensione intrapsichica, ma è anche “transindividuale”, e quindi assume la forma di una pratica culturale, esterna e collettiva oltre che interna e individuale. Nei momenti di crisi, come quello che stiamo attraversando prima con la pandemia e ora con la guerra, emergono appunto queste dinamiche profonde, covate a lungo nei gruppi che elaborano teorie complottiste, mistiche della politica, nuove ideologie della superiorità di una cultura o di un’etnia o di un gruppo sociale sugli altri. Il luogo dove si addensano, dove circolano e dove poter anche monitorare queste pulsioni e derive è oggi la rete: ciò che conta è provare a capire qualcosa del nero dal quale emergono queste manifestazioni.

Sete e fame

Un’ultima dimensione che vorrei evidenziare ha a che fare con l’acqua, e ancora con il clima. In epoca sovietica due grandi canali sono stati derivati dal fiume Dnipro: il North Crimean Canal (1969) e il Kakhovs’kyi Magistral’nyi Kanal (1990). I canali portavano acqua alla parte centrale e meridionale dell’Oblast (provincia) di Kherson, per irrigare vaste superfici coltivate a foraggio, cereali e piante oleose. Il NCC era destinato, come dice il nome, in particolare alla Crimea, area semiarida e sempre assetata, sia per fornire acqua per usi civili sia ancora per l’irrigazione. Dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 l’accesso all’acqua è stato impedito come ritorsione da parte dell’Ucraina. Sete (l’acqua che non arrivava in Crimea) e fame (le coltivazioni che non potranno essere irrigate nella nuova stagione se la guerra continua) sono due aspetti di cui tener conto nell’interpretare gli eventi in corso. Nel contesto della crisi climatica globale queste “basi materiali” della vita sono destinate, qui e altrove, ad assumere un ruolo sempre più rilevante.