La situazione e alcune sue conseguenze
Avverto che la guerra in Ucraina propone violentemente e improvvisamente scenari che sconvolgono le nostre precedenti attese sul futuro e rispetto ai quali ritengo siamo anche culturalmente impreparati, in modo grave.
Se si avverassero le ipotesi peggiori, con l’impiego di armi chimiche/batteriologiche, con l’allargamento del conflitto e il coinvolgimento diretto della Nato, con addirittura l’uso di armi nucleari, si rischierebbe nel futuro prossimo un mondo in cui la sopravvivenza globale dell’umanità verrebbe rapidamente e radicalmente messa a rischio (inverno nucleare, inquinamento radioattivo allargato, accelerazione dei mutamenti climatico-ambientali, drastica riduzione della possibilità di accesso a risorse vitali…). In questo caso ci ritroveremmo in una situazione da catastrofe globale, rispetto alla quale non abbiamo neppure le categorie per “pensarla”, ancor meno per gestirla.
Ma se anche tali ipotesi non si avverassero, la situazione già in atto ci sta consegnando un futuro ben diverso da quello immaginato nei trent’anni dal 1989.
Il post-24 febbraio sta rimettendo in discussione soprattutto due presupposti, più o meno taciti:
- che la globalizzazione economica, non prevedendo vantaggioso un conflitto tra superpotenze, avrebbe funzionato da freno efficiente, ancor più che la deterrenza nucleare;
- che in qualche modo si sarebbe riusciti a mantenere la prospettiva di un benessere più diffuso, un po’ meno sperequato, permettendo tutto sommato un relativo miglioramento del benessere complessivo, e quindi del mantenimento dell’attuale statu quo
Il nostro immaginario, di un sostanziale predominio culturale della prospettiva occidentale (democrazia, rispetto del pluralismo e del diritto, affermazione dei diritti umani – soprattutto individuali, …), oltre “conflitti localizzati” e la pluralità di concezioni del mondo, si appoggiava fondamentalmente su queste premesse.
Ora, se vogliamo essere intellettualmente onesti, non è più così. Ci troviamo di fronte ad una invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la quale valuta tale operazione come “sostenibile” rispetto al giudizio dell’Occidente e alle sanzioni applicate agli scambi economici, commerciali e finanziari, e ai rischi di un’estensione del conflitto. E punta sull’accettazione di uno statu quo mondiale in cui contano Usa Russia e Cina, in cui l’Ue è declassata a “provincia” americana, in cui il territorio europeo (e non solo) va nuovamente suddiviso in aree di influenza, se necessario anche attraverso interventi armati. Una “spartizione mondiale” che si compie secondo rapporti di forza/potenza, senza reali fattori regolativi di diritto internazionale.
In un simile contesto, la questione dell’identità collettiva viene ancora una volta riproposta in termini di contrapposizione conflittuale, e funziona in parte da pretesto ideologico-mediatico, in parte da motivazione emozionale-prerazionale collettiva capace di mobilitare e compattare popoli interi, al di là di ogni “differenza interna”.
Chi è più forte/più potente si spartisce il mondo e le sue risorse, senza preoccuparsi di questioni come la distribuzione equa delle risorse stesse o le problematiche relative a nuove pandemie o, ancor meno, alla crisi climatico-ambientale. Questioni queste ultime che richiederebbero, per la loro globalità, approcci cooperativi, rischiano di essere volutamente ignorate o sottovalutate, o affrontate in modi inevitabilmente inadeguati.
E’ il brusco e angosciante risvegliarsi in un mondo diverso da quello che avevamo scelto corrispondere meglio ai nostri sogni, alle nostre attese, alle nostre speranze…
E’ una situazione che ci mette con brutalità di fronte al problema del male. Il male della violenza che si autogiustifica, il male della precarietà della vita di fronte alla morte, il male che può trasformare chiunque in un mostro.
Quale chiamata di Dio all’interno di questa situazione?
Scelgo come cristiano di credere che Dio parli nella storia in cui viviamo – il che domanda una lettura/discernimento dei “segni dei tempi” – e mi chiedo, semplificando: come cristiani / come Chiesa, a che cosa Dio ci chiama dal di dentro di questa situazione?
A. Di questa situazione fa parte anche la Settimana Santa di quest’anno: che cosa ci dice?
Non credo sia un caso che la storia in cui stiamo vivendo in questi giorni comprenda anche la Settimana santa di quest’anno. Ci troviamo infatti a celebrare il centro del mistero della nostra fede all’interno di una storia che percepiamo essere in così tragico e rapidissimo sconvolgimento. La scelta fondamentale che Dio ha fatto e continua a fare in Gesù (e che le celebrazioni della Settimana Santa ci consegnano) non è una scelta di potenza violenta. E’ piuttosto di partecipare fino in fondo al nostro vivere e al nostro morire assumendo la condizione di vittima della violenza del male messa in atto dalla forza del potere e dalla forza dall’emozione della folla. Gesù sceglie di subire la morte, sotto forma di un patire in cui, una volta acconsentito a questa dinamica, non c’è modo di tornare indietro: subisce fino in fondo, “fino alla morte e alla morte di croce”. Una morte, ricordiamolo, che è la morte dei “maledetti dagli uomini e da Dio”. Una morte in cui sperimenta perfino il silenzio del Padre e lo smarrirne la presenza. E questa morte viene confermata dalla sepoltura, e dalla “discesa agli inferi”, cioè dallo sprofondare nella condizione di morto, di cadavere. Non può auto-salvarsi, si è già consegnato, e ora dovrà essere il Padre a decidere che fare di questo “Figlio attossecato”, avvelenato dalla morte (Jacopone da Todi). In questa situazione non è per nulla scontato né assicurato il “passaggio oltre” la morte, la Pasqua: questo sprofondamento per sé non comprende la risurrezione.
Tuttavia, la dinamica profonda di questo processo, per quanto si avverte dai racconti evangelici, integrati per altro verso dalla riflessione teologica di Paolo, è il dispiegarsi della forza di un amore che da un lato, in Gesù, mette in atto la scelta di rimanere fedele a quanto ha compreso del Padre: rimanere accanto a noi fino in fondo, fino a dare la vita rimettendola nelle sue mani. Dall’altro lato si manifesta come risposta del Padre con un amore capace di dare vita al Figlio e di metterlo in grado di attraversare l’abisso della morte fino ad oltrepassarlo, giungendo alla condizione della vita-di-Pasqua, vita pienamente amante e così pienamente compiuta. E’ la scelta di rischiare di rimanere fedeli a questo amore (che è lo Spirito Santo), da parte di Gesù e da parte del Padre, che permette il compimento della dinamica pasquale: morte-sepoltura-risurrezione.
Da rilevare che:
- la morte si compie fino in fondo, fino alla sepoltura/assenza del corpo/assenza della vita e dalla vita: la risurrezione non interviene immediatamente sulla croce;
- il risorto mantiene le ferite del crocifisso, rimane cioè strutturalmente (identitariamente) lo stesso che è passato attraverso la morte e la morte di croce.
Almeno due conseguenze, allora:
La prima è che non veniamo salvati dalla morte, ma fin nella morte (come ricordava anche Bonhoeffer): la morte non ci è risparmiata, ma fin dentro la morte Dio non ci abbandona, al punto che muore con noi;
La seconda è che Dio continua a scegliere di morire con ogni crocifisso/a della storia, si identifica con ognuno e ognuna di loro, al punto da scegliere di mantenere come identità di sé, “fin nel suo stesso corpo”, nella sua esperienza più profonda, quanto ha vissuto nella morte di croce e nello sprofondamento nell’abisso.
B. Celebrare per incontrare il Crocifisso Risorto
Sono profondamente convinto che come cristiani possiamo accogliere questa scelta di Dio (solo) se ci lasciamo trasformare il cuore e la vita da quanto celebriamo. I riti della Settimana Santa, ma anche ogni liturgia cristiana, hanno come fine il farci incontrare con Gesù che sprofonda nella morte per amore di noi e risorge dall’abisso della morte per l’amore del Padre. E di renderci possibile accogliere il dono di questo Amore, lo Spirito Santo, che ci mette in grado di percorrere con lui la stessa via. Una via che condivide il patire dei crocifissi e delle crocifisse di oggi, ovunque, e si impegna affinché già ora e qui i semi di bene presenti nella storia possano essere coltivati e custoditi fino a portare frutto, il frutto del Regno di Dio.
C. Quali “chiamate” dalla storia alla nostra relazione con il Crocifisso Risorto?
Alcuni elementi della storia che stiamo oggi vivendo possono essere colti allora come “chiamate” alla nostra esperienza di incontro con Gesù morto e risorto nelle liturgie che celebriamo:
- Siamo chiamati a renderci conto che viviamo in un mondo globalmente violento, in molti modi, e noi non siamo (più) al sicuro, se mai abbiamo avuto l’illusione di esserlo: né per l’accesso alle risorse e ai consumi, né per la sicurezza personale e collettiva, né ancor meno dal punto di vista climatico-ambientale, e della salute, facendo i conti in modo inevitabile con la nostra fragilità e mortalità.
- Siamo chiamati a confrontarci con il potere e la forza, che spesso utilizzano la violenza, al di là della possibilità di giustizia e di diritto: una situazione che nel mondo è quella della maggior parte delle persone, ma che noi finora abbiamo abbastanza ignorato, o di cui non ci siamo presi cura.
- Siamo chiamati a prendere atto del male presente nella storia, nei popoli, in noi stessi. Un male che “fa male”, distrugge umilia uccide priva di dignità rende mostri… Un male che è responsabilità nostra (scelte, omissioni, indifferenze…), ma che anche sperimentiamo ci supera. C’è una forma di “male collettivo” (mysterium mali) che si dimostra spesso più forte di tanti sforzi di bene. E tuttavia siamo chiamati a credere che esso non sia “il tutto” della storia, non ne sia l’ultima parola.
- Siamo chiamati a renderci conto che non siamo “potenti”, pur vivendo in una situazione “protetta da potenti”: sperimentiamo invece impotenza rispetto alle decisioni dalle quali derivano anche le nostre condizioni future di livello di vita quotidiano.
- Siamo chiamati a riconoscere e ad ascoltare intorno a noi (e in noi) vari atteggiamenti possibili: disperarci per quanto ci verrà meno, fino a disperare di Dio / subire quanto va accadendo, senza reagire o reagendo con aggressività / patire l’ansia-l’angoscia per il presente e il futuro / sforzarci di ignorare la situazione, anche evadendo in varie maniere / chiuderci nell’autodifesa del nostro modo di vivere / “stare” nella situazione sia informandoci con criticità – non solo circa l’Ucraina, ma circa il mondo intero – sia ragionandone con altri / costruire relazioni di solidarietà con le vittime ma anche tra noi, relazioni capaci di sostenerci reciprocamente / continuare ad affermare la necessità della giustizia e del diritto, di diritti e doveri di tutta l’umanità / perseverare nel cercare quanto di bene comunque è seminato in questa storia e in questo ambiente in cui viviamo, per averne cura, coltivarlo, custodirlo, condividerne i frutti / affidarci a Dio cercando speranza per noi e per il mondo / esplorare con altri diverse vie per ri-costruire pace, rifiutando la logica delle contrapposizioni senza speranza / …
- Siamo chiamati ad ascoltare il patire dei crocifissi e delle crocifisse di oggi: le vittime della guerra in Ucraina – ancor più i civili – e in altre decine di guerre attive oggi nel mondo, e in centinaia di conflitti più o meno “dormienti”. Siamo chiamati ad ascoltare le vittime di ogni violenza, i piccoli, gli anziani, le donne, i più indifesi, nelle periferie delle grandi città, talvolta in casa, altre volte sul lavoro, o lungo le rotte delle migrazioni… Ascoltare le fatiche e le ferite delle persone che ci sono affidate, nella precarietà della vita quotidiana… Lasciarci rattristare, addolorare, ferire, scandalizzare: senza una compartecipazione empatica, rischiamo di rimanere lontani dalla concretezza dell’esistenza.
D. Quali attenzioni per vivere da cristiani questo tempo
Tutto questo ci indica, a mio parere, alcune attenzioni per vivere questo tempo a partire da quanto in esso celebriamo:
- Ascoltare queste chiamate che salgono dalla situazione in cui viviamo
- Essere consapevoli che non siamo capaci di rispondervi pienamente
- Invocare di lasciarci convertire dalla misericordia del Padre
- Scegliere di chiedere a Dio di poter rispondere, un passo alla volta
- Chiedere il dono del suo Spirito, che sostenga e aiuti a crescere il nostro amore
- Invocare di fare esperienza della presenza di Gesù, continuamente crocifisso-sepolto-risorto, che ogni liturgia cristiana dovrebbe metterci in grado di sperimentare fin dentro la storia
- Intercedere continuamente per l’intera umanità, per il mondo intero
- Cercare insieme ad altri vie diverse per costruire pace, senza cedere alla logica della pura contrapposizione
- Impegnarci concretamente accanto ai crocifissi alle crocifisse di oggi con segni che si prendano cura dei semi di bene comunque presenti, per continuare a costruire con speranza il Regno di Dio.
Post Scriptum
A partire da quanto detto, a mio parere, sarebbe importante come cristiani non lasciarci paralizzare in questa situazione dalla contrapposizione tra “scelte che tengono conto solo dell’ideale” e “scelte che fanno i conti con la realtà”. Ad esempio: è importante affermare che “la guerra in se stessa è un crimine, e va bandita dall’orizzonte delle scelte umane”. Una posizione simile offre un orizzonte verso il quale camminare, che rende il cammino degno di essere percorso e che assicurerebbe un futuro possibile e migliore all’umanità. Ma tale posizione non può permettersi di ignorare le situazioni concrete create oggi dall’uso arbitrario della forza violenta: si tratta di elaborare e mettere in atto scelte che oggi possano ridurre i rischi di tale uso. Per cui diventa necessario distinguere, nella guerra-crimine, i “crimini di guerra”, cioè la necessità di porre un limite al modo di fare la guerra finché essa non venga finalmente unanimemente esclusa come scelta possibile. Si tratta del concetto di “riduzione del danno”, che permette di porre un concreto limite alle atrocità di oggi e del futuro prossimo.
Si sarebbe così in grado di discutere in maniera plurale provvedimento per provvedimento, mantenendo l’orientamento fondamentale per un futuro che richiede molti passi necessari e la messa in atto di una complessità di tattiche per una strategia complessa, capace di affrontare efficacemente livelli molteplici di conflitto.
In questo senso credo anche che fornire armi a chi si difende da un’aggressione possa essere considerato giustificabile, valutandone la proporzionalità rispetto alla situazione. Non lo è invece – penso – l’aumentare il bilancio di spesa per gli armamenti: rischia di procedere non verso la messa al bando della guerra, ma verso una pura minacciosa e instabile “tregua armata”. E non credo sia sufficiente per il futuro dell’umanità.