Cari amici e care amiche,
siamo qui per scambiarci i pensieri che ci sono venuti e gli stati d’animo che abbiamo vissuto in questo mese drammatico. Probabilmente non molto di più. Dovremo però cercare di farlo bene.
Un approccio narrativo
Il 2 febbraio abbiamo fatto una operazione analoga, parlando delle reazioni alla pandemia, ma adesso l’ordine del giorno è cambiato e radicalmente. Sul Covid avevamo poche cognizioni; su questa “bomba” (letteralmente) non ne abbiamo quasi nessuna. Stiamo appena cominciando a capire quanto complicate siano le questioni internazionali e quanto poco ne sappiamo.
Anche la strada degli esperti ci pare bruciata, perché siamo inondati di chiacchiere e di esperti (non di rado improvvisati), anche loro incerti e spesso di parte. Perché la situazione si contraddistingue per un alto grado di incertezza e il caso, le circostanze, gli errori, gli azzardi, vi giocano un ruolo di primo piano. E infine perché la questione riguarda noi come cittadini prima di loro e le decisioni che vengono prese sono tutto fuorché tecniche Esse riguardano troppo direttamente la vita di tutti per essere lasciate agli specialismi. Abbiamo perciò deciso di non chiamare “esperti”. Nei giorni scorsi si è cercato di supplire inviando materiali che aiutassero a riflettere. Altri ne invieremo, si spera.
Il compito tracciato, apparentemente semplice, in realtà non è per niente facile e non solo perché ne sappiamo poco. Prima vengono le domande di posizionamento, per dir così: da che punto di vista parlarne? Chi è il soggetto? In quale cornice?
Alcuni mi hanno detto che preferirebbero non dire niente. Di fronte questioni di questa portata e al grande chiacchiericcio da cui siamo circondati si chiedono: a che pro? Cosa c’è veramente da dire? Cosa ne sappiamo noi? Cosa speriamo di ottenere? Non finiremo per fare i grilli parlanti (questo è certo)? Non aggiungeremo un altro salotto a quelli televisivi, mentre la gente muore?
Viene in mente Wittgenstein, le righe conclusive del “Trattato”: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, nelle quali il filosofo allude all’esistenza di categorie del sapere che esigono il nostro silenzio e ciò nello stesso momento in cui sentiremmo un bisogno estremo di poterle dire in quanto riguardano nostri problemi vitali. Un consiglio che purtroppo non possiamo seguire, per quello che dirò tra breve parlando del mio personale percorso riflessivo nei 36 giorni passati dall’inizio della guerra.
La via che abbiamo pensato essere più utile è di proseguire con il metodo che ci siamo dati, e quindi: uno stile narrativo (raccontiamoci), il gusto per un ragionare complesso (se si può ancora), un certo rigetto per i disturbi del pensiero bipolare (le opposizioni assolute, che ritornano, esattamente come nel caso del Covid, spesso con le stesse persone protagoniste), il tentativo di capire le differenze e di farvi fronte, anche quando radicali (magari aggirandole).
Il dovere di farsi una idea
Comincio io. Raccontando in soggettiva i miei pensieri, diciamo tra il 24 febbraio e oggi. Mi sono sempre detto: “Occupati solamente di temi di cui hai esperienza diretta, che hai studiato, che puoi documentare”. Tuttavia nei mesi scorsi avevo ceduto alle richieste e scritto sulla pandemia (cfr. Newsletter del 3 febbraio 2022), sperando fosse un’eccezione. Il 2 febbraio partecipo con voi al nostro incontro sull’esitazione vaccinale. Un mercoledì vado via per qualche giorno di vacanza. Mi riprometto di rielaborare il lunedì successivo il materiale emerso per trarne il succo. Il giovedì Putin invade l’Ucraina.
In altri tempi avrei cercato di informarmi, ovviamente, oltre che preoccuparmi e addolorarmi, ma non avrei pensato di dovermene occupare in modo più rigoroso, per provare a dire qualcosa. Invece capisco che non potrò farlo e che da lunedì dovrò lasciare la riflessione sulla pandemia, per non dire quella sul rapporto fede politica, e occuparmi della guerra. Contravvenendo di nuovo al mio principio metodologico.
Perché? Perché faccio parte del Forum di Limena, e in più ne sono il moderatore. Non posso perciò seguire il consiglio di Wittgenstein, nessuno di noi può permettersi di farlo. Devo provare a farmi una idea eventualmente comunicabile, a causa di questa appartenenza, e in ragione di ciò che il Forum è.
Mi spiego. Quando siamo nati l’ordine del giorno ci appariva più dominabile. Era il populismo nazionalista, le sue premesse culturali e le sue derive. Un po’ ingenuamente ci siamo presi un impegno con noi stessi e con le nostre chiese (che peraltro nelle loro espressioni istituzionali sono poco interessate a quello che facciamo e diciamo): quello di ritrovarci periodicamente a scambiare idee su quello che la situazione e la storia ci pongono davanti, mettendoci in faccia al “tempo in cui siamo” (per dirla in teologhese). In parole giornalistiche: l’impegno è di “stare sul pezzo”. Finché avremo la disponibilità di farlo, almeno.
Non potevamo prevedere quello che ci attendeva… E ci sentiamo, mi sento, sempre più inesperto e impreparato. Per questo ho intitolato questa introduzione “considerazioni di un inesperto”. Ma in quanto componente del Forum, persona che vi si è impegnata (un po’ troppo dice mia moglie), non posso evitare di “farmi una idea” – questa è la parola. Siamo qui per questo.
La chiarezza sul come collocarsi
Il lunedì dunque, tornato a casa, comincio a leggere e a scambiare idee (per fortuna c’è il web…). Due cose mi pare di capire inizialmente.
La prima è che diversamente da altre vicende passate (la guerra etnico-civile nelle contrade dell’ex Jugoslavia), ma non troppo dissimilmente da altre (l’invasione dell’Iraq ad opera di americani inglesi e altri paesi), qui la situazione appare chiara, da un certo punto di vista almeno. In modo non previsto – non ci pareva proprio possibile… – uno stato sovrano invade un altro stato sovrano e lo fa in modo così sfacciato da non limitarsi alle sue linee di confine (il Donbass); no, sembra intenzionato a invaderlo tutto. E ciò avviene in Europa (ah, il nostro etnocentrismo…).
Come trovate scritto nel primo invito a questo incontro: “L’invasione russa dell’Ucraina configura una guerra che forse per la prima volta si propone formalmente e ufficialmente di convincere un popolo che in realtà esso si è sbagliato, che la strada intrapresa allontanandosi dal suo presunto spirito originario (quello della Rus’) deve essere invertita per il suo stesso bene e che non ha diritto a esistere se non come manifestazione secondaria di un altro popolo, capace di incarnare ancora quella strada. È una guerra delle anime, “metafisica”, come ha detto il patriarca Kirill con la sua sorprendente teologia di corte, e perciò ancora più spaventosa”.
Se è così questa volta c’è una parte “giusta” da cui stare. Non immaginavo ancora le conseguenze problematiche che questa “chiarezza” avrebbe prodotto, anche con aspetti positivi peraltro: la solidarietà con le profughe e i loro bambini, un sussulto di dignità in paesi addormentati.
Le questioni aperte
La seconda è che capirci qualcosa implica prestare attenzione a diverse dimensioni dell’evento su ciascuna delle quali si scatena immediatamente la discussione, per lo più secondo il consueto approccio polarizzante. Ne individuo sette.
- Il perché, le “cause”: le origini e le colpe, gli errori, le “giustificazioni”;
- Una sotto-domanda riguarda il ruolo delle religioni: hanno contato, quanto, come si collocheranno? Possiamo parlare di guerre parallele?
- Le previsioni: che cosa ha in mente Putin e chi lo sostiene (sottolineo “chi lo sostiene” perché è stupido pensare che tutto dipenda da lui); fin dove intendono arrivare? Ieri, la badante moldava di mia suocera è partita per il suo paese. Da casa sua – dice – si sentono i rimbombi dei missili su Odessa. Si sforzerà di convincere sua madre ad abbandonare il mondo in cui vive perché è convinta che “i russi” invaderanno anche la Moldavia. Ha ragione lei? Il conflitto si allargherà? Corriamo il rischio di uno scontro “non convenzionale”? Una domanda cui adesso bisogna aggiungerne un’altra: cosa hanno in mente gli americani? Ci ritorno.
- L’atteggiamento da assumere: sostenere la reazione ucraina d’accordo, ma con quali mezzi: le sanzioni? Inviare armi oppure invitare alla resistenza non violenta? Né sanzioni, né armi? Aderire a un tipo di pace che assomiglia molto a una resa?
- Come uscirne, quali condizioni per la pace: abbattere Putin, accordarsi con Putin. Anche su questo ritornerò.
- La cultura con cui in occidente si rielaborano le reazioni all’invasione, tra desiderio di pace e ritorno di spiriti guerreschi. Mi rendo conto che questo è un problema serio solo in un secondo momento.
- E infine, il quadro futuro, le conseguenze, verso che mondo stiamo andando?
Confesso che nell’arco di soli due giorni, da quando ho cominciato a scrivere questi appunti, le priorità tra i temi indicati sono cambiate più volte. E mi sono trovato a lavorare in uno stato di preoccupazione crescente, perché le notizie che arrivano non erano buone.
Cenni sulle origini della crisi
Portato da sempre, per mestiere, a interrogarmi sulle “cause” inizialmente presto attenzione a quelle. Mi chiarisco su un punto: causa è un concetto che non si presta molto a descrivere quanto avvenuto, perché contano gli attori e le loro rappresentazioni del mondo e contano i desideri dei popoli, non solo le logiche dei sistemi statuali su cui ragiona la scuola realista di analisi delle relazioni internazionali. Mi pare poi di scoprire due cose.
La prima riguarda le spiegazioni date. Leggendo trovo molti modi di rileggere la questione, ognuno con una sua plausibilità, spesso da tenere insieme, non da contrapporre, come invece si fa. Le ragioni sono complesse, ma guarda un po’!
Mi par di capire che la Nato è solo un aspetto. Restando ad essa per un attimo, mi colpisce in particolare il fatto che più che la volontà americana di allargare la presenza Nato a Est ha contato la pressione dei paesi europei post sovietici che non si fidano dei russi. Sono state persone onorevoli come Lech Walesa, e Vaclav Havel a convincere Bill Clinton della necessità di un allargamento a Est. La storia pesa, non solo quella recente del dopo ’89, e oggi quelle paure ereditate dal passato trovano nuovo giustificazioni e conferme.
Inoltre, forse non è stato proprio l’immagine di forza aggressiva che ha condotto alla reazione di Putin, forse ha contato di più la percezione di debolezza che l’Occidente sembra aver offerto in questi anni: Obama che non colpisce Bashar al-Assad, accusato di aver usato armi chimiche, ma che infine ascolta gli inviti alla moderazione di Bergoglio, (mentre già allora il metropolita di Mosca Hilarion inveisce contro gli americani che “in maniera assolutamente unilaterale, senza alcun avallo delle Nazioni Unite, vuole decidere il destino di tutto un Paese con milioni di abitanti”) e infine lascia fare ai russi i quali sostengono Assad; e poi la ritirata indecorosa dall’Afghanistan, gli europei “persi” nei loro consumi benestanti e nei loro traffici.
Ma non è solo la Nato. è tutto il modo in cui (non) è stato pensato l’ordine (e il disordine) post 1989 a venire in questione: la seconda guerra irachena, l’intervento sui Balcani, la Libia, i modi con cui vengono pensate le relazioni con Mosca, gli equilibri geostrategici in Europa, ecc.
In questo quadro i soliti schemi interpretativi, diffusi soprattutto a sinistra, ma anche a destra oggi, non mi paiono molto convincenti; quegli schemi che per brevità riassumo in tre punti: americani cattivi, europei cretini, russi vittime.
- a) Americani cattivi e deus ex machina di tutto ciò che avviene: tutto è deciso a Washington, tutto è programmato, voluto, la storia recente è solo una reazione alle loro decisioni; la loro politica è sempre la stessa da Biden a Trump, da Obama a Bush, a Clinton…
Tendo a pensare al contrario che abbia fatto più danni l’idealismo in salsa liberal e neocon e gli errori conseguenti che non il cinismo del dott. Stranamore, che ovviamente non manca in certi uffici;
- b) europei cretini. Lo si pensa senza però dire che la loro debolezza dipende dal non aver creduto abbastanza nel processo europeo, dall’essersi crogiolati in uno sterile scetticismo, nel riflusso dei nazionalismi e dei regionalismi (come se questi ultimi fossero il vero problema da risolvere). E senza ammettere che molto dipende dal fatto di non essersi mai misurati con la questione della forza, di una forza europea da contrapporre (pardon, affiancare) a quella americana nei tavoli in cui si decide, rendendo possibile dire quando occorre: “guardate signori che potremmo non avere bisogno di voi…”
- c) e dulcis in fundo: russi vittime disponibili all’accordo, ma trattati a “pesci in faccia”, delusi e quindi costretti a reagire. Come se non avessero una propria idea del loro essere nel mondo. E perciò, una lettura che non prende sul serio l’impostazione di Putin (e di Kirill) e il ritorno di una idea panrussa. Il punto era: gli ucraini possono decidere del proprio futuro e possono decidere di scegliere per l’occidente? Nel quadro geostrategico e “spirituale” di un autocrate come Putin probabilmente no.
L’invasione mi pare perciò l’effetto dell’interazione tra un Occidente che tende a riempire i vuoti creati dal dissolvimento dell’Unione Sovietica, secondo una logica ben nota, quasi “naturale”, ma poco meditata e una Russia che ripensa il suo spazio nella storia e si rifiuta di adeguarsi al ruolo che questa sembra averle ormai assegnato. Il problema forse non è solo Putin, il suo carattere autocratico, la sua presunta “pazzia”, cosa in cui non credo.
Il senso vero di una riflessione sulle responsabilità della crisi
La seconda e più importante idea che mi si para avanti è che la riflessione sulle origini del conflitto sia secondaria. Che di fronte all’invasione le comprensioni e giustificazioni lasciano il tempo che trovano. Qui il riferimento alla pace di Versailles che concluse la prima guerra mondiale è dirimente. Come Keynes comprese subito e scrisse in “Le conseguenze economiche della pace”, le condizioni poste alla Germania e all’Austria dai vincitori avrebbero avuto pesanti conseguenze. Queste con ogni probabilità furono all’origine dell’avvento del nazional-socialismo. Ma c’è qualcuno che per questo si sente di sostenere che allora non si sarebbe dovuto reagire all’espansionismo di Hitler, perché anche i vincitori avevano le loro colpe? Nemmeno Simon Weil, che inizialmente era una pacifista tutta di un pezzo, tanto da opporsi all’invio di armi a sostegno dei repubblicani spagnoli dalla cui parte stava, si oppose a questa idea, giungendo al punto di accusare i pacifisti di “predisposizione al tradimento”.
Di fronte a un’invasione bisogna far capire che è una via costosa, che non paga. “Putin va fermato” dice Lorenzo Prezzi, che certo non può essere accusato di essere un guerrafondaio. Deve essere fermato, perché questa è la condizione necessaria a che la guerra si fermi e non riparta il giorno dopo, magari con altri obiettivi. Per questo la resistenza degli ucraini è così importante.
La riflessione sulle origini e sulle responsabilità delle parti in causa – mi dico- non deve scomparire, ma oggi ha senso se orientata a due fini, uno dei quali di carattere pratico-politico e l’altro etico-politico:
È importante perché serve a capire le ragioni dell’avversario e questa è una condizione necessaria per arrivare a un accordo che possa durare, perché anche l’avversario ha le sue ragioni, anche se noi non le condividiamo;
La considerazione delle colpe passate, dal canto suo, non conduce a giustificare la paralisi nel reagire di fronte all’aggressore (a una resa), ma impedisce il fanatismo: essa porta a coltivare e non a rimuovere quella “coscienza inquieta e talvolta lacerata che noi acquistiamo dalle impurità della nostra causa e che ci tiene lontani dal fanatismo, in uno stato di vigile attenzione critica”, come scrive Mounier, richiamato recentemente da Ceccanti.
Armi alla resistenza ucraina? Una discussione salottiera?
Naturalmente seguo tutta la discussione che tra cattolici, ma anche tra “laici”, si sviluppa sul “dettaglio”: inviare armi o non inviare armi (Cfr la Newsletter del 21/03/2022). Dopo un po’ finisce per sembrarmi una discussione vagamente salottiera. Gli stati hanno già deciso, e soprattutto gli Ucraini hanno deciso per noi, di non arrendersi. “Dovremmo dargli lezioni di superiorità morale?” Mi chiedo. “Non sono loro a dover decidere?” Tutto mi sembra diventare l’ennesimo scontro tra gruppi identitari che per affermare se stessi mettono fuori sciarpe, bandierine e spille (dai no vax ai no war…). Con qualcun altro che non riesce a reggere la complessità e sceglie la semplificazione (il problema sono le armi e basta… togliamo quelle di torno e…) e altri ancora che sono preoccupati soprattutto per la loro coscienza.
La discussione mi interessa più che altro per un aspetto, perché questa volta, diversamente che per la guerra dei balcani, se non erro, emerge anche in ambito cattolico una distinzione tra chi ammette un solo criterio di valutazione dell’agire: quello dei principi generali ed astratti (apparentemente moderna se si parla di guerra, ma in realtà antica e poi postridentina) e quello che prova a fare i conti con la situazione secondo l’approccio tipico dell’etica normativa (cara al nostro amico Giuseppe Trentin) e facendo ciò ripropongono implicitamente il concetto secondo me decisivo per fare politica di mediazione. Perché “Una cosa sono i principi senza situazioni e un’altra sono le situazioni che sfidano i principi”, come dice un altro teologo morale (Pietro Cognato).
Quello che mi pare mancare ancora allora nella logica del pacifismo assoluto sono due cose.
La prima è la disponibilità a fare i conti sul serio con “le situazioni che sfidano i principi”. Perché quella creata da Putin è davvero una di queste, maledizione a lui! Si tratta di situazioni in cui, direbbe Mounier: “emergono potenze oscure dalle caverne della vita e dagli abissi del peccato”. Queste circostanze, anche senza scomodare la pletorica teologia del peccato originale, costringono a fare i conti seriamente e inevitabilmente con il problema della forza; perché senza forza non c’è diritto. “La forza è una componente costante dei rapporti umani” (di nuovo Mounier).
La seconda è la capacità di pensare una strategia adeguata di azione, dove per adeguata intendo dire non incompleta e cioè non incentrata solo sulla questione delle armi, ma su una politica capace di tener conto di tutte le dimensioni del problema. Le armi sono conseguenza più che causa come invece si sente dire (cfr. le posizioni di Alex Zanotelli e di tanti altri sulla sua scia). Posto che il problema è “come fermare Putin per fermare la guerra”, come si può agire per farlo? O lo lasciamo fare? Con quali conseguenze sulla mamma della nostra badante?
Su un altro piano la questione è la stessa: se vogliamo una forza europea che conti qualcosa, perché non possiamo farne a meno, altrimenti veniamo letteralmente presi in giro (dai nostri alleati), come la costruiamo, come concepiamo il suo ruolo? Il vero problema mi sembra essere non se, ma se è solo al riarmo che riusciamo a pensare. Ci ritorno più avanti.
Il diffondersi di una cultura di guerra
Nel frattempo mi accorgo con preoccupazione crescente che il dibattito pubblico è ben lungi dal seguire i consigli di Mounier a proposito della “coscienza lacerata”. Di fronte alla incredibile sfida di Putin, il fatto di sentirsi dalla parte giusta, fianco a fianco agli ucraini (si fa per dire…), apre la strada alla cultura bellicista. Pensavamo fosse morta e invece ricomincia ad apparire, con vitalità inattesa. La comunicazione diventa propaganda e i messaggi si fanno bipolari: democrazie contro autocrazie, il bene contro il male, l’Occidente contro l’Oriente. Torna, con protagonisti diversi, lo scontro di civiltà. Mi torna in mente quello che scrive Gian Enrico Rusconi nel suo libro sulla prima guerra mondiale. Anche i tedeschi di allora pensavano allo scontro con l’Occidente per imporre la loro “civiltà” e viceversa. Anche allora si pensava di liquidare la questione in pochi giorni.
Kirill trova i suoi epigoni in Biden (“Non abbiate paura…” dice, citando impropriamente Giovanni Paolo Secondo e Matteo), mentre tanta stampa appare impegnarsi in forma via via crescente nella gestione del “il fronte interno” (cfr. ad esempio il Corriere della Sera), mettendoci una passione astiosa contro chi invoca, magari ingenuamente, la pace, degna di migliori cause.
Naturalmente ci sono anche giornali pacifisti, si fa per dire: “La Verità” ad esempio, il cui retro pensiero è: “ma cosa vogliono questi ucraini, ma perché non la smettono? E datevi una calmata. Noi dobbiamo lavorare. Vogliamo i russi sulle nostre spiagge…”.
Il diffondersi di una cultura di guerra mi preoccupa. Che cosa resterà dopo tutto ciò? Questo è il nostro terreno di lavoro, come Forum, quello politico culturale, mi dico. Qui c’è da fare qualcosa: dare spazio ancora a un discorso articolato, non perdere di vista la complessità, essere consapevoli delle responsabilità, e anche delle colpe, dei nostri paesi senza con questo farsi paralizzare, vedere i pro e i contro, valutare i costi, considerare anche quelli incalcolabili come quelli determinati dal possibile ricorso alle armi di distruzione di massa, ammesso e non concesso che sia possibile; capire gli enormi rischi impliciti in questa polarizzazione, nel breve, ma anche nel lungo periodo (come dirò alla fine).
Abbattere Putin, accordarsi con Putin? Ma dove vogliamo arrivare?
Mi viene la domanda: ma abbiamo tempo? O la situazione sta precipitando? Ripenso a Biden, gli incontri a livello europeo, le sue dichiarazioni in sede Nato, in Polonia: “Putin è un criminale di guerra”, “Putin è un tiranno, non può restare al potere”, “Putin è un macellaio”. Ma non si voleva trattare? All’inizio mi sembra ubriaco: “Andiamo bene” penso e mi dico metaforicamente: “un matto e un ubriaco”. Poi a molti viene il dubbio che non si tratti di “errori”, che gli americani abbiano già deciso (con gli inglesi e forse con il consenso di alcuni paesi dell’est europeo). In due giorni tra molti commentatori, che spero ancora – lo spero davvero – si sbaglino, il dubbio diventa certezza. Giovedì sera la signora Anne Applebaum, ascoltata commentatrice di politica internazionale (The Atlantic, John Hopkins University) dal salotto della Gruber ce lo spiega con la sua faccia cerulea e risoluta: il problema non è arrivare a un accordo con Putin, oggi la questione è “vincere la guerra”. “L’Ucraina può farcela”e noi così possiamo abbattere Putin, chiudendo sul serio la stagione della guerra fredda. E mi trovo di nuovo di fronte alla vecchia idea che non debbano essere i russi (i popoli) a dover risolvere la questione, a togliere di mezzo un leader il cui progetto di grande Russia è già fallito. Ma che sia una forza esterna. I disastri generati in passato da questa idea (Gheddaffi, Saddam, ecc.) sono già scordati.
La vera questione dunque è ben altra che fornire o non fornire armi, la questione è: dove vogliamo arrivare? Quali rischi intendiamo correre? Cosa resterà dell’Ucraina? È giusto strumentalizzare la resistenza di quel popolo per altri fini?
Domande ingenue sull’Europa
E cominciano a questo punto in me nuovamente le domande sull’Europa, quelle ingenue, come tutte le domande sull’Europa. Ma l’Europa c’è? Cosa avranno detto i leaders europei a Biden e lui a loro? L’Europa può svolgere, se non oggi domani, un ruolo che sia ad un tempo deciso, ma anche moderatore, per la sua memoria storica e, se non altro, per la consapevolezza dei rischi che noi corriamo, prima ancora e più degli americani? C’è qualcuno tra questi leaders europei che ha il coraggio di spiegare ai propri cittadini i termini della questione, i rischi, le rinunce che occorre fare? Spero ancora che tutto non sia già deciso, che ci siano margini per discutere. Ma non lo so.
E riprendo ancora a pensare all’Europa. Il 15 febbraio del 2003 le principali capitali europee vengono attraversate da imponenti manifestazioni di piazza contro l’invasione dell’Iraq da parte non dell’ONU, ma di un gruppo di paesi “volonterosi” capeggiati dagli Stati Uniti di George Bush, poi rivelatasi del tutto ingiustificata e disastrosa nei suoi effetti. Si parla di 110 milioni di persone nel mondo e di tre a Roma). Il 31 maggio Habermas e Derrida, in un documento importante pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal titolo “Dopo la guerra: la rinascita dell’Europa”, scrivono che è nata finalmente un’opinione pubblica europea. Chiedono che si avvii una collaborazione rafforzata tra i principali paesi dell’Europa continentale, con una politica di difesa, di sicurezza e una politica estera comune. Immaginano una costellazione post-nazionale, impegnata a portare avanti un ordine cosmopolita, basato sul diritto internazionale. E individuano uno dei tratti fondamentali della coscienza europea, in “una soglia di tolleranza comparativamente più bassa di fronte all’uso della forza”.
I paesi europei successivamente non hanno fatto molti passi avanti in questa direzione, come sappiamo. Paghiamo i costi del ritorno dei nazionalismi in versione populista, dei particolarismi, delle difficoltà a comporre interessi “mercantili”, della stupidità pura e semplice.
In tutti questi anni i nostri paesi si sono illusi che fosse possibile mettere da parte del tutto la questione della forza, che lo sviluppo dei traffici e dei mercati, legando tra di loro gli stati del mondo in quel processo che è stato poi chiamato di globalizzazione, sarebbe stato sufficiente a garantire la pace. Non a caso abbiamo fatto così fatica ad accettare l’idea che la Russia potesse invadere l’Ucraina. Nonostante i suoi limiti, messi in luce da molti, la via mercantile alla pace era probabilmente una ipotesi che andava verificata. Oggi però la provocazione di Putin ci dice che il re è nudo e il tema ritorna.
Che cosa mi disturba della questione del 2% delle spese militari di cui oggi si discute in Italia e altrove? Non tanto il fatto in sé, non ho interesse a discutere se si deve andare all’1,9% o al 2,1% e in quanti anni (queste cose le lasciamo allo specialista in penultimatum, l’avvocato Conte), quanto al fatto che nel silenzio sulla strategia di fondo – accordarsi o abbattere Putin – questa sia l’unica proposta che si riesce a pensare. L’Europa non può essere solo questo. L’Europa sta forse lavorando per il ritorno a un mondo bipolare basato esclusivamente su politiche di potenza? “Pazzi” direbbe Francesco.
In che mondo vivremo?
E faccio un solo cenno alla questione che in realtà, almeno fino a ieri mi sembrava quella centrale, prima che l’idea di una guerra condotta avanti fino all’abbattimento del regime vigente in Russia balenasse all’orizzonte. Che mondo uscirà da questa situazione? Un mondo diviso in buoni e pericolosi cattivi? Un mondo bipolare, segnato da una cultura bellicista, dove l’unica salvezza può venire da una politica di potenza basata sulle armi (come scrive Rovelli, in un suo peraltro discutibile intervento)? Un mondo dove non ci sono voci forti – in tutti i sensi del termine – che si caratterizzano per una “soglia più bassa nel ricorso alla forza militare” e che, ritornando a fare memoria di che cosa è successo qui da noi nel corso del 900, riprendano in mano “il desiderio di un ordine internazionale regolato secondo il multilateralismo e il diritto” collegandolo alla “speranza di una vera politica mondiale nella cornice di Nazioni Unite riformate”?
Un mondo sempre più diviso, che vada in questa direzione, come potrà affrontare le prossime pandemie e, soprattutto, la sempre più urgente questione ambientale e climatica? Come si farà a mettersi intorno a un tavolo e ragionare in modo cooperativo?
Ecco, l’alternativa per l’umanità oggi sembra essere quella che si staglia tra un sogno ingenuo e una catastrofe di fronte a cui dovremmo già considerarci spacciati.