Corbellerie italiche, crisi dell’Occidente e quella losca idea di trattare con Putin senza mandare armi: lo storico ci spiega perché “essendo gli ucraini quelli che resistono sono loro i padroni della trattativa.
Professor Galli della Loggia, questa è un’intervista sul cosiddetto “realismo”. Quelli che dicono “a che serve prolungare la carneficina”, anche mandando armi all’Ucraina, meglio trattare con Putin. È semplicemente una riedizione dello spirito di Monaco o qualcosa di più complesso?
Diamo un nome alle cose. La carneficina si può chiamare anche resistenza. A che serve la resistenza? A logorare le forze del nemico, cosa che mi pare stia accadendo. Se i russi non sono lì a dettare le condizioni è perché c’è stata la carneficina. E combattere implica anche che si possa morire, ma vale per entrambe le parti. Sappiamo poco dei numeri della carneficina dei russi che però pesa eccome, perché Putin non può sopportare più di tanto i morti, senza che qualcosa inizi a scricchiolare, come trapela a proposito di segnali di insofferenza interni anche nell’organismo militare.
Sempre lì si torna, alla resistenza come presupposto della trattativa.
Qui c’è un punto veramente bislacco su questo “trattiamo”, senza che peraltro Putin sembri averne molte intenzioni. Essendo gli ucraini quelli che resistono sono loro i padroni della trattativa. Sono loro che bisogna ascoltare prima di avviare qualunque trattativa. Si può immaginare che qualcuno tratti a nome loro, i quali peraltro è da giorni che con i russi trattano, con i risultati che vediamo? In verità l’idea, per come è formulata, sottintende una cosa loschissima: noi trattiamo con Putin per ridurre il nostro aiuto alla resistenza. Così gli ucraini, indeboliti, sono in qualche modo costretti a cedere e noi facciamo bella figura.
Ci vede anche un eccesso di “politicismo”, anche molto italiano, neanche fosse una crisi di governo? “Mandiamo la Merkel”, “apriamo il tavolo”, che poi non si capisce perché dovrebbe riuscire la Merkel dove non ce l’hanno fatta Scholz e Macron.
Non è un eccesso di politicismo, sono pure corbellerie. Perché la Merkel dovrebbe accettare, col rischio di andare a sbattere contro un muro e giocarsi immagine e storia personale? E poi perché dovrebbe riuscire dove altri hanno fallito, peraltro senza rappresentare più neanche la Germania? Perché sa il russo? E perché mai il cancelliere socialdemocratico in carica dovrebbe mandare lei, la sua ex principale avversaria politica, perché dovrebbe regalare un eventuale successo alla Cdu? Lei capisce: parole in libertà.
Lei ha detto una cosa importante: sono gli ucraini i titolari del proprio destino. Quanto impatta la cultura del benessere, intesa come predisposizione a una lettura materialistica del conflitto, nel sentirci noi padroni del loro? Voglio dire: l’altra sera da Lilli Gruber era ospite un tennista ucraino, che è stato numero 31 del mondo, non ha mai preso una pistola in mano e si è arruolato, pur non sapendo sparare, in nome della libertà, bene non negoziabile.
Questo esempio che lei fa riguarda innanzitutto il tema della coesione e della cultura nazionale. Il tennista va lì anche perché, se non impugna le armi, quando torna a impugnare una racchetta su un campo ucraino deve fuggire sotto una valanga di fischi. È il sentirsi nazione, comunità di destino. Poi c’è il tema della cultura della virilità: gli uomini combattono, le donne stanno a casa o mettono in salvo i bambini, una cultura che contraddice un secolo dei nostri discorsi sul gender. Per noi, che concepiamo solo il diritto di vivere è inconcepibile il dovere di combattere e del coraggio fisico, anche rischiando di farsi ammazzare. E qui l’elemento fondamentale è la religione: se credi in Dio muori più facilmente. Se togli la trascendenza divina dalla cultura diffusa di una società anche per gli atei rischiare di morire diventa più difficile perché i valori sono un universo complesso nel quale in qualche modo si tengono tutti assieme: la libertà non si mangia, è qualcosa di trascendente e il martirio ha un coté religioso. Tutta la storia culturale degli ultimi due secoli viene messa alla prova.
Domanda vasta: quanti punti di Pil siamo disposti a sacrificare per la libertà, percependo la loro libertà come la nostra, al netto della retorica del siamo tutti ucraini? Resistenza o bollette?
Bella domanda. A giudicare dal discorso che abbiamo fatto, direi pochissimi punti. Viviamo in una cultura politica dominata dall’economia e ad essa subalterna. I valori forti, ideologici – libertà, democrazia – sono stati cancellati mentre la delega a difenderli è stata assegnata al mondo anglosassone. Una cosa come l’Ucraina implica una riconversione brutale che ci trova impreparati totalmente.
Insomma professore, trent’anni dopo l’89 e l’illusione della “fine della storia” si ripropone il tema di un nuovo ordine mondiale.
È un cambio di paradigma. Il Covid prima e l’Ucraina poi fanno crollare l’utopia del mondo globalizzato: un mercato che si regola solo sulla base della domanda e dell’offerta, dove si può mettere da parte la politica. E invece il mercato dipende dalla geopolitica, non solo dalle merci. Questo il punto: se l’energia non ha un prezzo di mercato ma politico, la costruzione liberista sul dominio del mercato va a farsi friggere. Esistono i paesi, gli Stati, la politica, non solo l’economa.
All’impreparazione di cui parla contribuisce anche il presentismo di cui è imbevuta la società attuale per cui tutto si deve consuma in 24 ore, siamo disabituati ai tempi lunghi, ai processi storici complessi?
Assolutamente. La clamorosa perdita dalla memoria e della dimensione storica del problema non è solo un segno dei tempi, ma è dovuta anche alla catastrofe delle nostre istituzioni scolastiche, con particolari responsabilità della destra che ha ridotto le ore di storia dall’istruzione scolastica e cancellato la geografia. Pensi: nel momento del trionfo della geopolitica! Si parlava di “Monaco”: ma in quanti sanno che cosa capitò a Monaco, che cosa significa? Se non conosci la storia del tuo paese e quella del mondo è tutto schiacciato sul presente, non sai da dove vengono e cose di cui oggi godi, non senti il bisogno di difenderle.
Lei ha scritto: “La libertà dell’Ucraina fa paura a Putin”. Cioè, dice, tra le ragioni dell’invasione non c’è la presunta estensione della Nato, ma il fatto che l’Ucraina, la democrazia ucraina, rappresenta il “cattivo esempio”, che reca in sé il rischio del “contagio della libertà”.
Sì, certo, anche questo spiega l’ira funesta che non ci fu ai tempi dell’adesione alla Nato di Estonia, Lituania, Lettonia, Paesi baltici. Più in generale la questione è questa: la Russia, dopo il crollo del comunismo, ha conosciuto una gigantesca catastrofe geopolitica. Ha perduto territori, che si sentono attirati dalle democrazie occidentali e dal modello dei consumi, si è vista crescere al proprio confine la gigantesca potenza cinese. Abituata a considerare la sua gigantesca spazialità come determinante nel suo potere, quasi della sua identità storico-politica, si è vista messa in discussione in misura irreparabile.
Solo “spazialità” o c’è anche una dimensione “ideologica” in senso stretto in questa guerra? Che non ha a che fare con l’Urss, infatti Putin, proprio sull’Ucraina, ha sancito una discontinuità rispetto a Lenin, ma che comunque parte dal rifiuto della democrazia.
La politica di potenza è l’unica che la Russia concepisce. Dopo il ’91 avrebbe dovuto fare i conti con la modernità tecnologica, e abbandonare il potere come pura spazialità. Insomma: alla Russia è mancato Deng Xiaoping e, invece di seguire la via di una modernizzazione tipo cinese, è diventata una specie di Arabia Saudita dell’Est, che punta ancora e sempre su materie prime e potere militare. Guardi l’iconografia delle leadership, di Putin e Zelensky, ad esempio. Uno si fa la croce in una chiesa che se la prende con i gay, fa i bagni con l’acqua gelata, combatte contro un orso, cose arcaiche. Zelensky invece è una specie di Woody Allen ucraino.
E quanto c’è di ideologico anche nel pacifismo, dove sta avvenendo una saldatura tra russofilia della destra populista e vetero-sinistra, per cui l’imperialismo è sempre americano e, se non c’è quello, diventa neutralismo il neutralismo. Il “né né”, “né con la Nato, né con Putin”.
Non è ideologia, ormai è muffa ideologica. È la saldatura tra reducismo di certa sinistra e la miseria politica della destra. Ma come si può pensare che diventare amico di Putin ti assicura un qualsiasi avvenire politico in Occidente? Io capisco che se uno lo fa per soldi o affari, allora può essere un ottimo investimento, ma se lo fai come investimento politico ci sta che, quando metti il naso fuori d’Italia, quando vai in Polonia, come minimo ti danno del buffone. C’è un elemento di primitività ideologica in questo sbandamento italiano per Putin.
Quanto le leadership in questa storia determinano i fatti e quanto invece i fatti stanno determinando le leadership? Quella di Zelensky dalla resistenza, Biden che torna alto nei sondaggi da un nuovo protagonismo dopo il ritiro dall’Afghanistan, la debolezza dell’Europa al contrario.
Sono discorsi complicati. Di una cosa però sono sicuro: che se a Kiev invece di Zelensky ci fosse stato Mariano Rumor le cose sarebbero andate molto diversamente.