Sintesi a cura di Alessandro Bruni
Un virus non ha intenzionalità, se non forse quella di trovare degli ospiti per replicarsi, poiché è incapace di farlo da solo. Contrariamente a ciò che si è potuto leggere e sentire un po’ ovunque, il virus responsabile del Covid-19 non è affatto comparso per farci la morale e tanto meno per castigarci. Ma, in mancanza di insegnamenti diretti da parte sua, possiamo trarne noi alcuni per conto nostro, analizzando quel che abbiamo appreso da lui, o osservando gli effetti che ha esercitato su di noi, in particolare sul nostro modo di parlare di scienza. Per esempio, ora sappiamo meglio di prima che le grandi pandemie a venire saranno delle “zoonosi” – vale a dire delle infezioni virali che riescono a infrangere la barriera fra le specie per propagarsi dall’animale all’uomo –, la cui diffusione è favorita dagli sconvolgimenti ecologici prodotti dall’attività umana. È dunque giunto il momento di prendere atto del fatto che l’umanità non potrà astrarsi dal mondo a suo piacimento; non è una bolla autonoma, a sé stante. Essendo parte integrante della natura, non sarebbe in grado di emanciparsene radicalmente. Curioso rovesciamento, peraltro: mentre ancora in tempi recenti alcuni tecno-profeti preannunciavano l’imminente liberazione da ogni paura legata alla nostra corporeità grazie alle nuove tecnologie, eccoci crudelmente e bruscamente ricondotti alla nostra “base biologica”; e per lunghe settimane, invece di scorrazzare per il mondo atteggiandoci sempre più a “signori e padroni della natura”, abbiamo dovuto saggiamente restarcene a casa, isolati come facevano i nostri antenati.
Un’occasione storica per spiegare che cos’è la ricerca
Ulteriori insegnamenti si possono trarre dal modo in cui i media hanno trattato gli aspetti scientifici della pandemia. Abbiamo avuto un’opportunità quasi storica per spiegare al grande pubblico, in tempo reale, giorno dopo giorno, i metodi scientifici: i suoi avanzamenti per prove ed errori, i progressi, i molteplici espedienti, i successi, ma anche che cosa sono un esperimento in doppio cieco, uno studio randomizzato, l’effetto placebo, l’uso corretto dei dati statistici, la differenza fra una correlazione e una relazione di causa-effetto… Anziché cogliere tale occasione, abbiamo preferito mettere in scena un’interminabile fiera di personalità dotate di un ego che spesso ha travalicato ogni misura. Alcuni attribuivano addirittura alle proprie “impressioni” un credito così elevato da giungere a troncare a colpi di semplici frasi a effetto questioni vertiginosamente complesse, pur ammettendo – almeno i più onesti fra costoro – di non saperne assolutamente niente (“Non sono un medico, però…”).
Temo che, così, una parte dell’opinione pubblica si sia lasciata ingannare, fino a considerare ormai la scienza una mera questione di opinioni che si affrontano senza mai raggiungere un accordo. Lo temo tanto più oggi, dal momento che la tendenza ad avere un parere confuso su tutto e a diffonderlo ampiamente sembra acquisire forza grazie ai social network. Seguendo questa scia, si diffonde l’idea che la scienza non sia altro che una credenza come tante altre: una sorta di Chiesa, insomma, che produce pubblicazioni così come i pontefici emettono bolle papali, che i non credenti possono a loro piacimento non solo contestare, ma anche bersagliare di critiche affilate. Sia ben chiaro: sono pienamente consapevole che viviamo tutti immersi in una palude di pregiudizi e che gli scienziati – che si esprimano pubblicamente o meno – non sfuggono alla regola. Se riescono a disfarsene nel loro ambito di competenza, non è certamente purificando il proprio intelletto, né sottoponendosi a una terapia personalizzata di disinteressamento, né ripulendo le proprie frasi, ma adottando collettivamente un metodo critico che consente di risolvere i problemi grazie a molteplici ipotesi e tentativi di confutazione. Una verità “scientifica”, di norma, non deve poter essere dichiarata tale se non in seguito a un contraddittorio aperto, che conduca per quanto possibile a un accordo. Ovviamente, non ignoro che esistono zone grigie, situazioni ambivalenti dove la verità, esitante, talvolta addirittura plurale, si presta alla discussione. Ma sono, allora, la prudenza e l’umiltà che dovrebbero imporsi. E sottolineo “dovrebbero”… Neppure ignoro che gli scienziati non sono privi dei difetti tipici del genere umano: malafede, arroganza, stupidità, avidità, impulsività, cecità, follia. Come tutti noi, anch’essi possono sbagliare, subire l’influsso delle ideologie o delle lobby, talvolta anche imbrogliare, per cui le loro dichiarazioni in merito alla verità di questo o di quel risultato non andrebbero prese per oro colato. Resta il fatto che in generale, grazie appunto al lavoro collettivo condotto all’interno stesso del campo scientifico, tali errori finiscono per essere scoperti e denunciati.
Quando le distorsioni cognitive rubano la scena
Esistono molteplici distorsioni (bias cognitivi) assai note che vanno a influenzare i nostri giudizi, quattro delle quali hanno prosperato particolarmente durante la crisi.
- Primo: la tendenza ad accordare maggior credito alle tesi che ci piacciono rispetto a quelle che ci sono sgradite. Senza entrare nei dettagli, siamo spontaneamente più propensi ad aderire a quelle “verità” che rispondono ai nostri auspici, rifiutando in tronco tutte le altre. Governati come siamo dalle nostre emozioni, dal nostro feeling, prendiamo i nostri desideri per realtà, e non importa se sopraggiungono fatti o argomenti a smentirci.
- Secondo: quel che alcuni chiamano spiritosamente l’ipsedixitismo: «Poiché lo ha detto il maestro (ipse dixit), allora non si discute». L’autorità che accordiamo a X o a Y ci porta a considerare come vere tutte le affermazioni sostenute da costoro, dispensandoci dall’esercitare il nostro spirito critico. Questa sensibilità per gli argomenti proposti da persone autorevoli deriva in qualche modo dall’“effetto guru”. Nella sua forma peggiore, questo vizio ci spinge a credere che una cosa è vera per l’unica ragione che l’abbiamo letta o ascoltata.
- Terzo: l’ultracrepidarismo, altro neologismo malizioso costruito a partire dalla locuzione latina: Sutor, ne supra crepidam («Ciabattino, non andare oltre le scarpe»). Il termine designa la tendenza, molto diffusa, a parlare con sicurezza di argomenti che si ignorano.
- Quarto: l’effetto “Dunning-Kruger”. Discutere con disinvoltura di quel che non si conosce è la manifestazione di una distorsione cognitiva identificata da molto tempo (Aristotele la evoca a suo modo) e che fu studiata empiricamente nel 1999 da due psicologi americani, David Dunning e Justin Kruger. L’effetto si articola in un doppio paradosso: da un lato, per misurare la propria incompetenza, bisogna essere… competenti!; dall’altro, l’ignoranza rende più sicuri di sé rispetto a una certa conoscenza. Infatti, è solo approfondendo una questione, informandosi, indagando su di essa, che la si scopre più complessa di quanto si sospettasse. Si perde allora la propria sicurezza, per riguadagnarla poco per volta, man mano che si diventa competenti – ma, da questo momento in poi, con un pizzico di prudenza.
Detto ciò, il diritto dei cittadini a porre domande, a indagare, a esprimere pareri, a interpellare i ricercatori così come i governanti, resta nondimeno un diritto assoluto. E deve essere soddisfatto nel modo più onesto possibile. Ma avere un parere non equivale affatto a conoscere la correttezza o la falsità di un enunciato scientifico. Le riviste scientifiche non sono certo perfette – capita che pubblichino articoli contenenti errori o che presentino conclusioni falsate –, ma né Twitter né Facebook hanno la vocazione di fare concorrenza a «Nature», e ancor meno di prenderne il posto, come tendono talvolta a fare in questi ultimi tempi