DALLA COMUNITA’ ALLA CO-GOVERNANCE DELLA CITTA’

Provo anch’io ad inserirmi in questa interessante questione che tanto ha a che fare con la preoccupazione che ogni cristiano deve sentire per le sorti della sua gente, dell’umanità.

Lo faccio da una prospettiva di passione politica che fin dalla mia famiglia di origine mi ha segnata e che mi ha portato ad abitare gli spazi politici da più dimensioni: vissuta sempre come cittadina, dentro le istituzioni, discussa, studiata e adesso anche insegnata…

La premessa da cui vorrei partire è la convinzione che la politica sussiste ed è efficace solo se relazionale, solo se tutti e ciascuno si sentono chiamati ad essere soggetti attivi. Essa non può più funzionare solo nutrendosi della (peraltro basilare) forma rappresentativa, ha bisogno di una nuova responsabilità reciproca.

Se, come dice la scrittura l’autorità viene da Dio, il fraintendimento che ci ha guidato per secoli è stato l’aver pensato che la sua fonte era un Dio monocratico. L’autorità si sviluppava come una retta che da Dio passava al politico che così – quando andava tutto bene – era capace da solo di organizzare la società. Anche la legittimazione democratica dei cittadini non cambiava la sostanza di questa monocraticità verticale. Ci siamo dimenticati che il nostro Dio è un Dio trinitario, un Dio comunità. L’autorità del politico nasce da una Comunità e la sua capacità di produrre decisioni positive è legittimata e sussiste solo se alimentata da un rapporto paritario di reciprocità con i cittadini.

Detta questa premessa non vorrei, in questa occasione, né affrontare la questione della nostra collocazione, di quale sia la nostra parte, né occuparmi dei politici intesi in senso stretto.

Vorrei invece approfondire la necessità per noi cristiani di “prendere parte”, di essere parte della storia del cambiamento in atto, spingendolo verso novità positive.

Vorrei proporre due fronti di impegno che a mio parere sono indispensabili per praticare a pieno la grande potenzialità che le nostre comunità possono avere, se porose ed inclusive verso l’ambiente che le circonda: affrontare, come comunità, le domande politiche del nostro vivere collettivo; vivere dentro la nostra città promuovendo una logica di co-governance.

Affrontare, come comunità, le domande politiche del nostro vivere collettivo.

Il costruire comunità, dentro le nostre parrocchie, dentro i nostri movimenti, le associazioni, comunità, non ci allontana dagli interrogativi che oggi la storia pone, anzi ci fa incrociare la sostanza delle sue fratture, è quindi per noi il retroterra imprescindibile per ogni risposta.

Alla radice delle grandi domande rivolte alla politica oggi, è possibile scorgere un elemento che le accomuna tutte: la mancanza di comunione tra gli uomini. Penso al bisogno di community globale che risulta l’unica soluzione alla crisi del welfare, penso all’innegabile comune humus di ingiustizia sociale e politica che rende instabile il nostro equilibrio democratico, penso alla difficoltà di avere davanti agli occhi le generazioni future quando consumiamo ambiente, penso anche alla mancanza di spazio per le minoranze e le diversità dentro una società artificialmente globalizzata… La potenzialità della risposta che siamo in grado di offrire come cristiani, e che mi pare ancora non del tutto esplorata, sta esattamente in questa “capacità di comunità” che, pur tra luci ed ombre, ci caratterizza.

Le nostre comunità sono un laboratorio dove persone diversissime, dai bambini, ai ragazzi, giovani, adulti, anziani, sono accomunate dalla stessa esperienza di figliolanza con Dio Padre e possono, senza timore della differenza, assumere insieme degli impegni verso il loro vivere civile.

Provo a entrare – tra i tanti possibili – in un esempio concreto.

Immaginiamo, per esempio, per il mondo della sanità: medici, infermieri, malati e famiglie, portantini e amministratori, che, ognuno con la propria funzione e la propria diversa responsabilità, si ritrovano su un piano paritario, riuniti dall’appartenenza alla Chiesa, per capire come risolvere i problemi, come portare novità in un ospedale, come fare della propria presenza un servizio e come trasformare l’ambiente, in cui si trovano ed operano con ruoli diversi, in una comunità. In un Paese in cui vige incontrastata la logica della “conventicola”, siamo in condizione di vivere un’esperienza nuova, che può essere determinante per tutti, in un momento in cui la complessità mette in crisi professionalità ed equilibri. Uniti dalla fede in un Dio che si è incarnato e che quindi invita a non fuggire le scelte che la vita comporta, ciascuno è chiamato ad offrire la propria diversità, come dono che arricchisce la capacità di comprendere e governare i fenomeni, come sfida per dimostrare che il Bene Comune è declinabile ed il dialogo non mette in crisi la propria libertà, ma la sostanzia. Ed ancora una volta potrebbe apparire chiaro che in un paese lacerato da profonde, spesso insensate, divisioni su ogni campo, la forza della Chiesa è la sua esperienza, una comunità caratterizzata dall’avere radici in Cielo e cuore in terra. Questo sarebbe un modo di procedere, che può indicare all’Italia un metodo interessante.

Promuovere una co-governance delle nostre città.

Vivere assieme nella mia città, insieme agli altri, per cambiare la città. Il “bene comune”, fondamento della nostra cultura, ci invita proprio a questo, a uscire dalla porta, dal giardino di casa nostra, coltivare in noi e tra noi la cultura del Bene Comune. Le nostre comunità possono essere capaci, abitando, percorrendo la città, di vedere in essa il disegno che essa nasconde in sé: non una somma di individui assieme per caso, ma una potenziale vocazione che va aiutata a crescere.

Non c’è bisogno di cambiare status, perché è chiesto a ciascuno di essere ciò che è. Se sei un medico, se sei un macellaio, se sei un insegnante; se lavori in casa: ognuno, laici, sacerdoti, ha in mano un pezzo esclusivo di bene comune. Certo c’è bisogno di entrare nella logica dell’appartenenza alla propria comunità civica, perché la Speranza che dobbiamo portare al mondo deve aprirsi, per essere visibile, in un progetto concreto, preciso. Deve diventare una realtà in cui immediatamente posso coinvolgere quello del pianerottolo del mio condominio… sistemare una strada, ma anche fare una biblioteca, avviare dei cineforum, aiutare chi non paga le tasse a pagare le tasse…

In questo esercizio, tutti, qualunque cultura, genere, censo, saremmo capaci di lavorare assieme fino ad essere capaci di suggerire un progetto sulla città. Lavorare assieme agli amministratori per attuarlo, ma anche arrivare a dare gambe direttamente a questo progetto entrando nel palazzo, sempre portando il frutto di una comunità che sente sua la città.

E per chiudere almeno voglio nominare un ultimo fronte di “responsabilità”: spendersi nella formazione alla cittadinanza attiva. Ne cito un solo effetto: riuscire a leggere – per universalizzarle e “modellizzarle” in modo da renderle risposte strutturali di sistema – le tante, diverse, eclettiche, efficaci esperienze di solidarietà e di fraternità tipiche delle nostre comunità.