Molti veneti, anche di diversa opinione politica, nonostante il passare degli anni e senza risultati, sembrano affidare le loro speranze ancora al sogno di una regione autonoma dal centro, finalmente in grado di decidere da se stessa del proprio futuro e, perché no, capace di trattenersi una robusta quota delle tasse raccolte. La classe dirigente regionale è interessata a alimentare questa illusione, perché ne ha fatto il proprio principale motivo di legittimazione, mentre il periodico riemergere di iniziative parlamentari volte a discutere l’attuazione del regime di autonomia differenziata sembra, ma solo apparentemente, confermarne la validità. La ministra per i rapporti con le Regioni, Maria Stella Gelmini, proprio in questo periodo, dice che intende “accelerare”, ma forse intende “ritardare”. Non è la prima e non sarà nemmeno l’ultima.
Ma quanto di fondato c’è in questo “sogno”? Il ballo a cui siamo chiamati è proprio quella del regionalismo spinto o quello che si fa in città è un altro tipo di danza, da cui rischiamo di essere esclusi? Perché la discrasia tra narrazioni celtiche (virtuali) e centralizzazione romana (reale) va avanti da troppo tempo e a un certo punto si dovrà pur chiederne conto a chi alimenta le prime facendo finta di non capire che le cose vanno in direzione opposta.
Per rispondere a queste domande è assai utile leggere l’ampia intervista rilasciata alla rivista “Una Citta” da Marco Cammelli, uno dei più apprezzati studiosi della pubblica amministrazione italiana. La lettura richiede un certo impegno, ma è davvero un bagno di realismo, cui invitiamo tutti coloro che ci seguono.
Cammelli sostiene che: “Le regioni sul piano della politica non hanno sfondato”. “Il nostro è un centro che non ha cambiato una virgola da quello di cent’anni fa e le ultime riforme vere sono quelle di Giolitti”. Anche negli stessi anni in cui si è attuato il più deciso tentativo di decentramento amministrativo – quello intentato dalle riforme Bassanini – il personale dello Stato centrale invece che diminuire è aumentato.
La Costituzione del resto disegna fin dall’inizio un sistema di relazioni centro periferia essenzialmente garantistico, pensato cioè per sostenere chi perde le elezioni nazionali e per proteggere le regioni dalle prepotenze del Centro, senza un rapporto organico, costruttivo tra i due. Le Regioni costituiscono uno spazio aggiuntivo destinato a risolvere i problemi politici del Centro. Questo e non altro sono i conflitti stato regioni che si sono manifestati anche nel corso della crisi pandemica. Chi a Roma era escluso dal potere diretto ha cercato di usare il proprio predominio nelle regioni del Nord subordinando queste istituzioni alle proprie strategie di lotta politica al centro.
Nello stesso periodo in cui le regioni nascono del resto il Governo sposta al centro larga parte del prelievo tributario. Con la crisi finanziaria del 2008, mentre Bossi se ne va su e giù per il Po a parlare di secessione e a versare ampolle “avviene una delle centralizzazioni più dure e feroci che siano mai state fatte”. Oggi inoltre “l’applicazione del Piano europeo di sostegno (Pnnr) darà una curvatura ancora più centralizzata al nostro sistema almeno per un decennio”. “Lo spazio per la potestà legislativa regionale si ridurrà ulteriormente”. “La regolazione ormai è migrata altrove. Al centro nazionale e al centro comunitario. È lì che si fanno le regole. Dalle altre parti si applicano e al massimo si adattano”. Questo è il ballo che si fa in città e a cui occorre partecipare.
L’autonomia delle regioni non scompare, ma si gioca su un piano diverso da quello del regionalismo spinto, di natura competitiva e aggressiva. Al contrario c’è bisogno di un “regionalismo cooperativo che collabora all’applicazione di politiche europee e nazionali agevolando il sistema locale a trovare la propria cifra nella loro applicazione”. Altro spazio per le regioni, che potrebbe accrescere il loro peso istituzionale, deriva dalla partecipazione alle decisioni centrali. Perché in ogni caso “il Centro è il punto chiave”. Vi sono modifiche dei ministeri e del loro modo di agire, il passaggio “dal fare al far fare” prima di tutto, che sono indispensabili. La periferia non può limitarsi a rivendicare autonomia e a lamentarsi per non averla ricevuta, rischiando una crescente irrilevanza sulle questioni importanti che riguardano il Paese intero. La riforma dei ministeri non costituisce faccenda che riguarda solo lo Stato centrale, ma è interesse delle stesse Regioni. Minacciare di “andarsene per conto proprio” non risolve il problema, semmai lo aggrava.
Si deve perciò cercare di uscire dal dualismo garantista da cui sono nate le Regioni per andare verso modelli di natura cooperativa che sono essenziali per l’intero sistema. Due sono le spinte da evitare: quella di chi concepisce il Centro come un sistema tolemaico statico, eretto a difesa di grandi riforme caratterizzate da rigide uniformità garantistiche e quella di chi in senso opposto immagina la disarticolazione del sistema in sottosistemi reciprocamente impermeabili a difesa di piccole patrie o più prosaicamente delle proprie risorse finanziarie.
È sull’intelaiatura di base del sistema che andrebbe riportata la discussione. Sarebbe ora che il ceto politico, quello regionale in particolare, smettesse di “nascondere tutto sotto il tappeto” e dicesse con franchezza come stanno le cose, invece che alimentare speranza destinate a restare inesorabilmente deluse.