Ognuno parla di quel (poco) che sa. Almeno questa è la regola che mi sono dato, mentre i capelli si diradano e gli anni passano. Per cui, a me, giornalista per passione, editore di mestiere, credente feriale, chiedere di parlare di fede e politica, beh, mi sembra quasi troppo. Ho esperienza (poca) della prima, la seconda l’ho frequentata da cronista locale quando tra un consiglio comunale e una polemica sulla partecipata, c’era da sentire Tizio, Caio e l’Altro, registrando – ahimè – come spesso il “chi grida di più, la vaca l’è sua” sia diventato il sostituto (amaro ammetterlo) del celebre detto “la politica è la più alta manifestazione dell’amore al prossimo” di montiniana memoria. C’è da arrendersi, allora, allo spirito del tempo che, tra populismi e sovranismi, tra la politica fatta in tv da Barbara d’Urso e un Papeete qualsiasi, ha trasformato l’arte di governare in una cosetta per polemiche social quotidiane, sbraitamenti belluini e scelte governate dall’occhio teso spasmodicamente ai sondaggi?
Quel che vorrei qui sostenere è che, secondo me, la lotta per una fecondazione seria tra fede e politica va affrontata su un altro campo. Esiste un ambito molto vasto per quello che va sotto il nome di pre-politico, ed è su questo che come credenti dobbiamo insistere. Mi spiego.
Quello che a me sembra mancare nel popolo cristiano, e ahimè, duole dirlo, a tanti suoi pastori, è il quid sociale dell’annuncio evangelico. Una battuta dell’allora cardinal Bergoglio lo spiega bene, traslando il ragionamento. Bergoglio, in un messaggio agli insegnanti di Buenos Aires, disse anni fa che “la scuola non serve per servire la società, ma per cambiarla”. Se sostituiamo la parola “fede” a “scuola”, il discorso regge comunque. La fede biblica è una fede sociale, concreta, attiva, impegnata. Che vuole far germogliare in terra i semi del Regno di Dio. Che è regno di giustizia, di pace, di solidarietà – vedasi le Beatitudini, per esemplificare. Spesso, invece, la nostra fede resta recintata nel privato, nelle nostre belle devozioni spirituali (oh, ci vogliono anche quelle), nei rosari e nelle litanie, ma spesso non si fa carico della grandezza del mondo. Che può voler dire una questione sociale prossima (un’azienda che chiude, i migranti della casa-accoglienza nel Comune di riferimento, un disagio abitativo di un gruppo di famiglie, una questione educativa scottante in una scuola – pensate alla pornostar in cattedra in una scuola toscana qualche tempo fa). Ecco. Lo dico per esperienza professionale: quando, come direttore di Editrice missionaria italiana, volevo proporre nelle nostre parrocchie approfondimenti culturali o editoriali su questioni mondiali come la situazione in Myanmar o simili, beh … devo dire la verità, spesso mi sono autocensurato pensando che tanto nelle nostre comunità non si va più in là del proprio naso. Figurarsi pensare al popolo birmano che in questi mesi lotta per la democrazia e la libertà…
A cinque anni mio padre, artigiano con in tasca la seconda elementare, mi ha portato ad ascoltare Helder Camara nel seminario di Verona. Ebbene. Oggi una diocesi non inviterebbe neppure un Helder Camara (semmai ci fosse: sì, ce ne sono …), perché tanto «alla gente non interessa». Non interessano le grandi questioni (la miseria nel mondo, la giustizia sociale, gli squilibri Nord-Sud, la destinazione universale dei beni… per esemplificare) perché noi le abbiamo rese disinteressanti, forse.
Se invece si educasse il popolo cristiano che “nulla che è umano è estraneo a Cristo”, come recita il teologo inglese Timothy Radcliffe, beh, si capirebbe che la questione agraria in Brasile, la terra dei fuochi in Campania, la situazione dei kachin in Myanmar, così come la disoccupazione nel nostro Veneto, o la rotta balcanica dei migranti, o ancora la questione educativa del gender nella scuola, ebbene, a un credente tutto questo dovrebbe interessare. Perché nella filigrana di questi eventi egli può scorgere e trovare la presenza di Dio nella storia di oggi. Di qui in concreto, per non restare sul vago, dovrebbe partire un’ampia scuola di alfabetizzazione sociale delle nostre parrocchie (ripeto: partendo dai nostri pastori, che in Seminario dovrebbero essere educati a guardare un po’ meno la Champions League e a leggere un po’ più spesso La Civiltà Cattolica: lo so per esperienza, gli esempi non sono a caso), facendo una grande alleanza con il mondo del terzo settore, dell’editoria cattolica, della stampa missionaria, dell’animazione culturale che è presente e lotta insieme a noi.
Un’ultima annotazione. Di metodo. Ho elencato, volutamente, alcune questioni culturali e geopolitiche di varia estrazione, per semplificare: sia di “sinistra” (migranti e povertà) sia di “destra” (questione gender). In questo seguo maestri ben più ferrati di me, vedi un Erio Castellucci, vescovo di Modena, che denuncia come i cattolici oggi in Italia sono diventati … scattolici, perché si lasciano influenzare chi da destra chi da sinistra nel proporre i propri ideali e le proprie battaglie. Solo se il cattolico, cioè l’«universale», tornerà all’altezza della propria vocazione, nel campo pre-politico, anche in quello politico ci sarà una voce cattolica chiara, ascoltabile e degna di attenzione. Altrimenti, l’impressione è quella di essere ormai “dietro il carro” della discussione pubblica, a rimorchio di chi, di qui o di là, sbraita il proprio sentire. Papa Francesco, con l’universalità del suo messaggio, ce lo testimonia. Saremo all’altezza di una voce così?