I tentativi di indagare, da un lato, il mondo cattolico italiano, dall’altro, gli atteggiamenti e le scelte dei cittadini nei confronti della politica restituiscono quadri in continua evoluzione e densi di aspetti problematici e contraddittori. Coloro che si auto-definiscono cattolici sono sempre meno, pur continuando a costituire la maggioranza della popolazione, molto minori appaiono i numeri dei cosiddetti praticanti regolari, presenti soprattutto nelle età più avanzate. La fiducia nei partiti politici e nella massima istituzione rappresentativa, il Parlamento, pur in ripresa secondo l’ISTAT, riguarda sempre una netta minoranza, come attesta il calo eclatante della partecipazione al voto, scesa del 20% in poco più di 20 anni. Lo sfondo interpretativo di entrambi i fenomeni sta nel grande e veloce cambiamento socio-economico, culturale e antropologico che ha profondamente modificato stili di vita, credenze, appartenenze, atteggiamenti, accentuando le differenze sociali, generazionali e territoriali, in una situazione di crescente incertezza e disorientamento.
Se per i cattolici “anagrafici” gli atteggiamenti nei confronti della politica sono probabilmente condizionati dal contesto culturale in modo analogo a quello di tutta la popolazione, per i cattolici più presenti e impegnati nel mondo ecclesiale hanno certamente un’influenza le posizioni, espresse in modo esplicito o implicito, dalle gerarchie dell’istituzione Chiesa, veicolate da parroci, preti e laici responsabili di vari ambiti nelle parrocchie. Senza mezzi termini don Rocco D’Ambrosio, ordinario di Filosofia Politica alla Gregoriana, ha affermato che il disagio cattolico ha radici lontane perché “esistono comunità che, per decenni, hanno sentito parlare della testimonianza cristiana legata solo ad alcuni temi… Decenni vissuti con questo stile pastorale e dottrinale – specie nel periodo della presidenza Cei del cardinal Ruini – generano questo tipo di cattolici, per i quali l’adesione a Cristo coincide con la fedeltà ai soli principi di bioetica e morale sessuale, alla messa in latino e allo sfarzo e potere ecclesiali di medioevale memoria. Per loro, come per Schmitt, l’amore per il nemico riguarda solo la famiglia e ambiti privati. Fuori è possibile, è quasi etico fare guerra, esprimere posizioni razziste, rifiutare e condannare senza appello; dove il ‘fuori’ è luoghi di lavoro, società, gruppi, comunità, istituzioni, organismi internazionali. L’esatto contrario di quanto raccomanda la Fratelli tutti”.
È vero però che le posizioni politiche dei cosiddetti cattolici impegnati o presenti regolarmente alle messe domenicali sono molto variegate, rappresentando ogni opzione partitica possibile, dalla destra alla sinistra, anche se, nella maggioranza dei casi, senza una partecipazione attiva al dibattito e all’azione politica. La questione del rapporto fede-politica sembra latitare in ambito ecclesiale, come dimostrano la netta rarefazione dei corsi di formazione socio-politica e la scarsa presenza negli organismi di partecipazione laicale di temi attinenti al lavoro, all’istruzione, alle disuguaglianze crescenti, alle scelte economiche e finanziarie, che dovrebbero costituire il cuore di una Chiesa in uscita. Diocesi e parrocchie, di fronte alle situazioni di povertà e ingiustizia, attivano il loro impegno nell’ambito della carità, spesso delegata agli organismi specializzati, ma senza entrare nel merito delle cause, quelle che gli stessi documenti ecclesiali definiscono strutture di peccato, contro le quali si possono eventualmente prendere in astratto posizioni critiche quando riguardano aspetti di economia illegale, dalle mafie alla corruzione, ma non se coinvolgono un intero sistema che legalmente produce disuguaglianza ed emarginazione sociale.
Quando mai nei Consigli Pastorali si affrontano questi argomenti, facendo discernimento sulla storia e le vicende del proprio territorio alla luce del Vangelo? Le visioni politiche, analogamente alle questioni connesse relative alle scelte economico-finanziarie sia personali sia collettive e sociali, restano in genere escluse dai dibattiti ecclesiali: si evocano ovviamente ideali di giustizia, pace, solidarietà, ma rispetto a un approccio concreto, quindi inevitabilmente politico, ai problemi sembra operare una sorta di tabù.
Più di 20 anni fa, Enrico Chiavacci sulla rivista Jesus denunciava senza mezzi termini le “gravi colpe della teologia cristiana, cattolica e protestante (soprattutto riformata nordamericana). Colpe della teologia sistematica, che si è occupata solo della salvezza delle singole anime dimenticando totalmente il cammino dell’umanità verso la pienezza del Regno. Colpe della teologia morale che si è fermata, a partire dal Catechismo Romano dopo il Concilio di Trento, al tema del ‘non rubare’: il vero tema della morale economica nel Vangelo è invece quello del significato che i beni terreni hanno nell’orizzonte di fede del cristiano… Occorre dunque ripensare nelle sue radici l’annuncio morale cristiano sulla storia e sull’economia: il Concilio ha indicato con chiarezza la via, ma finora sembra che pochi se ne siano accorti o siano disposti a seguirla senza compromessi… Se la teologia non saprà leggere l’economia come vero luogo teologico, luogo in cui dobbiamo cercare – studiando con passione, piangendo e pregando – quale sia il progetto e la chiamata di Dio per noi qui oggi, la Chiesa avrà tradito la sua missione”. Sotto accusa, come in Fratelli tutti, è il modello liberista mondiale, la cui essenza si sostanzia nel titolo dell’intervento: In nome del dio profitto.
Con poche eccezioni, i cattolici più interni al mondo ecclesiale hanno una visione teologica frammentaria e spesso incoerente, desunta non da studi e approfondimenti personali, ma da quanto hanno respirato nelle chiese e negli incontri ecclesiali, con un peso significativo, soprattutto per le persone più avanti negli anni, di una formazione acquisita in età infantile e adolescenziale, caratterizzata da approcci semplificatori e non di rado sostanzialmente preconciliari. Richiami espliciti alla teologia provocano spesso nei consessi ecclesiali reazioni stupite e diffidenti.
Eppure, dietro alle scelte politiche dei cattolici, ormai distribuite, dopo il tracollo della Democrazia Cristiana, in tutti i partiti dalla destra alla sinistra, si collocano visioni teologiche, pur generalmente implicite, diverse e spesso conflittuali. Per molti il rapporto difficile fra fede e politica sfocia nell’allontanamento da ogni partecipazione attiva e in decisioni di voto ondivaghe dettate dall’impressione del momento; in altri casi si polarizza invece la scelta per posizioni di destra, identificate con la difesa di valori quali vita e famiglia, o di sinistra, con riferimento prioritario a pace, solidarietà, giustizia sociale. La contrapposizione fra cattolici di destra e sinistra su temi in materia di unioni omosessuali, disegno di legge Zan, suicidio assistito, eutanasia riflette una grande eterogeneità presente anche nel dibattito teologico, tanto da attivare critiche roventi nei confronti dello stesso papa Francesco. Anche tali temi risultano in genere assenti all’interno degli organismi di partecipazione ecclesiale: l’obiettivo sembra quello di evitare ogni possibile terreno di conflitto, con la sterilizzazione del confronto.
Meno evidente appare la divisione fra cattolici per quanto riguarda i meccanismi economici imperanti denunciati in Fratelli tutti: bene comune è certamente un termine condiviso e anche le critiche al modello neoliberista hanno ormai trovato cittadinanza in ambito ecclesiale, ma si tratta, utilizzando un’espressione di papa Francesco, di ideali astratti, che non suscitano prese di posizione politica su aspetti concreti quali redistribuzione della ricchezza, limiti alla proprietà privata, sistemi di tassazione, accoglienza dei migranti. “La comoda indifferenza di fronte a queste questioni svuota la nostra vita e le nostre parole di ogni significato” (EG 203); dire che la proprietà privata non è intoccabile attiva immediatamente l’accusa di comunismo, anche nei confronti del papa.
Possiamo continuare a non porre questi temi, con la conseguente ricerca di scelte personali e soluzioni politiche, al centro dei dibattiti ecclesiali e del confronto nei Consigli Pastorali? Domanda retorica cui il papa aveva già risposto chiaramente nel 2013, sottolineando l’insufficienza degli interventi assistenziali che caratterizzano l’impegno ecclesiale: “I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali” (EG 202).
In positivo, quindi, la giustizia sociale diventa per i cattolici la questione dirimente, alla luce del Vangelo, come impegno per la costruzione del Regno.
Sembra paradossale che un forte invito a recuperare un rapporto fra Chiesa e Stato, fra cattolici e politica, senza ignorare i cattolici o strumentalizzarli per ragioni elettorali, sia venuto qualche anno fa dal presidente dello Stato considerato l’emblema della laicità. Rispondendo al Presidente della Conferenza episcopale francese, che aveva proposto congiuntamente due temi di solito separati, quali bioetica e migranti, all’origine del conflitto fra fede e politica, ma anche divisivi all’interno dello stesso mondo cattolico, Macron, nella prospettiva di un umanesimo realista, chiede alla Chiesa un impegno in campo politico e non solo associativo-caritativo: “Il dono dell’impegno che vi sto chiedendo, è questo: non rimanete fuori della porta. Non rinunciate a questa Repubblica, che avete così fortemente contribuito a forgiare. Non rinunciate a questa Europa, di cui avete nutrito il senso. Non lasciate incolte le terre in cui avete seminato. Non togliete alla Repubblica la preziosa rettitudine che tanti fedeli anonimi apportano alla loro vita di cittadini. Al centro di questo impegno, di cui il nostro paese ha bisogno, vi è la parte di indignazione e di fiducia nell’avvenire, che voi potete apportare”. Un impegno che non significa arruolamento, perché la Chiesa, ammette Macron citando Mounier, non è “Mai del tutto del proprio tempo”, ma proprio per questa sua “libertà di parola, in un’epoca in cui i diritti vengono sbandierati, presenta spesso la particolarità di ricordare i doveri dell’uomo. Verso se stessi, verso il prossimo o verso il nostro pianeta”, con una voce ora rivoluzionaria ora conservatrice o, paradossalmente, entrambe le cose al tempo stesso. E qui sta la complessità del rapporto fra fede e politica, nella ricerca di un’autonomia che non degradi in separazione e indifferenza.
Ai cattolici viene chiesta una partecipazione di pensiero e di azione, culturale e politica, proprio di fronte alle grandi sfide del presente e alla crisi delle istituzioni democratiche. Sottrarsi a tale compito è una grave responsabilità: “Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti” (EG 207).
Non sembra che la maggior parte delle comunità ecclesiali ne abbia preso atto. Il papa, contro ogni illusione di risultati immediati, propone di iniziare processi più che di possedere spazi, di affrontare e risolvere i conflitti, senza eluderli, di ancorare sempre le idee e la Parola alla realtà, di integrare locale e globale in una prospettiva di bene comune con tutti e per tutti, di dialogare e collaborare con le diverse forze sociali a un patto sociale e culturale.
Perché non iniziare i processi, nell’ambito degli organismi di partecipazione ecclesiale, dal discernimento evangelico proposto dal papa, per prendere posizioni pubbliche sui temi che oggi interpellano le comunità, dalle politiche per il lavoro alla scuola, dagli interventi economici ai comportamenti quotidiani di consumo e di impiego del denaro? Qualcuno si è interrogato sugli aspetti etici della lotteria degli scontrini o sulla richiesta di ristori anche da parte di chi aveva comunque mantenuto redditi alti (la Corte dei Conti ha scritto: “si pone ora la necessità di collegare le indennità alle condizioni economiche complessive dei percipienti”)?
Perché non intervenire agli incontri promossi da altre forze sociali per attivare un confronto di proposte? Ma è auspicabile anche la capacità di diventare promotori di tavoli di progettazione in ambito comunale per definire alleanze educative e sociali.
Forse potrebbero essere queste alcune modalità operative per incarnare “l’ineludibile dimensione sociale dell’annuncio del Vangelo” (EG 258), “studiando con passione, piangendo e pregando”, come diceva Chiavacci, accettando sfide, rischi e limiti nel coniugare Vangelo e giornale, Bibbia e Costituzione: fede e politica, appunto.