Non completa afasia, ma dicotomia
Nel discorso avviato dal Forum su “Fede e Politica” si dà per scontato che si sia prodotta una separazione netta e generale tra le due realtà, nel senso che non si parlano più. Concretamente, i vescovi tacciono ormai da tempo su questo fronte, non se ne discute più nelle nostre comunità, mancano voci autorevoli nell’ambito politico che rappresentino il mondo cattolico.
Tuttavia c’è un settore dell’attività politica in cui i vescovi, molti movimenti cristiani e molti cristiani intervengono costantemente e direttamente. Si tratta di quel vasto ambito che riguarda l’inizio e la fine della vita umana, l’aborto, la natura della famiglia, il rapporto coniugale, l’identità sessuale. In questi ultimi anni la politica è entrata in maniera massiccia in tutti questi settori della vita sotto l’insegna della tutela e della promozione dei cosiddetti diritti civili. La chiesa tiene da sempre sotto stretto controllo questo ambito, intervenendo nell’attività legislativa dei governi in maniera puntuale, discutendo sui singoli articoli, sulle singole parole, sulle virgole.
Quindi lo scenario di fronte al quale ci troviamo non è una completa e generale afasia della chiesa nel campo della politica, ma una netta dicotomia: in un ambito un continuo intervento diretto, in un altro – quello dei rapporti economici e sociali – quasi silenzio.
Perché succede questo?
Di solito si dice che il primo ambito tocca direttamente la vita delle persone, mentre il secondo riguarda le relazioni sociali che sono esterne alla persona. Tuttavia è ormai convinzione comune nella visione cristiana dell’uomo che anche le relazioni sociali sono costitutive della persona per cui riesce difficile capire questa divaricazione. Quindi si pone la domanda perché ora la chiesa, soprattutto in Italia, intervenga scarsamente in politica sul settore riguardante le relazioni socioeconomiche e intervenga, invece, abbondantemente sui provvedimenti politici riguardanti vita, famiglia, sessualità. Tutto questo fa pensare che questa dicotomia sia un sintomo di qualcosa di profondo che riguarda la fede stessa. Una frattura nella stessa fede.
Il caso della Chiesa Confessante di K. Barth
Per tentare di dire qualcosa a riguardo, prendo lo spunto da un fatto ormai lontano del tempo, ma che ha aperto una visione diversa nel rapporto tra fede e politica. Si tratta della posizione assunta da Karl Barth, il noto teologo del secolo scorso, di fronte al regime hitleriano. Siamo nel 1933, Barth viene sollecitato da più parti a dire una parola su quanto sta succedendo, soprattutto dopo la creazione del movimento dei “Cristiani Tedeschi” che si era schierato a fianco del Fuhrer giustificando in nome della fede la sua politica. Lui scrive un opuscolo, “Esistenza teologica oggi”, nel quale racconta che nel pieno della polemica ha incominciato le sue lezioni all’università dicendo: «Facciamo lezioni ed esercitazioni tali quali facevamo prima, come se nulla fosse accaduto, se mai in un tono leggermente più alto, ma senza riferimenti diretti». Sembrava che Barth si disimpegnasse totalmente dalla tragedia che stava maturando, con la fuga nel religioso. In realtà da quel libro scaturì l’unica vera e radicale opposizione al regime nazista da parte dei credenti cristiani. Le riflessioni di Barth su che cosa significhi esistenza cristiana stimolarono la reazione di molti cristiani riformati che si riunirono in sinodo a Barmen e definirono la posizione di quella che venne chiamata la “Chiesa Confessante” in contrasto netto con i “Cristiani Tedeschi” e con la politica del Terzo Reich. Molti aderenti ad essa furono arrestati della Gestapo e morirono in nome della fede cristiana, tra questi D. Bonhoeffer.
Ma che cosa intendeva Barth con quella sconcertante espressione “continuiamo a fare teologia come prima, come se niente fosse successo”? Secondo il teologo è nello sforzo di cogliere l’essenza pura della fede, come modo totalmente nuovo di esistenza, che si possono trovare le ragioni vere per non cadere nel banale errore dei cristiani tedeschi che vedevano in Hitler un salvatore in sintonia con il discorso cristiano della salvezza. La fede, secondo il teologo, è obbedienza assoluta alla Parola di Dio, una totale sottomissione ad essa della propria esistenza in tutte le sue dimensioni. La comunità cristiana vive solamente di essa e le decisioni devono ispirarsi solamente ad essa. Se una parola umana pretende di imporsi come parola che esige l’obbedienza dovuta a Dio, deve essere respinta senza esitazioni.
La prima proposizione della dichiarazione del sinodo di Barmen afferma: “Gesù Cristo, così come ci viene attestato nella Sacra Scrittura, è l’unica Parola di Dio. Ad essa dobbiamo dare ascolto, in essa dobbiamo confidare e ad essa dobbiamo obbedire in vita e in morte. Respingiamo la falsa dottrina, secondo cui la chiesa, a fianco e aldilà di quest’unica parola, potrebbe e dovrebbe usare come base della propria predicazione anche altri eventi e forze, figure e verità riconoscendo loro il carattere di rivelazione di Dio”.
La dichiarazione dell’assoluta sovranità della Parola su tutta la vita umana non segna un ritorno alla visione integralista del passato per cui la chiesa aveva la pretesa di dire l’ultima parola anche sulla gestione della vita sociale, subordinando al suo potere i poteri mondani. Quella rivendicata dalla Parola di Dio è una sovranità totalmente altra rispetto alla sovranità rivendicata dai poteri umani. Essa proviene dalla concezione barthiana della trascendenza di Dio che sfugge ad ogni cattura da parte dei nostri concetti. Dio non è raggiungibile dai nostri ragionamenti, nemmeno per quanto riguarda la sua esistenza. Dio si manifesta a noi per sua libera e gratuita iniziativa di fronte alla quale noi non possiamo che dire “sì” o “no”. È stata questa assolutezza della fede che ha permesso a Barth di capire subito l’’inaccettabilità del potere nazista che pretendeva la sottomissione della chiesa con la promessa di concederle protezione e privilegi, rendendola così più forte e più sicura.
Alterità di Dio e adesione di fede
La trascendenza di Dio e l’assolutezza dell’atto di fede come obbedienza incondizionata alla sua Parola sono sempre state affermate dalla fede cristiana, incominciando dall’impronunciabilità del nome di Dio rivelato a Mosé, fino alle affermazioni di Gesù riguardo alla inconoscibilità del Padre: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11, 27). Ma questa assoluta trascendenza di Dio non è da intendere in termini di grandezza mondana. L’onnipotenza di Dio non deve essere concepita come un potere più grande che supera ogni potere umano. La trascendenza di Dio non consiste nel fatto che è “più” dell’essere creato, ma che è “altro” da esso.
Tuttavia, l’obbedienza incondizionata alla sua Parola non significa che essa dia risposta ad ogni problema dell’esistenza in questo mondo e renda nulla ogni iniziativa umana. L’ alterità di Dio non lo separa dall’uomo. La rivelazione ci presenta Dio come uno che è sempre con l’uomo e per l’uomo, fino all’inscrutabile decisione da farsi lui stesso uomo.
Il capovolgimento di Dio
Come può Dio mantenere la sua trascendenza diventando così immanente all’umano? Lo fa capovolgendo tutte le nostre idee, incominciando dalla nostra idea di Dio. Lo fa attraverso la “follia della croce”. La grandezza di Dio, la sua “Gloria”, si manifesta nella ignominia della croce. Dio mostra la sua sublime trascendenza nell’annullarsi e nel mettersi in balia della malvagità umana che domina il mondo fino ad accettare di essere ucciso. Il suo potere onnipotente si manifesta non nell’imporsi su tutti gli altri poteri come il più forte, ma nel sottomettersi ad essi.
Tuttavia, questa sottomissione non è cedimento alle forze del male, ma è espressione dell’unica e vera forza che si contrappone al male: la forza dell’amore. La sua morte è dono della sua vita per la nostra vita. È la manifestazione dell’amore divino, totalmente gratuito e disinteressato, come forza di vita invincibile rispetto ad ogni potere che si presenti come autoaffermazione superba che si pensa invincibile rubando vita altrui per sé. Per la potenza del suo gesto di amore – amore di Dio -, risorge da morte.
È nell’adesione a questo capovolgimento operato dal mistero della croce e risurrezione di Gesù che il cristiano crede di poter attingere alla misteriosa vita di Dio e di trovare la strada di vita in questo mondo. San Paolo alla comunità di Corinto dilaniata da fazioni interne dichiara: “Io ritenni infatti di non saper altro tra voi se non Gesù Cristo e Cristo crocefisso” (1 Cor 2,2). Il Regno di Dio annunciato fin dall’inizio da Gesù al quale dobbiamo convertirci e per il quale dobbiamo impegnarci in questo mondo, si manifesta nel mistero della morte e risurrezione di Gesù.
La forza dell’amore
La morte in croce di Cristo manifesta, innanzi tutto, che la vera forza capace di superare la morte e aprire alla vita è l’amore. La risurrezione è il segno supremo della verità della sua parola che mette l’amore al centro dell’esistenza come unico comandamento.
Se per noi è inconcepibile che l’onnipotenza di Dio si mostri in questo atto di sottomissione, fino a lasciarsi uccidere, tuttavia il senso dell’amore non è per noi sconosciuto, perché nonostante tutto siamo capaci di amare. Non siamo solo capaci di odio, ma anche di benevolenza, solidarietà, gratuità, altruismo: tutte articolazione dell’amore. Amore imperfetto e quindi inefficace, sempre, alla fine, sopraffatto dall’odio, ma pur sempre amore. Questa è una radice buona che comunque rimane nell’uomo peccatore e per questo può essere raggiunto dall’amore misericordioso di Dio e affidarsi totalmente a lui sottomettendo la propria vita alla sua parola-comandamento.
Il grido dei poveri
In secondo luogo la croce, in quanto uccisone di un innocente, rivela che il rifiuto di amare, male che domina il mondo, ha come primo effetto di sacrificare continuamente persone innocenti. La tendenza dell’uomo di chiudersi in se stesso e usare gli altri come mezzo della propria realizzazione, crea continuamente scarti sociali, persone sacrificate al benessere di pochi. Gesù accetta di essere vittima della prepotenza umana, di mettersi dalla parte degli scartati, dei crocifissi, di essere innalzato sulla croce che nel “civile” mondo romano era la pena riservata agli schiavi ribelli. La sua risurrezione mostra che l’assoluta potenza di Dio agisce nella debolezza. Dice ancora Paolo: “Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti” (1 Cor 1,27).
Dio è colui che ascolta il grido degli oppressi e si impegna e ci impegna a salvarli, come è rivelato nel momento cruciale della storia del suo popolo, quando Dio ha parlato a Mosé: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti, conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…perciò va’ io ti mando “(Es 3, 7-10). E Gesù dichiara che lui si identifica con tutti i deboli del mondo:”Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…” (Mt 25, 35…).
Il grido degli oppressi mette a nudo il male del mondo, per cui è nell’attento ascolto di questo grido che abbiamo la possibilità privilegiata per individuarlo bene e trovare i mezzi efficaci per superarlo.
Papa Francesco nella Evangelii Gaudium dopo aver esaminato alcuni testi della Scrittura riguardante la scelta dei poveri da parte di Dio, dichiara: “È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo” (n. 194). Di conseguenza afferma: “Per la chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica…. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della chiesa” (n.198).
La missione della chiesa
La chiesa ha come missione di annunciare il mistero di Dio rivelato da Gesù e di proporre il percorso di vita da lui indicato nei suoi due aspetti evidenti nell’evento della croce: l’amore come ciò che fa vivere, e la scelta dei poveri come voce da ascoltare e come luogo in cui collocarsi nella società.
Per compiere questa missione deve scrutare attentamente e continuamente le Scritture, ma anche i “Segni dei tempi” – la storia – perché la Rivelazione del Dio trascendente e inconoscibile è sempre avvenuta attraverso i fatti della storia, fino all’evento definitivo della morte e risurrezione del Figlio Incarnato. Il credente si affida incondizionatamente alla Rivelazione di Dio, ma essendo “chiusa” nel canone dei libri sacri, scritti in un determinato tratto della storia, deve continuamente tendere l’orecchio della fede per ascoltare Dio che continua a parlare nella storia. Mi sembra che la carenza più rilevante lungo la storia della chiesa sia stata quella di non ascoltare sufficientemente la storia, di essere poco attenta ai “segni dei tempi” e questo le ha anche impedito di leggere in maniera più completa la Scrittura e l’ha obbligata a precipitose rincorse. La lettura della storia per cogliere i segni dei tempi é un impegno difficile e rischioso, data la complessità e l’ambiguità della storia. Il discernimento deve essere fatto seguendo rigorosamente i criteri sconcertanti manifestati da Gesù e non i criteri umani e in maniera comunitaria.
“Come se nulla fosse successo”
La missione della chiesa comporta di parlare. La chiesa deve parlare sempre in modo chiaro e forte, senza reticenze e ambiguità: “Sia il vostro parlare ‘Sì, sì’, ‘No, no’; il di più viene dal Maligno”(Mt 5, 37). È ciò che la Parola di Dio chiama “parresia”. Deve annunciare Gesù Cristo crocifisso e risorto e il capovolgimento che tale evento provoca nel modo di concepire e ordinare la vita in questo mondo. Deve annunciare la “follia e lo scandalo della croce”, e non limitarsi a parole di buon senso e di sapienza umana.
Deve annunciare il Regno di Dio senza confusioni e compromessi con i regni del mondo. Deve annunciare il Regno di Dio come se “nulla di ciò che succede nel mondo” interessi il Regno di Dio, ma, nello stesso tempo, pronta a denunciare ciò che nei regni del mondo contrasta con Regno di Dio e a resistere alle tentazioni con cui i regni terreni la insidiano. La tentazione più grande è l’offerta di privilegi e poteri mondani. Se guardiamo alla storia, dobbiamo constatare che l’adesione della chiesa a programmi e forze politiche che promettevano di difendere la sua presenza nel mondo e di portare a compimento presunti valori cristiani, purché non pronunciasse quelle parole derivanti dal mistero della croce, ha in realtà sempre portato ad essa discredito e alla società dolorose tragedie. La chiesa deve continuare a parlare con “parresia” anche quando questo comporta diminuzione della sua visibilità e influenza nel mondo.
Distanza e prossimità
La chiesa deve annunciare ciò che va oltre la realtà attuale, tuttavia deve mantenere la sua responsabilità nei confronti della realtà attuale che è quella che Dio ama fino alla follia. La sua missione consiste tutta e solo nell’essere umile strumento di questo amore che pur mirando a portare tutto oltre questo mondo, è efficace già, ora, in questo mondo. Il Regno di Dio non è di quaggiù, ma è niente se non si tenta di viverlo quaggiù. Questo significa che la chiesa pur mantenere la “distanza” dalle vicende del mondo, deve vivere la “prossimità” ad esse, sempre tutta immersa in esse. Deve vivere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono”, ma riconoscendo di non essere in grado di offrire soluzioni e tanto meno di attuarle.
Oggi, che la voce della chiesa è subissata da tante altre voci, per farsi udire, deve innanzi tutto vivere essa stessa in modo evidente ciò che annuncia a parole. Oggi solo i fatti parlano e convincono. La chiesa, nella sua organizzazione e nell’azione pastorale, deve essere segno evidente di fronte a tutto il mondo di amore fraterno e di riscatto dei poveri.
L’autonomia della politica
Da questi limiti della missione della chiesa emerge lo spazio di autonomia e laicità dell’azione politica attraverso la quale si esercita il potere di organizzare e dare forme migliori alla vita degli uomini e delle donne in questo mondo. La chiesa, pur annunciando tutto ciò che la Parola di Dio dice forte e chiaro, deve lasciare alla politica di fare quello che può fare, senza mai sostituirsi ad essa.
Il politico credente deve sempre farsi guidare, come ogni altro credente, dai criteri fondamentali che segnano la via percorsa da Gesù Cristo, senza mai arrendersi a seguire altri criteri. Ma quando agisce nell’ambito politico, se vuole realizzare ciò in cui crede, egli ha a disposizione come strumenti solo le ragioni umane che tutti comprendono. Egli deve usarle per acquisire consenso e con questa forza misurarsi con le altre forze, rispettando le regole del gioco della politica democratica che è la forma che garantisce meglio la dignità e la libertà delle persone. Egli deve impegnarsi al massimo a fare solo quello che ritiene possibile fare nella situazione concreta in cui si trova a operare, riconoscendo limiti invalicabili, che, se ignorati, creerebbero violenze fanatiche.
Il credente che opera in politica, consapevole delle forti tentazione insite nel potere politico, in particolare quello del successo ad ogni costo sulle forze in competizione, deve mantenere viva la fede e la speranza alimentandole con la partecipazione alla comunità di fede.
La rappresentanza del mondo cattolico
Oggi si lamenta una scarsa rappresentanza del “mondo cattolico” nelle istituzioni politiche del nostro Paese. Escludo la possibilità della rappresentanza attraverso un partito e non so valutare se i credenti attualmente presenti nelle istituzioni siano molti o pochi, sufficienti o insufficienti. Penso che sia importante soprattutto la loro qualità e l’effettivo servizio a quel Regno di Dio che deve far fermentare come lievito la società umana. Questo è difficile da valutare, salvo alcune smaccate strumentalizzazioni o asservimenti della fede da condannare senza esitazione.
Il punto di partenza per assicurare una valida e corretta rappresentanza dei credenti nella vita sociale, è la presenza di comunità che vivono in maniera autentica la fede cristiana. Comunità del genere fanno germogliare necessariamente anche “vocazioni” politiche. Se è vero che manca una adeguata rappresentanza dei credenti, è segno che le nostre comunità – la chiesa del nostro Paese – sono deboli nella loro vita o sfasate rispetto alle esigenze del momento storico.
D’altra parte, la condizione prima per una presenza efficiente e coerente di credenti nell’attività politica è che essi vivano una “esistenza cristiana”. Politici che si presentano come cristiani, ma che mostrano una vita personale poco cristiana – a parte la peccaminosità dell’essere umano – non fanno che danni alla chiesa e alla società.
Superare la dicotomia
La dicotomia della chiesa nel suo rapporto con l’azione politica da cui sono partito, è difficilmente giustificabile. La Parola di Dio copre tutta l’esistenza umana, ma tutta anche con i limiti evidenziati. La dicotomia rilevata pone domande. Esistono ambiti della vita nei quali è chiesto di vivere la Parola di Dio integralmente e altri in cui si constata che è impossibile e quindi ognuno faccia quello che può? Esistono dimensioni dell’azione politica in cui la Parola di Dio indica e obbliga con particolareggiata precisione le decisioni da prendere e, invece, settori in cui la Parola di Dio rimane meno precisa, per cui lascia alla politica la libertà di fare quello che può accettando necessari compromessi?
Credo che tutti gli ambiti della vita umana stiano sotto il comando della Parola di Dio e che i credenti, in tutti gli ambiti, sperimentino l’incapacità di comprenderla esaurientemente e di viverla integralmente. Credo che la chiesa debba dire la sua parola in tutti i settori della vita, ma sempre con umiltà e con consapevolezza di non avere conoscenza e risposte quando si scende nelle articolazioni complesse della realtà e nelle situazioni concrete della storia e di ascoltare con attenzione e con discernimento di fede, anche ciò che la scienza scopre. Viene così ribadita anche la giusta autonomia dei cristiani impegnati a cambiare il mondo secondo il Regno di Dio, per la quale devono prendere la responsabilità di fare solo ciò che è possibile nelle situazioni politiche in cui trovano ad operare.