di Paolo Giordano
“Corriere della Sera”, 11 maggio 2020
Dopo essere stati per settimane in rispettoso ascolto degli esperti, dopo le abbuffate di virologia e immunologia ed epidemiologia, il nostro atteggiamento inizia a cambiare. Mentre noi andiamo avanti, gli scienziati restano indietro e continuano a ripeterci le stesse cose. Continuano, in sostanza, a dirci no no no.
Così la scienza si rivela una volta in più per quel che è: un’interdizione al nostro desiderio. L’insofferenza che ci suscita si traduce in una svalutazione sommaria: «e poi, parliamoci chiaro, neppure gli scienziati ci hanno capito granché».
È vero, gli scienziati non sanno. I fisici, esperti della materia, ammettono candidamente di non sapere di cosa è fatto il 95% dell’universo. I biotecnologi, esperti di Dna, non sanno a cosa serve più della metà del nostro genoma, o addirittura se serve. E i virologi, ora così in auge, sono messi ancora peggio, perché non sanno nemmeno la percentuale di quello che non conoscono: hanno censito qualche migliaio di virus, ma i virus sul pianeta potrebbero essere miliardi. Non solo è enorme ciò che non sappiamo: è enorme ciò che non sappiamo di non sapere. Ma quell’enormità è proprio la sorgente di vertigine che porta i giovani scienziati alla loro vocazione, e quella vocazione a non estinguersi.
Da quando la pandemia ci ha investito, l’umanità intera vive in un limbo della conoscenza, dove gli indizi non sono prove, dove le cure sono «promettenti» ma non adeguatamente sperimentate, dove gli articoli sul Covid sono pre-print ancora in attesa di validazione. È una condizione esistenziale tipica per gli scienziati, ma alla quale noi non siamo abituati. E non ci piace nemmeno un po’. Così come non ci piace che quegli scienziati farciscano tutte le loro risposte di prudenza: «è ancora presto per», «dobbiamo aspettare che», «ci vorrà tempo prima di», «non sappiamo, non sappiamo, non sappiamo».
Eppure, con un po’ di lucidità in più e un po’ di paura in meno, sapremmo riconoscere le loro schermaglie come l’elemento politico più nuovo e dirompente di questa crisi. In un’epoca dominata dall’assertività gli scienziati hanno riportato il dubbio al centro del discorso, hanno cercato di rispondere alle domande senza ricorrere a slogan, piuttosto con altre domande, e hanno riscoperto per noi la categoria proibita del non-sapere. Si parla tanto dei cambiamenti che saremo in grado o no di fare nel mondo post-Covid che verrà. Bene, eccone uno particolarmente importante: mantenere viva questa tensione verso ciò che non conosciamo. Esiste un modo di educare al nonsapere? D’insegnarlo già ai bambini, sovvertendo il principio dominante che la conoscenza sia un corpo statico di nozioni di cui appropriarsi pezzo a pezzo? Non ne ho idea, ma varrebbe la pena di rifletterci, anche in vista del rientro a scuola.
Se di qualcosa vanno rimproverati gli scienziati non è certo di non-sapere o di trovarsi in disaccordo, semmai del contrario: di non essere stati abbastanza inflessibili, a volte, nel difendere il confine tra sapere e non-sapere. Di essersi lasciati in parte infettare dal bisogno mediatico di «dare speranza». Stremati dalle richieste di rassicurazione, in molti hanno finito per dire quel che la gente voleva sentirsi dire: «sì, arriverà di sicuro il vaccino»; «sì, quella cura funziona alla grande»; «sì, il virus è più debole dell’inizio»; «sì, il caldo ci aiuterà». Sì, andrà tutto bene.
La compiacenza è la deriva peggiore della politica contemporanea, ma ognuno di noi comprende come sia, in una certa misura, ineliminabile dalla politica stessa. Per uno scienziato la compiacenza è invece un peccato capitale. Come lo è ostentare certezze di cui manca ancora la prova, per quanto si tratti di certezze «oneste», corroborate da osservazioni personali ed esperienza e istinto.
Il governo viene ora accusato da più parti di un atteggiamento paternalistico nei nostri confronti. Non saprei dirlo. Ma è indubbio che il paternalismo ha caratterizzato la comunicazione scientifica fin dall’inizio della pandemia. Il fatto stesso che l’esposizione dei dati sia stata affidata a un organo non scientifico come la Protezione civile dice molto. Così come dice molto l’impalpabilità del Comitato Tecnico Scientifico, mai portato a spiegare in maniera esaustiva e diretta ai cittadini la solidità delle ragioni dietro questa o quella norma, anche quando le norme — distanziare di tot i tavoli dei ristoranti, non aprire le scuole fino a settembre, sanificare i vestiti nei camerini — hanno ripercussioni gravissime sulle nostre vite.
Nei giorni peggiori ci veniva detto: «aumentano i ricoveri e i decessi, ma aumentano anche i guariti». Come se i guariti, per qualche strana inversione del principio di causalità, potessero anche diminuire. Come se il loro numero potesse smorzare la gravità degli altri dati. Non aveva senso, ma se faceva stare più tranquilla la gente, meglio dirlo.
Oppure il famigerato R0, il coefficiente che si è piantato di traverso fra noi e i nostri progetti. Ne parlano tutti. Ma nessuno si è preso la briga, per esempio, di spiegare che parlare di R0 non è più così corretto, che R0 descrive la propagazione del contagio in una popolazione inconsapevole, che non adotta misure, com’eravamo noi a metà febbraio, mentre adesso dovremmo parlare di Rt, di tasso di riproduzione «effettivo», o semplicemente di R. Perché non chiarirlo? E perché non chiarire che per calcolare decentemente R servono flussi di dati costanti e «puliti», cioè corretti dal punto di vista temporale, diversi da quelli della Protezione civile? Perché non spiegare che R è associato a un’incertezza tanto più grande quanti meno sono i casi? Ma no, quelli sono misteri per iniziati. Potrai spostarti di regione quando R sarà inferiore a 0,2. Tanto deve bastarti. (E intanto, ieri in Germania, R veniva stimato di nuovo sopra soglia, a 1,1).
La reticenza è stata una costante del nostro rapporto con gli organi decisionali nel corso dell’epidemia. E le mascherine sono state la foglia di fico per nascondere tutto quello che non veniva detto. Peggio: sono state il tessuto non tessuto per coprire tutto quello che non veniva fatto, o comunque non in tempo. Se consideriamo la frase sibillina che compare nel documento del Comitato Tecnico Scientifico che regola la fase 2: «ci sono però delle incertezze sul valore dell’efficacia dell’uso di mascherine per la popolazione generale dovute a una limitata evidenza scientifica, sebbene le stesse siano ampiamente consigliate»; se mettiamo questa frase in relazione alla quantità di parole spese proprio sulle mascherine, abbiamo forse la stima di quanto gran parte del dibattito sia stato divertito, se non sull’irrilevante, almeno sul non-proprio-rilevante.
Le «comprovate necessità» per affrontare la riapertura erano altre, ma hanno avuto molta meno attenzione: un esercito di tracciatori in carne e ossa, in grado di ricostruire i contatti dei nuovi positivi, nonché di garantire il follow-up dei soggetti in quarantena, la possibilità di isolare i casi in luoghi separati dal nucleo famigliare e di testare tempestivamente qualunque nuovo sospetto. Se n’è parlato, certo, se ne parla ancora, ma mai come delle mascherine. Delle mascherine parliamo molto più volentieri, perché sono più facili. E loro, gli organi decisionali, lasciano che ne parliamo, perché così diventa più facile anche per loro.
«No, aspetti ancora un momento, ascolti ancora solo questa preghiera: dovunque Lei vada, sia sempre consapevole di una cosa, e cioè che qui Lei è nell’ignoranza più totale, e sia prudente». È ciò che l’ostessa dice all’agrimensore K. nel Castello di Kafka, l’agrimensore K. che non capisce nulla di quel che deve fare o lo circonda, perché tutto quel che riguarda il Castello è concepito affinché lui non lo capisca. Sembra l’invito che viene fatto a tutti noi nella fase 2. Separa i tavoli, aspetta che R si abbassi, qualunque cosa sia, per il resto lascia fare a noi. Quando sarai grande capirai.
Ah, e se esci, non dimenticarti la mascherina.