di G. Formigoni
https://www.c3dem.it/dopo-la-pandemia-tendenze-probabili-e-sceltenecessarie/ , 14 Aprile 2020
Dal punto di vista della coscienza storica, non è facile prospettarsi cosa cambierà nel mondo e in Italia dopo che – speriamo al più presto – questa drammatica emergenza sanitaria sarà finita. La storia non si ripete mai, infatti, e gli esseri umani reagiscono in modo straordinariamente creativo alle sfide del tempo che cambia. Hanno una capacità di adattamento agli eventi, che è sempre anche innovazione e originale ricerca. Una cosa a me sembra però piuttosto certa: già cogliere il senso della storia recente ci rende edotti del fatto che l’emergenza favorirà alcune tendenze prevalenti, ma non certo delle piste obbligate. Anzi, per dirla meglio, ogni linea di sviluppo dominante presenterà prima o poi delle opzioni tra cui scegliere.
Proviamo a raccontarla così. Ci sarà indubbiamente la tendenza a chiedere più intervento del pubblico potere. Qualcuno già prefigura un’epoca del ritorno dello Stato, dopo gli anni della crisi della politica e delle istituzioni, delegittimati a favore della spontaneità brillante dell’economia e della società. Vi ricordate il grande insistere sulla «governance» come processo semi-spontaneo di adeguamento progressivo dei modelli e delle regole sociali? Tornerà probabilmente il tempo del «government», con le sue precise attribuzioni di poteri e responsabilità. Sicuramente un bisogno di protezione rafforzerà questa logica, che non era peraltro assente almeno dai tempi della crisi finanziaria del 2008, in anni di tendenze economiche incerte e di instabilità dei mercati. Tornerà a essere quindi comprensibile l’impegno pubblico forte nella sanità – con le necessarie spese – in un paese come l’Italia, che per certi versi era all’avanguardia di un modello di sanità pubblica finanziata dal sistema fiscale, ma dove si era messa negli ultimi decenni a dura prova la tenuta del sistema, con limiti e tagli (a volte collegati a un curioso favore per un modello privato non privo di elementi speculativi). Ma è già da ora possibile identificare un’alternativa che si presenterà: da una parte, si enfatizzerà la difesa dell’identità statuale e nazionale come autosufficiente e totalizzante, nella logica ristretta e un po’ propagandistica dei sovranismi di turno. Dall’altra, ci dovrà essere un ripensamento della statualità come modello istituzionale necessario, capace però di tenere finalmente insieme e di combinare i livelli di gestione dei problemi comuni tra enti locali, stati nazionali e quell’indispensabile quanto fragile ambito di responsabilità comune che chiamiamo Unione Europea. Che a certe dimensioni del problema – di fronte ai giganti del mondo – sarebbe l’unica risposta davvero adeguata alle esigenze di governo.
Ci sarà altrettanto certamente la tendenza a ripensare la globalizzazione, come stagione di apertura e di integrazione del mondo, delle economie e delle società. Anche qui non è che tutto sia nuovo: la stagione della confidente fiducia che la spontanea dinamica dell’unificazione dei mercati mondiali risolvesse tutti i problemi è alle nostre spalle già da tempo: i fantasmi delle guerre commerciali erano iniziati a manifestarsi prima del Covid. È immaginabile un ulteriore colpo della crisi sanitaria nel mettere in discussione i movimenti delle persone, lo scambio generalizzato di beni, le catene di forniture estremamente spezzettate, le raffinate ma prolungate e complicate reti logistiche e di trasporto, le convenienze del vorticoso girar di denari. Tornerà forse di moda la produzione locale, la rete breve, il «piccolo è bello», il «km zero». Ma non è difficile vedere la sfida aperta dietro queste tendenze: se qualcuno intenderà la critica alla globalizzazione come chiusura nel proprio «piccolo mondo», con misure che tengano lontani i «nemici» e i pericoli e si ispirino alla logica del «prima noialtri», credo non abbia capito la lezione della pervasività del virus. Che passa bellamente le frontiere e quindi chiede invece un rafforzamento dei legami tra i diversi, una solidarietà attiva tra parti del mondo rispetto alle emergenze, una circolazione maggiore dei saperi e delle competenze nella comunità scientifica ma anche nella comunicazione pubblica, uno sviluppo del tessuto istituzionale di cooperazione tra le nazioni. Tutto il contrario di una de-globalizzazione grezza e semplicistica. Una globalizzazione 2.0, rivista e aggiornata, magari. Ci sarà poi con molta probabilità la tendenza a inventarsi e diffondere maggiori controlli sociali e tecnici. Stiamo sperimentando limitazioni fino a ieri impensabili del nostro individualistico modo di vivere, in nome della sicurezza e della salute, del corretto distanziamento sociale e della prevenzione del contagio. Non basta quello che già è in corso: ogni giorno appaiono ipotesi e notizie nuove. Braccialetti, app, tracciamenti di dati, controlli di connessioni internet, fino all’ipotesi di monitoraggi continui della salute di ciascuno di noi, centralizzati e gestiti dalle autorità. C’è già in atto uno scambio enorme tra privacy e sicurezza. Non del tutto nuovo nemmeno qui: prima lo scambio generalizzato era tra privacy e servizi tecnologici gratuiti o quasi. Già c’erano alcuni critici di questo meccanismo ineguale, mentre molti sottovalutavano il problema.
A me pare che le prospettive non possono che diventare più delicate, in questa materia. Eppure, non è difficile intravedere un bivio che si porrà anche su questo sfondo di problemi: da una parte si profila una società integrata sostanzialmente autoritaria e fondata sui controlli e la punizione della devianza. Dall’altra, un sovrappiù di responsabilità personale e collettiva, che permetta di coordinare la libertà delle persone con l’attenzione prudente ai comportamenti e alle pratiche di vita. Il confine è forse non chiaramente definito, ma mi pare degno di una riflessione collettiva.
Ci sarà infine la tendenza a ripensare i modelli di vita sulla base della coscienza nuova della propria vulnerabilità. Qui andiamo alle radici della vita e del significato simbolico di noi esseri umani. Forse la lezione più profonda di queste angosciose settimane è che ha dei limiti profondi il nostro universo mentale di uomini e donne moderni e quindi emancipati, che non pensano più a nessun condizionamento soprannaturale e nemmeno a nessuna dipendenza dall’ambiente esteriore. Il nostro stile di vita allegramente basato sulla pretesa di controllo degli avvenimenti, della natura, delle opportunità, si è scontrato con la durezza di un evento che ha mostrato quanto poco siamo padroni del nostro contesto e del nostro futuro. Di fronte a una perturbazione imprevista della natura, ci riscopriamo radicalmente vulnerabili. Qui sta però anche la scommessa e ancora una volta una divaricazione possibile. C’è un crinale sottile ma decisivo. Una modalità di reazione a questa nuova coscienza è il pessimismo antropologico, con la connessa caduta in una spirale di autocommiserazione e di passività, che favorirà magari il rivendicazionismo e il vittimismo. Temo che sarà possibile una situazione anche psicologicamente delicata per molte persone alla fine di questa emergenza. Dall’altra parte sta la risposta adulta e consapevole alla sfida: siamo tutte e tutti figlie e figli. Non ci siamo dati la vita da soli. Ma tale acuta coscienza del nostro limite è anche il luogo dove poter riscoprire la relazione tra sorelle e fratelli, per costruire nella comunità, in modo più umile e grato, un destino che resta per qualità e consistenza in gran parte affidato alle nostre pur fragili mani.