di Josè Mari Castillo
in “ Religión Digital” (www.religiondigital.com) del 15 maggio 2020
È un dato di fatto di cui nessuno dubita: la pandemia di coronavirus è l’evento universale più pericoloso e preoccupante che si è verificato sul nostro pianeta a partire dalla seconda guerra mondiale. E la cosa più grave è che non sappiamo quando o come questo finirà.
Ovviamente, in una questione così straordinaria si è sentita (e si sente) molto la presenza della medicina, dell’economia, della politica, del diritto, dei media e di tutte le scienze, dei saperi e delle tecnologie a cui si potuto ricorrere per rimediare o rallentare questa spaventosa sciagura in cui siamo coinvolti tutti noi esseri umani. Ed è per questo – a causa di questo coinvolgimento universale in un problema così grave che colpisce tutti noi – che sorge inevitabilmente la domanda: e la religione? In questa problematica di così grande gravità si sente la sua presenza?
E se si sente, come viene percepita la sua presenza? Mi pongo queste domande perché fin dalla mia lontana giovinezza mi sono dedicato completamente allo studio ed all’insegnamento della teologia. E, visto che stiamo sopportando il pericolo e le drammatiche conseguenze del coronavirus, per questo non ho smesso di pensare e di chiedermi: E in tutto questo che stiamo sopportando è presente o no la religione? E se lo è, la sua presenza è di qualche utilità? Onestamente in quest’ordine di cose non so cosa stia succedendo in altri continenti e in altri paesi. In Spagna – mi sembra – ci sono sicuramente molte persone che devono essere aiutate dalle convinzioni religiose a sopportare ed a migliorare di fronte alla malattia, alla perdita di persone care, alle privazioni imposte dall’isolamento che stiamo subendo, ai problemi economici che tutto ciò comporta, ecc. ecc.
Ma il problema che in tutta questa faccenda mi preoccupa di più – lo confesso sinceramente – è quello rappresentato dalla presenza (o assenza) della Chiesa in quanto tale. È vero che nei media, proprio quando si parla della pandemia, si menziona ciò che ha fatto o detto papa Francesco, un uomo di Dio che ammiro ogni giorno di più. Ma cosa dobbiamo dire dei vescovi e del clero in Spagna? Come è possibile che a questo punto la Conferenza episcopale spagnola non abbia presentato un documento ufficiale, serio, ben giustificato, sul problema che noi credenti in Gesù Cristo abbiamo a causa di questa pandemia così grave?
Certo, ci sono vescovi e preti di cui si parla nei media in occasione della pandemia. E non mancano casi esemplari, degni di lode e di imitazione. Ma è anche vero che si parla, forse più frequentemente, di eventi sorprendenti e scioccanti grazie ai quali siamo informati del fatto che le forze dell’ordine devono recarsi in chiese e cattedrali per prevenire la violazione delle norme che sono vincolanti per noi tutti.
In ogni caso, nulla di quanto ho detto è la cosa più seria. Ciò che mi fa pensare di più è che, se qualcosa sta emergendo con chiarezza, è evidente il fatto che la nostra Chiesa dà l’impressione che, vedendosi limitata o privata dei rituali, delle cerimonie o delle celebrazioni del «sacro», non ha altri progetti, altri orizzonti e, soprattutto, altre preoccupazioni. Se alla Chiesa chiudono i templi e resta senza messe, battesimi, comunioni, matrimoni, funerali, processioni e funzioni simili, che cosa fa? A chi si dedica? Cosa dice alla gente? Dà l’impressione di non sapere cosa fare e di non avere nulla da dire. Esattamente quello che sta accadendo nella situazione dolorosa che stiamo vivendo.
Tuttavia, questa società (e questo mondo) che sta soffrendo così tanto, ha proprio bisogno di ciò che la Chiesa non riesce a dire. Perché è qualcosa di così importante e decisivo che non si comunica con cerimonie, parole e discorsi. Si comunica con i fatti, con le nostre «opere». Le «opere» («érga») che faceva Gesù (Mt 11,2). Di quali «opere» sto parlando?
Nel Vangelo emerge con chiarezza il profondo interesse di Gesù verso due grandi problemi che preoccupano tutti noi. Mi riferisco alla «salute» e all’«economia».
Soprattutto la salute degli esseri umani, cosa che emerge nettamente nella serie di racconti di guarigioni di ogni tipo di malati. Tenendo conto del fatto che in questi racconti ciò che è importante non è la loro «storicità», ma il loro «significato». Nei quattro vangeli vengono raccolti 67 racconti di guarigioni di malati. Tutti questi racconti hanno lo stesso valore storico? No. Ma insisto: i vangeli non sono libri di storia. Sono una «teologia narrativa», in cui ci viene detto che la principale preoccupazione di Gesù è stata proprio quella che hanno gli uomini: la salute. Ciò che ci interessa di più in questo momento, quando la nostra salute si vede più minacciata.
E insieme alla salute, l’economia. Gesù non è stato un guaritore e attraverso i suoi miracoli non ha preteso di dimostrare che lui fosse Dio. In Gesù si è realizzato ciò che la Teologia cristiana riconosce come il Mistero dell’Incarnazione, che è esattamente l’evento dell’umanizzazione di Dio. Il vangelo di Giovanni lo dice con assoluta chiarezza: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). E Gesù stesso ha detto a uno dei suoi discepoli nell’accomiatarsi da loro: «Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).
Bene, il «Dio umanizzato», che è Gesù, ha visto chiaramente che il problema della salute non si risolve se non si risolve prima il problema dell’economia. Ecco perché Gesù, che ha insistito tanto sulla guarigione dei malati, ha insistito molto di più sul tema evangelico fondamentale della «sequela». Un tema che è stato deformato nella tradizione cristiana, perché è stato interpretato come un problema di spiritualità. Quando in realtà il nucleo della «sequela» di Gesù non è la «spiritualità», ma l’«economia». Infatti seguire Gesù significa abbandonare tutto. In tutti i racconti evangelici di «sequela» la chiave sta nella totale spoliazione: nessuna casa, nessuna famiglia, nessuna fortuna, nessuna sicurezza (Mc 1, 16-21 par; Mt 8, 18-22 par; Mc 2, 14-17 par; Mt 16,24 ss e par; Mc 10, 17-31 par, ecc.). È evidente che chi «segue Gesù» non pensa al proprio interesse, ma alla salute e alla felicità degli altri.
Cosa c’è sullo sfondo di questa esigenza fondamentale? Legarci alla ricchezza, al denaro, alla famiglia e ad ogni sicurezza, qualunque essa sia, ci lega e ci rende incapaci di costituire, come elemento primario e centrale nella vita e nella società, un sistema sanitario uguale e sicuro per tutti. Ebbene, molte persone nella Chiesa non lo hanno capito. E per questo motivo questa nostra Chiesa ha preteso di fondere il Vangelo con la Religione. E alla fine è successo quello che doveva succedere: la Religione dà importanza, sicurezza e denaro, mentre il Vangelo ci crea molte difficoltà, come le ha create a Gesù. Stando così le cose, è vero che nella Chiesa ci sono molti credenti in Gesù che vivono eroicamente il Vangelo. Ma è anche vero che nella Chiesa ci sono persone importanti che hanno scelto la Religione, fino al punto da integrare il Vangelo nella Religione. Con questo hanno reso impossibile comprendere il Vangelo e più difficile viverlo.
Non è oramai arrivato il momento di prendere sul serio il Vangelo e viverlo con tutte le sue conseguenze? Se papa Francesco ha impresso una nuova e più evangelica svolta al papato nella Chiesa, perché l’intero episcopato e il clero nel suo insieme non seguono la stessa strada che il successore di Pietro traccia per noi? Se ciò dovesse accadere, la Chiesa nel suo insieme godrebbe certamente dell’attualità e della presenza che ha il p. Jorge Mario Bergoglio.
Articolo pubblicato il 14.05.2020 nel Blog dell’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com).
Traduzione a cura di Lorenzo TOMMASELLI